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Non resta che uccidere
Non resta che uccidere

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Non resta che uccidere

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“È stata trovata mezza nuda e ricoperta di piccoli tagli, il che significa che si trovava nella foresta e che scappava da qualcosa. Da che cosa?” chiese Adele.

Il direttore Foucault scosse la testa e picchiettò con un dito sulla foto che mostrava la ragazza americana sorridente. “Tutto quello che abbiamo è la storia che ci ha raccontato il camionista. Dice che continuava a parlare di un lui. Una qualche persona, un qualche uomo, che la stava inseguendo. Qualcuno le aveva messo addosso la paura di Dio Onnipotente stesso.”

“Non sapevo che lei fosse un uomo religioso,” disse John, inarcando un sopracciglio.

Adele sussultò dinnanzi a quel commento poco delicato.

Foucault, che aveva più esperienza di Adele nel gestire John, lo ignorò del tutto. “Continuava a dire che ce n’erano degli altri,” continuò il direttore. “Questa è la parte che ci preoccupa. Ed è uno dei motivi per cui è stato richiesto l’intervento dell’Interpol.” I suoi occhi si spostarono su Adele. “Continuava a dire che li avrebbe uccisi tutti. Questo almeno in base a ciò che ci ha detto il camionista.”

Per un breve momento, Adele ricordò il taccuino di suo padre. Scritte, appunti, registrazioni di seconda mano di ciò che sua madre aveva detto. E ora, di nuovo, il camionista che faceva da portavoce per il fatto che una ragazza priva di conoscenza non poteva raccontare la cosa in prima persona. La voce di una vittima. I suoi indizi si sarebbero rivelati inutili come erano stati fino a questo punto quelli di suo padre?

“Altri. Quanti altri?” chiese John.

Foucault scrollò le spalle. “Non lo sapeva. Non l’ha detto. Speriamo che lei si svegli e possiate chiederglielo direttamente. Ma per ora non farei affidamento su una sua possibile ripresa.” La sua voce si fece nuovamente cupa. “È messa male.”

Adele si spostò, passando dall’altro lato di John e guardando fuori dalla finestra verso le strade sottostanti. Molti edifici erano ancora punteggiati di luci accese, dato che Parigi non era il genere di città in cui si andava a letto presto.

“La ragazza: cosa sappiamo di lei?”

“Amanda Johnson,” disse Foucault. “Ventuno anni. Una studentessa universitaria americana che era andata a passare le vacanze estive in Germania con alcuni amici. Si è divisa dal gruppo dopo un mese di viaggio per proseguire da sola. È scomparsa. È sparita dal radar e nessuno l’ha più vista.”

Adele sentì un lento brivido risalirle la schiena. “Amanda,” disse sottovoce. “È qui dall’estate? da mesi?”

“Cinque mesi,” disse il direttore Foucault. “Era scomparsa da cinque mesi.”

John restituì la foto a Foucault. “Cosa ci ha fatto con loro? Con lei? Per cinque mesi? Segni di aggressione sessuale?”

Il direttore sembrava ancora preoccupato, ma a questa domanda la sua espressione si alleggerì, anche se solo di poco. “Non evidenti. Non sembrano esserci segni di alcun genere.”

Ora Adele stava scuotendo la testa. “Nessuna aggressione sessuale? Ma lei non è riuscita a dire nient’altro? È sparita mesi fa, e a quanto pare ne sono scomparsi anche degli altri? Amici? Quelli che viaggiavano con lei?”

Foucault scosse la testa. “No. Gli amici sono stati tutti rintracciati. Ma la Foresta Nera in Germania, le senti anche tu le storie,” disse scrollando le spalle.

“Quali storie?” chiese John.

Questa volta fu Adele a rispondere. “Sparizioni. Alcuni parlano di rapimenti, altri di incidenti. Qualsiasi sia il caso, ci sono un sacco di denunce di persone scomparse in quella zona. Ho seguito un caso lì in passato: alla fine l’abbiamo trovato morto. Comunque, le varie voci e storie ti restano addosso.”

