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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II
Sì lunghe discordie non poteano ignorarsi dai Cristiani. Que' di Val Demone le aveano usato nella tregua dell'ottocento novantacinque, nella quale sembra entrato, allora o poi, lo stratego di Calabria; atteso che Giovanni Diacono di Napoli dice provocata da cotesto accordo la guerra di Abd-Allah in quella provincia.150 Nel medesimo tempo Sant'Elia da Castrogiovanni, ancorchè ottuagenario e infermo, si apprestava a ripassare in Sicilia, lusingato, forse richiesto, dall'imperatore Leone il Sapiente: Elia da Castrogiovanni, stato ausiliare di Basilio Macedone nel tentato racquisto dell'isola venti anni innanzi; e il vedremo tra non guari incoraggiare, a modo suo, all'estrema difesa il popolo di Taormina.151 Vedrem anco novelli sforzi dei Bizantini: un patrizio e un presidio mandati a Taormina; grand'oste adunata a Reggio; armata venuta di Costantinopoli a Messina. I quali fatti mostrano ad evidenza che l'impero fe' disegno nelle guerre civili dei Musulmani e nel bisogno che avea di lui la colonia ribelle. Dopo la occupazione di Palermo, l'impero armò un poco; suscitò al riscatto le popolazioni cristiane dell'isola, alla guerra quelle di Calabria; trascinato egli stesso dai Musulmani rifuggiti a Taormina, a Costantinopoli e in Calabria, i quali speravano gran cose al certo e molte più ne diceano.
Abd-Allah, sapesse o no coteste pratiche, dovea combattere la guerra sacra, per dare sfogo agli agitati animi dei Musulmani di Sicilia, per soddisfare a sè stesso, alla opinione pubblica, al padre. Non tardò dunque a uscir di Palermo; cavalcò il contado di Taormina; svelse le vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e come l'inverno s'innoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in pianura, la assediò; ma indarno. Perlochè, tornato in Palermo a svernare, apparecchiò più poderosi armamenti, e, abbonacciata la stagione, fe' salpare il navilio a' venticinque marzo del novecento uno. Egli con l'esercito andò a porre il campo a Demona; piantò i mangani contro le mura; le battè per diciassette giorni; ma risaputo d'un grande sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il presidio di Demona buono a difendersi e non ad offendere; e volò con l'esercito a Messina. Par che l'armata vi fosse ita innanzi, e che la città si fosse di queto sottomessa. Abd-Allah passava immantinenti lo stretto. Trovata l'oste sotto le mura di Reggio, un'accozzaglia dei presidii bizantini dell'Italia meridionale e di Calabresi che li abborrivano, i Musulmani la sbaragliaron col solo terrore, dice Giovanni Diacono. Mentre i fuggenti correano da ogni banda per la campagna, Abd-Allah irruppe senza ostacolo in città il dieci giugno. Le feroci genti sue cominciarono una strage indistinta: poi l'avarizia consigliò di far prigioni; che ne ragunarono diciassettemila, tra i quali fu tratto in carcere, come scrive Giovanni, il venerando vescovo dal crin bianco e dalla faccia colorita, spirante dolcezza. Immenso il cumulo della preda: oro, argento, suppellettili; rigorosamente custodito dai vincitori, continua il medesimo autore, e ben si riscontra con la legge musulmana che vieta di scompartire il bottino in territorio nemico. Vi si aggiunsero i tributi e presenti delle città vicine, le quali si affrettavano a mandare oratori chiedendo l'amân; poichè Abd-Allah avea dato voce di volere stanziare a Reggio. Ma improvvisamente ei ripassa lo stretto, sapendo arrivata da Costantinopoli a Messina un armata greca; e la coglie nel porto; le prende trenta legni; fa diroccar le mura della città, per gastigo o cautela. Intanto traghettavano continuamente da Reggio a Messina le navi da carico, zeppe di roba e schiavi. Abd-Allah condusse di nuovo l'armata su le costiere di Terraferma; combattè altri nemici, forse gente dei duchi Franchi di Spoleto e Camerino, condotti ai soldi dell'imperatore di Costantinopoli. In questa impresa il principe aghlabita occupò, il venti luglio, una città di cui non ben si legge il nome, forse Nardò;152 e si ridusse alfine con tutte le genti in Palermo, donde mandò nunzii al padre col racconto delle vittorie e il meglio del bottino. Fino alla primavera del novecentodue, quando andò a trovarlo ei medesimo in Affrica, Abd-Allah soggiornò nella capitale della Sicilia, reggendo i popoli con giustizia e bontà.153
