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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II
Severi, ma di rigor salutare, i primordii del regno. Trattando sempre dassè le faccende pubbliche, Ibrahim cessò i soprusi degli oficiali e governatori di province: rendea ragione ogni lunedì e venerdì nella moschea cattedrale del Kairewân, ascoltando con pazienza i richiami, e provvedendo immantinenti; diè di sua persona esempii di astinenza e pietà; ristorò la polizia ecclesiastica; sgombrò le strade dei ladroni che le infestavano; assicurò il commercio, spense i violenti e gli scapestrati. Si narra di lui che obbligasse la madre al pagamento di un debito, minacciando di lasciarla tradurre dinanzi il cadi:98 la madre, sola creatura umana rispettata da quel mostro. Attese molto alle opere pubbliche. A comodo dei cittadini, costruì un gran serbatoio d'acqua al Kairewân. Per magnificenza e pietà innalzò una moschea cattedrale a Tunis; e aggrandì quella del Kairewân; aggiuntavi inoltre una cupola che poggiava su trentadue colonne di marmo. Circondò Susa di mura. Compiè su la costiera del reame una linea di torri e posti di guardia, ordinata a far segnali coi fuochi, sì che in una notte potea tramandarsi avviso da Ceuta ad Alessandria di Egitto.99 Cotesta pratica antichissima era scesa con le tradizioni dell'impero infino ai Bizantini; i quali nella prima metà del nono secolo l'adoperavano a significare i tristi casi di lor guerre, da Tarso a Costantinopoli.100 E v'ha ragioni da credere ch'e' se ne fossero avvalsi anco in Sicilia, e che quivi avesserla appreso gli Arabi d'Affrica.101
Innanzi ogni altra opera pubblica, Ibrahim avea costruito una cittadella, centro di gravità della tirannide ch'ei macchinava: fortezza ove porre sua corte e ordinar novelli pretoriani per disfarsi degli antichi, i liberti di casa aghlabita, ridotti nel Castel Vecchio, stati fin allora padroni del popolo e del principe. Fece por mano a' lavori il dugento sessantatrè (23 settembre 876 a 11 settembre 877), in luogo discosto quattro miglia dal Kairewân e chiamato Rakkâda, “Sonnolenta” come suona appo noi.102 Entro un anno, fornite le mura, innalzata una torre che addimandarono di Abu-'l-Feth,103 Ibrahim inaugurolla con sanguinoso tradimento. Era avvenuto che i liberti del Castel Vecchio tumultuassero contro di lui per aver fatto morire un di lor gente: e allora, ito loro addosso per comando d'Ibrahim il popolo della capitale, i liberti, vedendosi sopraffatti, avean domandato e ottenuto perdono. Ma il dì che dovean toccar lo stipendio, Ibrahim li chiama alla torre di Abu-'l-Feth; li fa entrare a uno a uno; disarmare; incatenare: e diè mano ai supplizii; ch'altri morì sotto il bastone, altri condannato a perpetuo carcere in Kairewân; altri bandito in Sicilia.104 In luogo dei liberti, comperò schiavi in grandissimo numero; prima negri, poi anco di schiatta slava: li vestì; li esercitò nelle armi; ne fece un grosso di stanziali, valorosi, induriti alle fatiche;105 massa di bruti della zona torrida e del settentrione disumanati dal servaggio e di più dalla disciplina. Così passarono i primi sei anni del regno; lodevoli del resto a detta di tutti i cronisti, i quali tenean forse necessaria la carnificina di Abu-'l-Feth. Poi sfrenossi a dar di piglio nella roba e nel sangue; peggiorando di anno in anno, come nota l'autore del Baiân.106
Perchè, non bastando le entrate ordinarie dello stato a spesare gli stanziali, le fabbriche e la guerra che sopravvenne (an. 880, 881) contro un principe d'Egitto della dinastia usurpatrice dei Beni-Tolûn, era strascinato Ibrahim ai maltolti. L'anno dugento settantacinque (888-889) battè nuova moneta d'argento, che, rifiutata dai mercatanti del Kairewân, diè occasione a tumultuarie rimostranze, imprigionamenti, sollevazione: e Ibrahim, al solito, restò di sopra. Donde facea coniare altri dirhem e dinâr decimali, com'ei li chiamò, perchè i primi d'argento e i secondi d'oro stavano in valore come uno a dieci; e tolse di mezzo le buone monete dell'impero abbassida.107 Oltre questo espediente di finanza, ponea nuove gabelle;108 aumentava le tasse prediali e riscuoteale in danaro, non più in derrate;109 richiedeva i cittadini che apprestassero a servigio dello Stato loro schiavi e giumenti; in cento modi li espilava per accumular tesori.110