Foucault fece schioccare la lingua. “Almeno è quello che dice la gente del posto. Non lo so. È tutto quello che sappiamo. John, sono serio: comportati bene. Non posso coprirti un’altra volta.”

John alzò le mani in segno di resa. “La sento forte e chiaro.”

Adele tentò di non sospirare troppo forte. L’ultima volta che erano stati in Germania insieme, John aveva lanciato l’attrezzatura di una troupe televisiva in un burrone. Gli era quasi costato il suo lavoro. Dopo una serie di revisioni dei fatti, era stato reinserito la scorsa settimana, ma stava camminando sul filo del rasoio. Un altro incidente si sarebbe potuto rivelare fatale per la sua carriera, se non addirittura per la sua libertà.

“Partiamo stanotte?” chiese Adele.

“Subito,” disse Foucault. “I biglietti sono prenotati. Gli autisti vi stanno aspettando. Buona fortuna a tutti e due. Questa è proprio brutta.” Si interruppe e il suo contegno si incupì. “Me lo sento. C’è qualcosa che non va in questa faccenda.”

“C’è qualcosa che non va in tutti i casi che ci capitano,” disse John.

Il direttore annuì e agitò una mano, sospirando. “Forse. Buona fortuna.” E con queste parole, li invitò ad andare verso la porta.

***

Un altro aereo, un altro viaggio. Adele aveva preso un libriccino dalla libreria dell’aeroporto per il volo, ma ora si trovava a ignorarlo e l’aveva infilato nella tasca elastica sullo schienale del sedile davanti a sé.

John, accanto a lei, stava russando. Era abilissimo ad addormentarsi ovunque andassero. Si voltò a guardarlo, percorrendo con lo sguardo il suo petto muscoloso e passando poi al finestrino, scrutando infine il buio della notte. Spostarsi, spostarsi. Da un posto all’altro. Il cielo in sé non cambiava mai molto. Le nuvole sopra alla Francia erano le stesse che c’erano sopra alla Germania.

Anche gli assassini erano gli stessi.

Francesi o tedeschi: la devastazione che causavano era identica.

Adele incrociò le braccia, ma rimase voltata verso John, fissando la notte al di là del suo petto, sistemata per le poche ore di volo che la separavano dalla Germania.

CAPITOLO CINQUE

Adele si svegliò sentendo bussare delicatamente alla porta della sua stanza di motel. Sbuffò, stiracchiandosi e sentendo la scomodità della notte che le aveva rattrappito il corpo. La comodità del piccolo motel dove erano stati scaricati, vicino all’aeroporto di Zurigo, era perfettamente rispecchiata dai rumori che vi si sentivano. Tutta la notte era stata scossa dal rombo dei motori degli aerei in partenza e in arrivo. E se non erano quelli, ci pensava il termosifone rotto, che sputava nella stanza un flusso d’aria appena tiepido e che aveva fatto rumore per tutta la notte. Adele dava sempre importanza alle sue ore di sonno, ma era anche una che si vantava spesso di svegliarsi prima che la sveglia suonasse.

Con frustrazione, si rese conto di non aver sentito il timer del telefono.

Un altro delicato colpo alla porta. “Arrivo,” disse.

Le ci volle un po’, ma si vestì velocemente, si lavò i denti sul lavandino e prese il resto delle sue cose, infilandole rapidamente nella valigia che si era portata dietro. Spinse il bagaglio sotto al letto e poi uscì dalla porta.

Sorrise quando riconobbe la persona che la aspettava sui gradini del motel.

“Agente Marshall,” disse Adele salutando la donna con un cenno della testa. “Sono contenta di rivederti.”

La giovane agente del BKA – che doveva avere poco più di vent’anni – rispose a sua volta con un cenno del capo. Era piuttosto carina e aveva addosso un’energia che a volte faceva sentire vecchia Adele. Beatrice Marshall tendeva a fare le cose secondo le regole, ma aveva dato prova più di una volta di essere un’agente affidabile. Aveva rinunciato al suo solito modo di fare per coprire Adele al resort sciistico, e aveva addirittura scansato una o due regole a suo vantaggio. Adele era felice che la loro accompagnatrice fosse un volto familiare.