Corse fama in Italia che Ibrahim, intendendo dai messaggi del figliuolo la impresa di Reggio, prorompesse in rampogne: “Non esser suo sangue, no, tener dalla madre, questo svenevole che s'impietosiva dei Cristiani e tornava addietro, principiate appena le vittorie! Se ne venisse dunque a poltrire in Affrica, chè egli, Ibrahim-ibn-Ahmed, andrebbe a mostrare ai nemici di Dio e degli uomini il valor vero della schiatta d'Aghlab.” A queste parole d'ira s'aggiugneano romori contraddittorii: che Abd-Allah segretamente sopraccorresse a corte per falso avviso della morte del padre; che Ibrahim vistoselo accanto, in luogo di incrudelire, gli rinunziasse il regno e ponessegli al dito il proprio anello.154
Così tra le fole si risapea la verità. Al dir d'una cronica araba, la verità era che richiamatisi i Musulmani di Tunis appo il califo abbassida Mo'tadhed-Billah delle enormezze che aveano a sopportare, e mostratogli che certe schiave che Ibrahim gli avea mandato in dono, fosser le mogli e figliuole loro, Mo'tadhed inorridito si risovveniva d'essere pontefice e imperatore. Facea dunque sentire in Affrica, la prima volta da un secolo, i voleri del successor del Profeta. Significavali per un messaggiero; al quale Ibrahim volle farsi incontro in attestato di riverenza, contenendo i superbi movimenti dell'animo, con sì duro sforzo, ch'ei ne fu colpito di malattia biliosa, e costretto a sostare alla sibkha, o vogliam dire stagno salmastro di Tunis. Abboccatosi quivi segretamente con l'ambasciatore, promesse di ubbidire al califo; il quale per bocca di costui, senza comando scritto, gli ingiugnea di risegnare il governo al figliuolo Abd-Allah e rappresentarsi in persona a Bagdad.155 Tanta modestia civile d'Ibrahim si comprenderà meglio, considerando ch'ei già sentiva crollare il trono aghlabita. Una sètta politica, delle tante che ne covavano sotto la teocrazia musulmana, s'era appresa alla forte tribù berbera di Kotâma; e scoppiava già in aperta ribellione, minacciando al paro il principato d'Affrica e il califato. In Affrica, Arabi e Berberi, ortodossi e scismatici, nobiltà menomata dai supplizii e plebe spolpata sotto pretesto di farle giustizia contro i nobili, a una voce tutti maledivan l'Empio, come il chiamarono per antonomasia.156 Minacciavalo di più, dall'Egitto, la dinastia dei Beni-Tolûn, potentissimi di ricchezze e d'ardire, imparentati col califo, usurpatori che per far più guadagno s'offrian sostegni alla legittimità. Sovrastandogli dunque novella guerra civile, complicatissima, spaventevole, senza speranze di uscirne vincitore, ei riformò il governo e abdicò, fingendo d'ubbidire al califo. Notevole è che un altro cronista, copiato o abbreviato nel Baiân, senza far parola del messaggio di Mo'tadhed, attribuisce a dirittura le riforme d'Ibrahim ai movimenti della tribù di Kotâma, e dice che allora ei volle farsi grato all'universale, e riguadagnare gli animi degli antichi partigiani di casa d'Aghlab.157
Pose il nome d'anno della giustizia al dugentottantanove dell'egira (16 dicembre 901 a 4 dicembre 902) che incominciava tra quelle vicende; abolì le gabelle; disdisse le novazioni nel modo di riscuotere le decime;158 rimesse agli agricoltori un anno di tributo fondiario; liberò i prigioni di stato; manomesse i proprii schiavi; cavò dalli scrigni grosse somme di danaro e dielle ai giuristi e notabili di Kairewân per dispensarle ai bisognosi; ma ebberle, aggiugne un cronista, quei che men le meritavano e furono scialacquate.159 Con ciò premurosamente scriveva ad Abd-Allah di venire in Affrica; il quale, lasciato l'esercito in Palermo ai proprii figliuoli Abu-Modhar e Abu-Ma'd, andò in fretta con cinque galee sole.160 Arrivato ch'ei fu, Ibrahim, del mese di rebi' primo (13 febbraio a 14 marzo 902), gli risegnava il principato. Quanto a sè, non potendo rimanere in Affrica nè volendo ire a Bagdad, scrisse al califo ch'ei si metteva in pellegrinaggio per la Mecca. Poi pretestò che convenia passare per l'Egitto, e che ei nol potea senza azzuffarsi coi Beni-Tolûn; onde inviò a Bagdad un'altra lettera: che ad evitare spargimento di sangue musulmano, vedi s'egli era contrito, e a compiere insieme i due precetti del pellegrinaggio e della guerra sacra, piglierebbe