A misura degli aggravii prorompean pure le sollevazioni; e a misura di quelle incrudeliva Ibrahim. Ne noterò solo i fatti rilevanti. Ribellavansi ricusando le tasse, l'anno dugentosessantotto (881-882), le tribù berbere di Wuezdàgia, Howâra e Lewâta: ed erano oppresse, l'una da Mohammed-ibn-Korhob, ciambellano, le altre da Abd-Allah figliuolo d'Ibrahim, mandatovi con gran gente di giund, liberti, leve in massa, e ausiliarii forniti al certo da altre tribù berbere: sì fermo Ibrahim guidava tutti i cavalli del carro, poichè s'ebbe aggiustata in mano quella ferrea sferza degli schiavi stanziali.111
Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della tribù di Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e stanziata da parecchie generazioni in quella città, sul confin meridionale dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla catena degli Aurès, donde teneva a segno la tribù berbera di Kotâma. Gli agguerriti Arabi di Belezma ributtarono Ibrahim, ito in persona a combatterli: ond'ei perdonò loro; attirò a Rakkâda, prima alcuni capi sotto specie di trattar faccende, poi, con altri pretesti, più numero di gente; lor diè splendide vestimenta, onori quanti ne vollero e alloggiamento in uno edifizio circondato di mura con una sola porta, nel quale settecento o mille cavalieri, chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo esempio dei liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di affrontar chi che si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la sentenza del Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare.112 Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga, inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-894) valorosamente si difesero; e tutti perirono.113 La pena di tal misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la dinastia; poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma imbaldanzì, e condusse al trono i Fatemiti.114 Più pronto gastigo minacciava la sollevazione generale delle milizie arabiche, scoppiata immediatamente e rinnovatasi poi varie fiate; ma Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda, la virtù militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei quali accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo Ibrahim grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo suo ciambellano, capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di altri oficii, scrive la cronica,115 probabilmente le amministrazioni di finanza, e il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.
Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite enormezze dei soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia, fecero schiavi tra i Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran sangue (893-894). Dato avviso della vittoria a Rakkâda per lettere legate al collo dei colombi, Ibrahim rescrisse di caricare i cadaveri su le carra; mandarli a Kairewân; e condurli in giro per le strade. Comandò, non guari dopo (894-895), di mettere a morte i nobili della tribù di Temîm, ceppo di sua famiglia, e appendere i cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di tai vendette era stato Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente in odio a quei cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli mandò, diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi collana d'oro e vestimenta di seta ricche d'oro, disegni e svariati colori; e il manigoldo in tanto sfarzo cavalcò trionfalmente in Tunis. Un anno appresso, fattevi rizzar nuove fortezze, vi andò a soggiornare il tiranno in persona;116 meditando già la impresa di Sicilia, o parendogli Rakkâda mal sicura senza lo scampo del mare: o volle sfogare la superbia dell'animo suo sopra la città ribelle, prostratagli ai piè come cadavere.