Guardò oltre la Marshall e i suoi occhi si posarono su John, che stava appoggiato al palo arrugginito e scheggiato che faceva da supporto alla balaustra del motel.

“Ti sei svegliato presto,” gli disse accigliandosi.

John le fece l’occhiolino. “Dormivi come una bambina. Russi, sai.”

Adele lo fulminò con lo sguardo. “Non è vero.”

John le rispose con un sorriso. Adele guardò l’agente Marshall esitante, alla ricerca di una conferma al commento di John. La giovane agente però non disse nulla.

“Siete pronti?” chiese loro alla fine. “Vi devo accompagnare alla centrale della Foresta Nera. Il camionista che ha trovato la vittima ci aspetta lì.”

“Pronti a tutto,” disse John.

Adele lo guardò socchiudendo gli occhi. “Non ti ho mai visto tanto mattiniero,” gli disse.

John spostò lo sguardo sull’agente Marshall e ammiccò con le sopracciglia da dietro di lei, in modo che solo Adele lo potesse vedere. “A volte il mattiniero ha solo bisogno del giusto incentivo,” le disse. “E poi questo posto,” disse indicando vagamente il motel, “non è così imprevisto. Sono venuto preparato con due cuscini in più. Il direttore Foucault è famoso per andare a ficcare gli agenti nelle peggio fogne, dopo che lo hanno fatto arrabbiare.”

“Ah sì?” chiese Adele lanciandogli un’occhiataccia. “Avresti potuto dirmelo.”

“Mi è sfuggito di mente.”

Adele sospirò alzando lo sguardo al cielo. “Tu butti una cinepresa dalla montagna, e io finisco a dormire in una scatola di molle. Ti pare giusto?”

John allungò una mano e le diede una carezza sulla guancia. “Ammiro il tuo modo di soffrire in silenzio. Comunque, che ne dici se lasciamo che questa bella e giovane agente ci porti a parlare con il camionista?”

Tese un braccio, che l’agente Marshall accettò con una sommessa risata. Con lei che lo teneva sottobraccio, scesero le scale di metallo dal secondo piano del motel, accompagnati dal rombo del motore di un aereo sopra alle loro teste.

“Bella e giovane agente un cazzo,” mormorò Adele sottovoce. Controllò la fondina, si sistemò la cintura e poi, mogia e ancora con il corpo dolorante dopo la notte appena passata, li seguì verso l’auto che li stava aspettando.

***

La stazione di polizia della Foresta Nera era più piccola di quanto Adele ricordasse dall’ultima volta che ci era stata. C’erano solo un paio di agenti nell’atrio d’ingresso, e un sergente di segreteria doveva essere chiamato ogni volta dal retro quando c’era da occuparsi di nuovi arrivi.

L’agente Marshall, Adele e John aspettarono con pazienza di essere accompagnati sul retro dell’edificio.

Il camionista li aspettava in una delle sale per gli interrogatori. L’uomo indossava una camicia in velluto a coste e aveva dei baffi grigi perfettamente tagliati che si abbinavano con la barba brizzolata che gli copriva il mento.

Quando Adele lo vide, decise che aveva degli occhi gentili. Erano contornati da leggere rughe d’espressione, e anche se teneva le mani strette e intrecciate, non se le stava torturando nervosamente.

Quando lei e John presero posto di fronte a lui su delle sedie di metallo con la seduta imbottita, pensò che quest’uomo doveva essere un tipo tutto d’un pezzo per essersi fermato ad aiutare qualcuno in mezzo alla statale nel cuore della notte.

“Lei è Herman Carmichael?” chiese con voce gentile.

L’autista annuì, la guardò negli occhi e poi spostò lo sguardo su John.