la via di Sicilia.161 Forse agitava in mente il pazzo disegno di andare alla Mecca per a traverso i territorii di Cristianità, il Bosforo e l'Asia Minore, poich'egli non avea rinunziato al figliuolo la signoria di Sicilia, e pensò al certo al conquisto d'Italia, e in Italia parlò di quel di Costantinopoli.162 Che che ne fosse, Ibrahim, sceso dal trono, parea rifatto altr'uomo. Dissepolti i suoi tesori e armerie, indossò a mo' degli anacoreti un cilicio tutto rattoppato; andò a Susa a bandire la guerra sacra. Di lì il sedici di rebi' secondo (30 marzo) parte per Nûba, castello in su la marina tra Susa e Iklibia (Clypea); ove fa la mostra dei volontarii; li provvede d'armi e cavalli; dispensa venti dinâr a ogni cavaliero e dieci a ogni fante; e con loro fa vela per la Sicilia.163
CAPITOLO IV
Il tiranno penitente trovò perdono e anche séguito in Sicilia. Sbarcato a Trapani164 verso la fine di maggio165 si messe a far gente: poi cavalcò alla volta di Palermo; giunsevi l'otto di luglio, ma, com'ei sembra, non entrava in città.166 Comandando tuttavia da re non ostante l'abdicazione, Ibrahim alzò in Palermo il Tribunal dei Soprusi; deputò altri a presedervi; ed egli, intento anima e corpo alla guerra sacra, conduceva a soldo marinai, largheggiava stipendii a cavalieri; talchè tra gli Affricani che avea seco e i Musulmani di Sicilia che arruolò, messe in punto un'oste poderosa. Il diciassette di luglio movea con quella sopra Taormina.167
Per fortezza di sito, numero di popolo, tradizioni, e monumenti, era ormai questa la capitale della Sicilia bizantina, degli aspri luoghi, cioè, tra l'Etna e la Peloriade, ne' quali un pugno d'uomini difendeva ancora il vessillo della Croce. Non potendo abbandonar costoro senza vergogna, Leone il Sapiente li aiutava com'ei sapea; che è a dire, poco, tardi, e strambo. Quel che conosciam di certo è che, sovrastando il pericolo pei notissimi appresti d'Ibrahim, Leone teneva i soldati dell'armata a Costantinopoli a fare i manovali nella fabbrica di due chiese e d'un monastero di eunuchi; e ch'avea già mandato a Taormina un presidio con Costantino Caramalo168 e Michele Characto; dei quali il primo fe' mala prova; e il secondo, inferiore in grado, non potè riparare, o almeno il diè a credere.169 Al medesimo tempo Leone richiedeva Elia da Castrogiovanni di pregare per la salute dell'impero, dice l'agiografo, i fatti mostrano, di andare a Taormina; ov'egli, Siciliano, con la sua fama di santità, rozza eloquenza, e venerabile aspetto, prendesse due colombi a un favo, come pareva alla corte bizantina: incoraggiare cioè i combattenti; e mondarli dalle peccata, dalle quali fermamente si credea che venisse ogni sconfitta delle armi bizantine. Elia, ottuagenario, infermo, sostenuto in piè dall'indomabile costanza dell'animo, passava incontanente col fidato suo Daniele, di Calabria in Sicilia, sotto specie di venire a baciar le ossa di San Pancrazio, primo vescovo di Taormina; e si messe all'opera con impeto. Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato; rampognava Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli omicidii, oltraggi, gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava d'Epaminonda e di Scipione, uomini di sì specchiati costumi da far arrossire i Cristiani di quei tempi corrotti; gli ricordava la temperanza e la continenza, come necessarie virtù di chi s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i savii consigli con la macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di profezia, il passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto, la carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: “Vedi; qui in questo letto si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage insanguinerà queste mura!” Un'altra fiata, andando per la piazza maggiore, s'alzava i panni a ginocchio, e richiesto del perchè, rispondea: “Veggo abbondare i rivi di sangue.” Poi girava le strade, in mutande,170 stranamente avviluppato di catene; si poneva un giogo di legno sul collo: per lui non restò di sbigottire soldati e cittadini, se punto credeano a profeti viventi. Così la religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno. Elia, fatto ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di scuoter la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.
Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter chiusi entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di Giardini, presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la combatterono con gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere musulmane balenavano; serpeggiava tra quelle un pensier di fuga; perdeasi al vento la voce d'un che aveva intonato per rincorarli le parole di lor sacro libro: “Sì che ti daremo segnalata vittoria,”171 quando Ibrahim lanciossi nella mischia. Volto a quel pio guerriero: “Perchè non reciti,” gli gridò, “cotesti altri versi: – Ecco due litiganti che disputano chi sia il Signor loro. Ma agl'Infedeli son apparecchiate vestimenta di fuoco e mazze di ferro: su le teste loro si verserà acqua bollente, da strugger viscere e pelle.”172 E quando quegli ebbe fornito i due versi: “O sommo Iddio,” ripigliava Ibrahim, “di te disputiamo quest'oggi io e gli Infedeli;” e tornò all'assalto, caricando con essolui gli uomini più valorosi e di più alto consiglio; i quali fecer impeto che spezzò l'ordinanza nemica. Allora i Cristiani a fuggire sparpagliati; i Musulmani a inseguirli su per le vette dei monti, dicon le croniche, e in fondo ai burroni. Altri scampavano su le navi; e tra questi forse i due capitani bizantini. Altri riparavansi alla città; coi quali alla rinfusa salirono il monte ed entrarono i vincitori; e incalzaronli fino alla cittadella, Castel di Mola, come oggi s'addimanda, che sovrasta all'erta di Taormina da un'erta assai più scoscesa e superba, a distanza d'un miglio. Ibrahim pur tentò un colpo di mano: impaziente di far macello tra la popolazione che s'era messa in salvo nella rôcca, mentre le ultime schiere vi si ritraean combattendo. Girata intorno intorno la costa, sparsi i suoi d'ogni lato, Ibrahim scoprì un luogo ove gli parve ch'uom potesse inerpicarsi con mani e piè; e a furia di promesse cacciò su per quei dirupi un drappello de' suoi stanziali negri; i quali superaron l'altezza, e a un tratto tuonarono agli orecchi dei guerrieri cristiani “Akbar Allah.” S'erano essi adagiati a prendere un po' di cibo, fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no; quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici. Scompigliati e confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi quel pugno di schiavi, non a difendere la strada del castello. Ibrahim dunque, udito il segno de' suoi, salì senza contrasto con le altre schiere; spezzò le porte; e comandò l'eccidio. Era la domenica, primo d'agosto novecento due.173
Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe' trucidare, con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini, i chierici, cui la legge musulmana perdona la vita; fece porre fuoco alla città; dar la caccia ai fuggenti per le foreste di que' monti ed entro le caverne; addurre a sè i cattivi, perchè niuno di cui potea comandare la morte non gli escisse di mano per umanità o avarizia altrui. Così, recatagli una gran torma nella quale si trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim chiamatolo a sè: “Cotesti tuoi capelli bianchi” gli disse “mi ti fan parlare pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in Sicilia sarai secondo a me solo.” Procopio sorrise senza rispondere; e incalzandolo il Musulmano: “Ma tu non sai chi ti parla?” replicò. “Sì; l'è il demonio per bocca tua; e indi rido.” Onde Ibrahim volto agli sgherri comandava: “Sparategli il petto, cavategli il cuore, ch'io vo' cercarvi gli arcani di cotesta mente superba:” linguaggio del vero conio di Ibrahim. Il santo vecchio, dato al supplizio, finchè potè articolare la voce, imprecò contro il tiranno, confortò i compagni al martirio. Aggiugne Giovanni Diacono, autor della narrazione, che Ibrahim, furibondo a tal costanza, digrignando i denti, arrivò a chiedere che gli dessero a mangiar il cuore; e se non compì l'orrenda jattanza, fece scannare gli altri prigioni sul cadavere del vescovo, arderli tutti insieme, e alla fine della festa si levò mormorando: “Così sia consumato chi mi resiste.”174
Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente del Val Demone. Ibrahim, venduti i prigioni e il bottino, e spartito il prezzo tra' suoi, mandava quattro forti schiere; una col nipote Ziadet-Allah a Mico o Vico, fortissimo castello dentro terra, non lungi, credo io, dal Capo Scaletta;175 l'altra col proprio figliuolo Abu-Aghlab, sopra Demona;176 la terza capitanata dall'altro figliuol suo Abu-Hogir177 sopra Rametta; l'ultima contro il castel di Aci178 condotta da un Sa'dûn-el-Gelowi. Delle quali castella, le due prime, sendo state sgombrate già dai terrazzani alla nuova del caso di Taormina, fruttaron solo ai Musulmani quel po' di roba che vi era rimasta. I cittadini di Rametta offrivano di pagar la gezîa; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle gli abbandonassero la rôcca; e, avutala, la smantellò, quanto potea. Similmente que' d'Aci e delle rôcche e fortezze dei contorni, fattisi insieme a chieder patti, non ottennero altro che la vita, fors'anco la libertà delle persone: e uscendo dalle mura che avean sì lungamente e gloriosamente difeso, le videro diroccar dai nemici e gittarne i sassi in mare.179 Pietro Diacono, monaco cassinese del duodecimo secolo, su quest'eccidio di Taormina fabbricò l'apocrifa narrazione accennata da noi nel primo Libro; nella quale affermò che Agrigento, Catania, Trapani, Partinico, Iccara, e le distrutte già parecchi secoli innanzi Cristo, Tindaro, Segesta, Solunto, fossero ville della Badia di Monte Cassino, quando vennero di Babilonia e d'Affrica innumerevoli Saraceni capitanati da Ibrahim a rapir quei ricchi poderi, immolando le migliaia di frati che li tenessero.180
Ma pervenute a Costantinopoli le infauste nuove di Taormina, Leone gravemente se n'accorò, scrivon le cronache musulmane; e per sette dì, ricusava di cinger la corona, dicendo non star bene ad uom tribolato. Continuano a narrare che sorgea nell'universale il generoso pensiero di aiutare i Cristiani di Sicilia; ma che lo sturbò la voce che Ibrahim si apprestasse ad andar sopra Costantinopoli; onde Leone afforzava la capitale con un esercito e pur avviava forti schiere alla volta di Sicilia.181 Il vero è ch'egli volle mandar danaro in Calabria per levar gente e assoldare i feudatarii longobardi o franchi che passassero in Sicilia. Lo ricaviamo dalle memorie bizantine che si accordano con le musulmane nella esposizione dei sentimenti, se non de' fatti. Leone condannò a morte il Caramalo per la viltà o tradimento suo a Taormina; e ai preghi del patriarca di Costantinopoli, commutò il supplizio in professione monastica: strana gradazione di pene in una età in cui la vita monastica, assomigliata all'essere degli angioli, si tenea com'apice di perfezione cristiana!182 Vero altresì che si temesse a Costantinopoli l'assalto, sia d'Ibrahim stesso che minacciava di andarvi,183 sia del rinnegato Leone da Tripoli di Siria; il quale con cinquantaquattro navi, armate in Siria stessa e in Egitto e rinforzate di Schiavoni, nei principii della state del novecento quattro, accennò alla capitale bizantina; fe' voltar faccia a due ammiragli; e, gittatosi sopra Tessalonica, entrovvi dopo tre giorni d'assalto il trentuno luglio.184 Nell'occupazione della quale città si narra un episodio che attesta e le cure di Leone il Sapiente a favor dei Siciliani, e la scempia guisa in che si mandavano ad effetto. Rodofilo eunuco e camerier dello imperatole, viaggiando con cento libbre d'oro destinate all'esercito che dovea mandarsi in Sicilia,185 s'era intrattenuto a Tessalonica per faccende, o, com'altri scrive, per malattia da curarsi coi bagni; quando piombaron su la città i Musulmani di Siria e di Egitto. Allora ei metteva in salvo il tesoro, inviandolo in una provincia vicina; ma fatto prigione ei medesimo quand'entrò Leone da Tripoli, questi n'ebbe spia, gliene domandò conto, e, non credendo alla scusa che allegava, lo fe' morir sotto le verghe. Poi s'ebbe il danaro, minacciando d'ardere Tessalonica.186
Ibrahim-ibn-Ahmed non soggiornò a lungo tra le ruine di Taormina. Ragunate le schiere che avea mandato alle dette fazioni, marciò sopra Messina; stettevi due dì soli; e il ventisei di ramadhan (3 settembre) tra le preci, i digiuni, le luminarie del mese santo e il fanatismo che ne crescea, valicò il Faro con tutto l'esercito. Attraversò l'ultima Calabria senza trovar nemici; sostò non lungi da Cosenza;187 dove, traendo al campo ambasciadori delle atterrite città a chieder patti, Ibrahim li intrattenne alquanti dì; poi rispose nella insolenza della vittoria: “Tornate ai vostri e dite che prenderò cura io dell'Italia e che farò degli abitatori quel che mi parrà! Speran forse resistermi il regolo greco o il franco? Così fossermi attendati qui innanzi con tutti gli eserciti! Aspettatemi dunque nelle città vostre; m'aspetti Roma, la città del vecchiarello Piero, coi suoi soldati germanici; e poi verrà l'ora di Costantinopoli!”