Il medesimo anno della rivolta, Ibrahim allagò di sangue la reggia per sospetto di una congiura degli eunuchi e stanziali schiavoni contro la vita di lui e della madre:117 dal qual tempo in poi, aspettandosi che alcuno dei tanti che tremavano trovasse modo ad ammazzarlo, per meglio guardarsi, consultò astrologhi e arioli, nei quali ponea molta fede. Gli dissero dover morire di certo per man d'un piccino; se di statura o di anni, i furbi maestri nol discernean bene in lor arte: ond'egli visse in sospetto de' giovani paggi schiavoni; e se gliene venia veduto alcuno audace e fiero in volto, vago di maneggiar la spada, pensava tra sè: ecco l'assassino; e lo facea spacciare. Quando n'ebbe ucciso molti, temè la vendetta dei rimagnenti: onde li uccise tutti;118 e tolse paggi negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero anche di quelli, l'anno dugento ottantotto (900).119 Ma nel lungo suo regno i domestici eccidii sovente si rinnovarono e cominciaron prima della tirannide di fuori; bastando l'ira ad aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e l'altra la gelosia. Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del vino a Kairewân; la tollerava a Rakkâda120 in grazia forse dei suoi stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei primi credo io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con che si asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un eunuco il trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui, tutti i trecento eunuchi che avea fe' morire,121 per seppellir forse con loro il segreto della regia intemperanza. Diversa cagione ebbe la morte di sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio, e, calpestando più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor dava a ber vino, e poi non volea che troppo dimesticamente vivesser tra loro. Avutane spia, chiamolli dinanzi a sè; interrogolli, e confessando alcuni il fallo, e negandolo tra gli altri audacemente un fanciullo molto amato da lui, Ibrahim gli spezzò il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece morire a cinque o sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella fornace del bagno.122
Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna degli dsimmi, come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori di vassallaggio che si costumavano innanzi.123 Comandò Ibrahim che portassero su le spalle una toppa bianca, con la figura, i Giudei d'una scimmia e i Cristiani d'un maiale; e che gli stessi animali si dipingessero in tavole confitte su le porte di lor case.124 Il martirio ch'ei diè ai quattro Siracusani si è narrato di sopra, su la fede delle agiografie cristiane.125 Non sappiam se sia dei martiri siracusani un Sewâda, di cui scrivon le cronache musulmane che proffertogli l'oficio di direttore della tassa fondiaria, se rinnegasse, e rispondendo egli che non barattava la fede, Ibrahim lo fece spaccare in due e sospender mezzo cadavere a un palo, mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto dell'egira (891-892).126 Tuttavia gli eretici dell'islamismo poteano invidiare la condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia, vinta sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro (897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i prigioni: “Che pensi di Alì?” “Era infedele e però sta in inferno; e chi non dice così, andravvi con lui,” rispose il prigione; scoprendosi Kharegita a questo parlare. Il tiranno allora gli domandava se tutta la tribù di Nefûsa tenesse tal credenza, e saputo di sì, ringraziava il Cielo d'averne fatto macello. I prigioni, ch'eran cinquecento, se li fece recare innanzi a uno a uno: egli assiso in alto, tenendo in mano un suo lanciotto, cercava con la punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra costola e costola dell'uomo,127 e poi data una spinta, andava a trovar dritto il cuore, e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse. Così il Nowairi.128 L'autore del Baiân scrive che i prigioni fossero trecento, ch'ei ne avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con le proprie mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella i trecento cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi.129 Ambo le tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono ammettersi insieme.