L’agente Marshall rimase in piedi, permettendo che fossero i due agenti più esperti a condurre l’interrogatorio.

“Posso portarle qualcosa da bere? Da mangiare?” chiese Adele.

Danke. Un caffè sarebbe perfetto,” disse l’uomo.

John inarcò un sopracciglio guardando Adele. In francese lei tradusse: “Potresti andargli a prendere un caffè?”

John tirò su col naso. “Merde. Perché io?”

“Perché tanto non puoi capire una parola di quello che dice. Cerca di essere utile.”

John brontolò tra sé e sé e poi si alzò dal tavolo, uscendo dalla sala degli interrogatori a grandi passi.

Adele riportò la propria attenzione sul signor Carmichael. “È stato lei a trovare la ragazza?”

L’uomo si passò stancamente una mano sul volto, che si era intanto rabbuiato. “Sì. Purtroppo era presa davvero male. Mi hanno detto che avendola fatta scaldare troppo velocemente, potrei averle causato dei danni. Le ho fatto del male?”

Adele scosse la testa. “Da quello che mi hanno raccontato, era messa male già prima che lei la trovasse. Lasciarla lì a se stessa sarebbe stata una condanna a morte. Aspettare un’ambulanza avrebbe portato alla stessa conclusione. Lei ha fatto quello che poteva, non si preoccupi.”

Il signor Carmichael fece un altro respiro, questa volta un po’ più rilassato. Parte della stanchezza che gli segnava il viso sotto forma di rughe accanto agli occhi e sulla fronte parve dissiparsi un poco dopo le parole di Adele.

Adele si schiarì la gola. “C’è nient’altro che può dirmi? Qualsiasi cosa che le sia venuta in mente da quel momento?”

L’uomo si accarezzò la barba con la mano e scosse la testa. “Mi spiace,” disse. “Ho già detto…”

Prima che potesse finire, due persone entrarono nella stanza.

Adele tenne a bada l’irritazione e si guardò alle spalle. John era tornato. Accanto a lui era entrata anche una donna in tailleur, con una tazza di caffè macchiato all’interno di un bicchierino termico che sosteneva con la mano sinistra. Non indossava la solita camicetta da agente di polizia, ma dal portamento era evidente che lo era. Una detective, ipotizzò Adele. Molto probabilmente della squadra omicidi.

“Salve,” disse la donna in tedesco. Porse la tazza all’uomo e, prima che John potesse farlo, si sedette sulla sedia accanto ad Adele. “Sono la detective Klopp,” disse. “Addetta alle normative del distretto di polizia, ma mi hanno chiesto di essere presente per questo colloquio.”

L’agente Marshall restava in silenzio in fondo alla stanza, il suo bloc notes aperto, gli occhi che si spostavano veloci tra i presenti. Adele si mosse un poco sulla sua sedia, le mani premute contro la superficie fredda del tavolo di metallo. Aspettò che il signor Carmichael bevesse un sorso del suo caffè fumante. L’uomo schioccò le labbra e sussultò un poco per la temperatura bollente della bevanda.

“L’ha già interrogato?” chiese Adele rivolgendosi alla detective Klopp.

Ja. Sono qui solo per verificare ed eventualmente aiutare in ogni modo possibile.”

Adele si ricompose e indicò il camionista. “Bene, gli stavo giusto chiedendo se gli veniva in mente qualsiasi altro particolare riguardo a ieri notte.”

“E come stavo dicendo,” rispose il signor Carmichael sommessamente, “non mi viene in mente nulla. Niente macchine, nessun altro. Solo la ragazza, con le sue impronte insanguinate.”

“Come ci ha già detto,” disse la detective Klopp annuendo. “E ci ha già riportato anche le folli e tirate affermazioni che ha fatto la giovane.”

L’autista esitò davanti a quelle parole. “Ha detto che ce n’erano degli altri,” disse, deglutendo e poi sollevando la mano per dare enfasi al suo discorso. “Ha detto che qualcuno li aveva catturati e che li avrebbe uccisi tutti.”