Indi gli oratori a tornarsene frettolosi; e le città ad apprestarsi contro l'estrema fortuna: risarcir mura, alzare bastioni, far provigioni di vitto, ridurre ne' luoghi forti quanti arredi preziosi o derrate fossero nelle campagne. Il terrore giunse infino a Napoli. Tra gli altri provvedimenti, Gregorio console, Stefano vescovo e gli ottimati della città, deliberavano di abbattere il Castel Lucullano, come chiamavasi, a Capo Miseno: villa costruita da Mario; comperata e profusa di delizie da Lucullo; teatro di laidezze e domestici misfatti degli imperatori di Roma; vergognoso confino d'Augustolo che vissevi d'una pensione d'Odoacre (479); mutata poscia in monastero e monumento sepolcrale di San Severino (496); afforzata di mura, occupata dai Musulmani di Sicilia (846): vera tavola cronologica delle rivoluzioni della società italiana per nove secoli. I Napoletani a ragione temeano che quelle moli non fossero occupate di nuovo dalle navi di Sicilia per intercettare la navigazione del golfo. Lavorarono dunque popolarmente per cinque dì a spiantarle e a cercar tra le tombe le ossa di San Severino che volean serbare con gli altri tesori in città; domandandole l'abate del monastero dello stesso nome a Napoli. Trovatele, o credutolo, ruppero tutti in lagrime di gioia: e il dì appresso, che fu il tredici ottobre, le sacre reliquie erano condotte in processione alla città; uscendo all'incontro i magistrati, il popolo e i chierici che salmeggiavano, come parlavansi due lingue a Napoli, chi in greco e chi in latino. Per una settimana gli animi s'agitavano tra così fatte effervescenze religiose e le male nuove di Calabria, quando, a soverchiarli di paura, scherzò nel firmamento non più vista moltitudine di stelle cadenti, la notte del diciotto ottobre, secondo Giovanni Diacono, del ventisette al dire del Baiân, o più fiate in quella stagione, come par che voglia significare Ibn-Abbâr. Aggiugne questi che si sparnazzavano a dritta e a manca a somiglianza di pioggia. Le innocenti asteroidi, o meteore elettriche, o che che fossero, chè la scienza per anco nol sa, passaron tosto in buon augurio, poichè San Severino, comparso in sogno, secondo il costume, a un fanciullo, mandò a dire ai Napoletani che nulla ne temessero e si fidassero in lui che li difendea nella corte del Cielo.188 Risaputasi poscia la morte di Ibrahim, non fu in Italia chi non credesse infallibilmente averne dato segno le stelle cadenti. Un Tedesco, più scaltro, pensò che questo fenomeno, non essendosi visto in Italia sola, dovea risguardar tutti i popoli, onde probabilmente era venuto a compiere una profezia ricordata nel vangelo di San Luca;189 il che torna all'annunzio del finimondo aspettato tante volte in Cristianità. Gli Arabi d'Affrica, come se fossero stati meno superstiziosi, contentaronsi a chiamar quell'anno l'anno delle stelle: ond'ebbe tre nomi, notano i cronisti; poichè Ibrahim gli avea voluto porre anno della giustizia e altri l'avea detto della tirannide. Ma niun Musulmano potea far grave caso delle stelle cadenti, sapendo dal Corano ciò che fossero appunto: demonii curiosi, fulminati dagli Angioli, quando s'appressan troppo ad origliare alle porte del Cielo.190