Innanzi tal pia scelleratezza, era ito Ibrahim a Tripoli (896-897), governata per lui da un suo cugin carnale, Mohammed-ibn-Ziadet-Allah, uomo di egregii costumi, erudito, poeta e scrittore d'una storia di casa aghlabita: onde il tiranno ignorante l'invidiava fin dalla gioventù, ma adoperavale per averne bisogno. Il coperto odio divampò, quando il califo abbassida Mo'tadhed, risapendo le enormezze di Tunis, minacciò in parole, e secondo altri scrisse a dirittura a Ibrahim, ch'ei lo avrebbe deposto, e surrogatogli il cugino, specchio di virtù. Pertanto non contentossi Ibrahim d'ucciderlo; ma volle fosse appiccato il cadavere a un palo come di malfattore.130 Somiglianti sospetti di Stato lo spinsero, prima e poi, a mandare a morte ciambellani, ministri, cortigiani, e un povero segretario, chiuso vivo nel feretro. Otto fratelli suoi proprii erano scannati al suo cospetto; un de' quali, obeso e infermo che non potea reggersi, implorava gli si lasciassero quei pochi giorni di vita; e Ibrahim rispose: “Non fo eccezioni;” e accennò il carnefice di percuotere. Abu-l-Aghlab suo figlio ebbe tronco il capo dinanzi a lui; dicesi per trame di Stato. Abd-Allah, maggior tra i figliuoli, erede presuntivo della corona, folgor di guerra che spezzava nei campi di battaglia i viluppi creati dalla tirannide del padre, Abd-Allah ubbidiente troppo, virtuoso, dotto, modesto, pur si sentiva ad ogni istante sul collo la scimitarra del carnefice.131
Inviperiva Ibrahim ogni dì più che l'altro; ciascun misfatto tirandosene dietro parecchi; incarnandosi ogni vizio con l'uso e con la età; aggravandosi in lui l'atrabile, la monomania, la causa qual si fosse che lo portava al sangue; su la quale decida chi mai arriverà a penetrare l'arcano della umana volontà. Chi raccoglie i fatti, noterà due sintomi atrocissimi. L'un che costui nelle vittime segnalate per la costanza dell'animo, ricercava rabidamente il cuore, sede del pensiero secondo gli Arabi; quasi il tiranno volesse dar di piglio alla causa materiale di lor contumacia. Il disse ei medesimo a San Procopio vescovo di Taormina, mandandolo al supplizio (902).132 Parecchi anni innanzi avea notomizzato il cuore di un altro valoroso, Ibn-Semsâma, suo primo ministro; il quale straziato di cinquecento battiture, non avea detto un ahi, nè s'era mosso; e a ciò, comandando Ibrahim di ucciderlo, s'era vantato di aprire e chiuder la mano tre fiate dopo recisogli il capo, e avea tenuto parola.133
L'altra orribilità mi sembra un'avversione, un dispetto, un'invidia ch'ei sentisse della perpetuità della umana schiatta. Non dirò delle mogli e concubine che facea strangolare, murar vive, sparar loro il corpo, se incinte: e tuttociò senza lor colpa, forse senza gelosia. Lungo tempo così era vissuto, non parlando a donne fuorchè la madre, la Sîda che è a dir “Signora” come chiamavanla a corte. Costei, cercando ridurlo ad alcun sentimento umano, un dì che le parve di umor men tetro, gli appresentò due leggiadre donzelle, alle quali fe' recitare il Corano e cantar versi su la chitarra e il liuto. A che parendo si compiacesse il tiranno, rallegrato anco dal vino, la madre gli offrì in dono le due schiave; ei le accettò, e lo seguirono. Ed entro un'ora veniva alla Sîda lo schiavo fidato d'Ibrahim con una cesta ricoperta di ricco drappo. Trovò le due teste; e, gittando un grido, cadde svenuta; ma tornata in sè, le prime parole che profferì furono maledizioni sopra il figliuolo. Pur era serbata a veder maggiore empietà. Avea comandato Ibrahim di mettere a morte ogni figliuola che gli nascesse; e talvolta non avea aspettato che venissero alla luce. E la Sîda pur osava trafugare e far nudrire occultamente le bambine. Nell'età matura del figliuolo, coltolo un'altra fiata in velleità di clemenza, si provò a mostrargli le fanciulle cresciute come lune di bellezza, dice la cronica; e credette aver vinto quando gliele sentì lodare. Si fa allora più ardita; gli svela che son sua prole; gli rassegna i nomi loro e delle madri. Il tiranno uscì dalla stanza. Chiamato un suo negro “Meimûn,” dissegli, “arrecami le teste delle donzelle che tien la Sîda.” Il carnefice non si movea. “Obbedisci, sciagurato schiavo,” ripigliava Ibrahim, “o ti farò andare innanzi, ed esse dopo.” E Meimûn tornò poco stante, avvolgendosi alle mani le sanguinose chiome di sedici teste, e le gettò a mucchio sul pavimento.134 La critica non può mettere in forse coteste orribilità. Ancorchè noi le tenghiamo di seconda mano, è evidente la veracità degli scrittori primitivi, cittadini del Kairewân o d'Affrica al certo, e concordi tra loro, non avversi punto a casa aghlabita, vissuti in tempi vicinissimi e di cultura letteraria. D'altronde i misfatti narrati ben s'attagliano l'uno all'altro; e molti particolari che rivelano quell'istinto d'uom tigre, sono ricordati quasi con le medesime parole dai Musulmani e dai Cristiani, tra i quali il diligentissimo contemporaneo Giovanni, diacono napoletano.135