Adele però stava guardando la detective tedesca. “Non crede che il commento della ragazza vada preso sul serio?”

La detective Klopp stava scuotendo la testa. I suoi capelli erano raccolti in un ordinato chignon e il suo volto presentava minime tracce di make-up. Aveva gli zigomi alti e i suoi occhi erano indagatori mentre osservava Adele. “La ragazza era malnutrita, congelata e in mezzo alla foresta,” disse. “Prendere seriamente tutto ciò che può avere detto,” disse schiarendo la gola e spostandosi un poco, “soprattutto se riferito da un portavoce, potrebbe essere poco consigliabile a questo punto.”

Adele si voltò verso l’agente Marshall, poi tornò a guardare la donna. “Questa è la posizione ufficiale di questo dipartimento?”

La detective Klopp sorrise con calore al signor Carmichael, poi si rivolse ad Adele, ma sempre con gli occhi fissi sul camionista. “Sì. Herman,” disse, “le racconti come si è comportata la ragazza quando l’ha vista all’inizio.”

Il camionista si spostò sulla sua sedia, a disagio. “Beh, come stavo dicendo, ha detto che ce n’erano degli altri. Ma quando mi sono avvicinato a lei, non ha detto proprio niente. In effetti, era quasi come se non mi vedesse. Sono uscito di strada con il mio camion per evitarla. Era in piedi in mezzo alla statale. Senza nessun vestito addosso.” Arrossì un poco, schiarendosi la gola e scuotendo la testa. “Brutto affare. Brutto affare. Ad ogni modo la fräulein era lì in piedi, e sembrava che non mi vedesse, fino a che non le sono stato proprio vicino. Stavo anche parlando, ma lei fissava dritto davanti a sé.”

La detective Klopp agitò una mano come a voler mostrare qualcosa di sospeso nell’aria. “Come ho detto,” riprese, “potrebbe non essere la strategia migliore quella di prendere la ragazza alla lettera.”

Adele abbassò la testa per dimostrare che aveva sentito. Insistette con la stessa linea di interrogatorio per altri pochi minuti, ma il camionista non le fornì nessuna informazione che il direttore Foucault non avesse già dato loro: qualcuno, secondo la ragazza, teneva in prigionia altre persone. La ragazza era sembrata scossa, per ovvie ragioni. Era ricoperta di lividi e piccoli tagli per aver corso nella foresta. A parte questo, l’uomo non aveva altro da aggiungere.

Adele lo ringraziò e si alzò dal tavolo. John la tempestò di domande in francese, ma lei lo ignorò e disse alla Marshall, mentre uscivano dalla sala interrogatori: “Dov’è questo ospedale?”

L’agente la guardò. “Vuoi parlarle di persona?”

“Da come sembra, non pare possibile.”

La Marshall scosse la testa. “È in coma. Ma posso portarti all’ospedale se vuoi.”

Adele annuì. “Magari i dottori hanno trovato qualcosa che all’inizio era loro sfuggito. Il camionista comunque non sarà molto di aiuto.”

Adele aveva addosso una sensazione sbagliata. La premonizione del direttore Foucault si riversò anche su di lei. Questa era una brutta faccenda. Qualcosa riguardo a questo caso le sembrava ai limiti, inquietante. Adele stava iniziando a provare una sensazione simile. Non era sicura del perché. Ma in qualche modo non era certa di voler assistere alla conclusione di questa indagine. Il suo stomaco era un groviglio quando uscì dalla centrale di polizia. Si diresse verso l’auto, preparandosi ad andare in ospedale.

CAPITOLO SEI

“Questa volta il caffè non lo vado a prendere,” disse John austero.

Adele scosse la testa mentre avanzava in direzione dell’ingresso dell’ospedale.