CAPITOLO III
Contro lo scellerato signore s'era levata la colonia siciliana, Arabi e Berberi al paro; e da quattro anni tenean fermo, succedendo a lor posta i tumulti d'Affrica, quando, l'ottocento novantotto, non so per qual ribollimento di sangui o magagna d'Ibrahim, tornarono i Berberi ad assalire il giund. Vedendo fitti i coloni nell'assurdo intento di scuotere il giogo senza cessare di straziarsi l'un l'altro, Ibrahim, ridendosene, entrò di mezzo: scrisse ad ambe le fazioni ch'ei perdonerebbe, se tornassero alla ubbidienza, e che sarebbe contento a gastigare i capi soli; ch'erano, dei Berberi un Abu-Hosein-ibn-Iezîd, coi figliuoli; e del giund un Hadhrami, oriundo, come lo mostra tal nome, dell'Arabia meridionale. Affrettaronsi i sollevati a consegnarli di peso alle soldatesche affricane, di presidio, credo io, a Mazara: dalle quali furono imprigionati, imbarcati per l'Affrica, e quivi dati al supplizio. Il Berbero, per fuggirlo, bevve un veleno che di presente lo fe' morire; talchè non rimase ad Ibrahim che d'appiccare il cadavere al patibolo e scannare i figliuoli del suicida. Sfogò con nuovo argomento di tortura sopra l'Hadhrami. Fattoselo recare innanzi, disse a un carnefice pien di facezie, come tanti ve n'ha, che tentasse il condannato con motteggi e buffonerie: e quando il misero cominciava a sperarne salvezza e gli spuntava il riso in faccia, “No,” proruppe Ibrahim, “non è ora da burle:” e fe' cenno al manigoldo; il quale a colpi di bastone lo ammazzò.136
Mandava poi Ibrahim a reggere la Sicilia un uom di sangue aghlabita, statovi emiro, com'e' sembra, una ventina d'anni innanzi, per nome Abu-Mâlek-Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah.137 Con la riputazione del casato sperava il tiranno lusingare o tenere in rispetto i popoli; e con la imbecillità della costui persona si fidava governar la colonia a suo piacimento dall'Affrica. Ma le due inveterate discordie che sopra toccammo, non si poteano comporre sì di leggieri; e per giunta gli sdegni, i rancori, i rimproveri, che tengon dietro ad una rivoluzione repressa, fecer nascere nuove scissure. Donde l'anno ottocento novantanove, tante piccole fazioni, confusamente combattendo, empiean la Sicilia di sangue.138 Per ovviare alla debolezza di Ahmed, dicon le croniche, o piuttosto per domare la Sicilia nel solo modo che si poteva, Ibrahim vi mandò un esercito poderoso, capitanato dal proprio figliuolo Abu-Abbâs-Abd-Allah, vincitor dei ribelli d'Affrica.139
Salpò costui con centoventi navi da trasporto e quaranta da guerra, il ventiquattro luglio del novecento; arrivò a Mazara il primo d'agosto;140 donde movea all'assedio di Trapani. A ciò l'esercito palermitano, ch'era uscito a far guerra contro que' di Girgenti, si ritrasse immantinente alla capitale; e inviò al campo affricano il cadi e parecchi sceikhi, a protestare obbedienza verso il principe, e scusarsi, bene o male, dello assalto sopra Girgenti. Vennero al medesimo tempo messaggi di cotesta città a dolersi dell'esorbitanza dei Palermitani: e sufolarono all'orecchio di Abd-Allah, non si fidasse di quel popol contumace, senza legge nè fede, nè di sua simulata e frodolenta sommessione; e che, se volea pescare al fondo della magagna, chiamasse di Palermo il tale e il tale, e se ne chiarirebbe. Ed ei sì chiamolli: ma ricusarono; e tutta la città dichiarò che non andrebbero. Abd-Allah, a questo, ritien prigioni gli oratori palermitani, rilasciato il solo cadi; e poco appresso mandavi, a portar forse orgogliosi comandi, otto sceikhi affricani. Gli Arabi di Palermo a lor volta li imprigionavano; e risolveansi a tentar la sorte delle armi. Fu capo in questo periodo di rivoluzione un Rakamûweih, uom di nome persiano. Fu emir degli stolti, dice amaramente Ibn-el-Athîr che visse tre secoli appresso: contemporaneo del gran Saladino, scrittor non servile, incapricciatosi d'Ibrahim-ibn-Ahmed, per quella sua feroce severità. Perciò doveano parere savii ad Ibn-el-Athîr coloro che di queto si lasciasser divorare dalla tigre; perciò l'annalista metteva in non cale i dritti dei Musulmani, le sacre franchige calpestate da Ibrahim, valorosamente difese dal popol di Palermo!
Lascio indietro, perchè sembra error di compilazione, l'episodio narrato da un altro storico:141 che i Girgentini, dopo di avere stigato Abd-Allah, si unissero coi Palermitani contro di lui. Movea di Palermo il dì quindici agosto, alla volta di Trapani, lo esercito capitanato da un Mesûd-Bâgi.142 L'armata d'una trentina di vele uscì non guari dopo: fu colta da una tempesta nella breve e difficile navigazione ch'è da Palermo a Trapani, onde la più parte dei legni perì; quegli scampati, senza potere altrimenti offendere il nemico, si ridussero a casa. L'oste intanto assaliva il campo affricano sotto Trapani: si combattea fieramente da ambo le parti con gran sangue, e rimaneva indecisa la vittoria. Ma il ventidue agosto, rappiccata dai Palermitani la zuffa, mantenuta con uguale fortuna infino a vespro,143 prevalse in ultimo la esperienza di guerra di Abd-Allah, o il numero degli Affricani che arrivava al certo a quattordici o quindici mila nomini, se si risguardi ai centoventi legni che li avean portato. Abd-Allah, usando la vittoria, prese la via di Palermo su le orme del nemico; indirizzò a Palermo l'armata che aveva ormai libero il mare, e poteva assaltare la città e molestar anco l'oste che si ritraea. Lenti e minacciosi ritraeansi i Palermitani, come quelli che sapean difendere patria e libertà; sì che fecero far al vincitore una sessantina di miglia in quattordici giorni; e al decimoquinto, che fu l'otto settembre, gli presentaron la terza battaglia. Pugnarono dieci ore continue dall'alba a vespro, in una delle due valli, credo io, che sboccano nell'agro palermitano a dritta e a sinistra di Baida.144 Alfine menomati, rifiniti, sopraffatti, sbaragliaronsi fuggendo verso la città vecchia: gli Affricani da vespro a sera ferono orribil macello di loro; occuparono i sobborghi; saccheggiaronli,145 a spreto della legge che vietava di por mano nella roba e nel sangue dei ribelli musulmani. Con tuttociò non si fa ricordo di enormezze come quelle di Tunisi, dalle quali rifuggia l'animo alto e gentile di Abd-Allah. Gli increbbe anco della battaglia, se ci apponghiamo al sentimento di tre versi, che improvvisò in Sicilia, forse quel dì stesso; nei quali, disgustato delle stragi, incendii e distruzioni, quel prode, sospirando, pensava a qualche giorno tranquillo, vivuto nei giardini di Rakkâda, in mezzo alle sue donne e figliuoli.146
Palermo ingrossando di quartieri suburbani, stendeasi in questo tempo dalla parte di scirocco infino alla sponda dell'Oreto; da ponente ne saliva una catena di abituri per due miglia e più infino al villaggio di Baida, ossia alle falde dei monti: sobborghi sì importanti che racchiudeano da dugento moschee e però vi si debbon supporre a un di presso due quinti di tutta la popolazione palermitana.147 Su quel vasto aggregato di ville da diletto ed umili case della gente industriale, torreggiava la città antica, afforzata di bastioni e di lagune, il Cassaro come l'appellarono gli Arabi, spaziosa cittadella di figura ovale che tenea quasi il mezzo dell'odierna città.148 Occupati i sobborghi dal nemico, i cittadini si difesero nel Cassaro per dieci giorni e stipularono un accordo; onde furono schiuse le porte ad Abd-Allah, il diciotto settembre. Per patto, o innanzi che si fermasse, grandissimo numero di cittadini con lor donne e figliuoli andavano a rifuggirsi in Taormina; Rakamûweih e i più intinti nella rivoluzione facean vela chi per Costantinopoli, chi per altri paesi di Cristianità, ove mai non potesse arrivare il braccio d'Ibrahim. Dopo lo sgombro, rimase pure uno stuolo di ottimati sospetti che Abd-Allah inviava al padre in Affrica; forse di quelli cui non v'era pretesto ad uccidere, poichè le croniche non parlan di supplizio loro. Così riluce per ogni verso la umanità del vincitore.149