L’agente Marshall era già vicina alle porte di vetro rotanti. Sorrise educatamente e fece segno a lei e John di seguirla. I tre agenti entrarono nella lobby dell’ospedale e vennero accolti dall’odore dolce e nauseante di detergenti e disinfettanti. Adele sentì subito un prurito dietro al collo. Scosse la testa. C’era qualcosa negli ospedali che le dava sempre i brividi. Segretamente sperava che se mai si dovesse ammalare gravemente, la gente la lasciasse morire in pace nel suo letto, piuttosto che trascinarla in un posto orribile come quello. E neanche i dottori le piacevano particolarmente.

John andò dritto al bancone dell’accoglienza e parlò in francese: “Mademoiselle. Ha dei medici che parlano francese che si occupano di Amanda Johnson?”

La donna dietro al banco lo fissò esitante. Guardò uno dei suoi colleghi, ma il giovane uomo scrollò le spalle.

L’agente Marshall si avvicinò, toccando delicatamente il gomito di John. Parlò sommessamente e con rapidità agli infermieri e alla fine vennero tutti accompagnati a un ascensore in fondo all’ampio atrio. Passarono accanto a un paio di piante in vaso finte. Di nuovo Adele pensò a quanto odiava gli ospedali.

“Va tutto bene?” le chiese John, mentre le porte dell’ascensore si aprivano con un ding e loro entravano.

“Tutto ok,” rispose lei senza tanti giri di parole.

“Stai sudando,” le disse. “Fa freddo. Perché stai sudando?”

“Non sto sudando, taci.” Adele si girò, ma quando John riportò la sua attenzione sulla Marshall, mettendosi a chiacchierare con la giovane agente mentre l’ascensore arrivava al piano, si passò una mano sulla fronte. Umida. Stava sudando. Dannazione. Doveva sforzarsi di tenere a bada le proprie emozioni, anche in un posto come questo.

Uscirono dall’ascensore e si trovarono davanti un altro lungo corridoio con finestre di vetro da entrambi i lati. In lontananza si udivano suoni di macchinari: un altro rumore che le dava lo stesso effetto di unghie su una lavagna.

“Sei sicura di stare bene?” le mormorò John in un orecchio.

“Sto bene. Andiamo a vedere se riusciamo a trovare questo dottore.”

La Marshall, sentendo la conversazione, disse educatamente: “Il capo reparto che si occupa del caso di Amanda sa parlare inglese. Ho richiesto che ci aspettasse fuori dalla sua stanza. Da questa parte.”

La Marshall fece strada attraverso tre porte chiuse. Due avevano tende, ma una era aperta, con tre infermiere all’interno che indossavano i loro camici verdi e stavano tentando di sollevare un uomo debole e anziano per metterlo su un lettino con ruote.

La scena, gli odori, i bip bip dei macchinari. Tutto l’insieme provocò in Adele un altro spasmo di timore esistenziale. Per qualche motivo, pensò a Robert. Pensò alla sua tosse, alla sua età. Forse avrebbe fatto bene a correre un altro paio di ore domani. Sì, questo le avrebbe schiarito le idee.

Alla fine si fermarono davanti a una porta a vetri aperta. C’era un uomo che li stava aspettando. Aveva uno stetoscopio infilato malamente nel taschino del suo camice blu e una targhetta con il nome appuntata al petto.

“Dottor Samuel,” disse l’agente Marshall. “Abbiamo parlato al telefono poco fa.”

Il medico era di mezz’età, con la barba bianca candida e gli occhi contornati di rughe. Ma laddove le rughe del camionista erano d’espressione, generate più che altro dal sorriso, quelle del dottor Samuel erano rughe di preoccupazione.

“Non ho molto tempo,” disse senza tanti convenevoli. “Come posso aiutarvi?”

L’uomo parlava un inglese perfetto. L’espressione di John si illuminò e gli rispose con il suo pesante accento. “È lei che si occupa del caso di Amanda Johnson?”

Il dottore annuì. Non offrì nessun’altro particolare e aspettò, un piede nella stanza e uno fuori.

All’interno Adele scorse la figura della vittima distesa su un letto. La camera era buia, le luci spente. Tre diversi scherni mostravano i segni vitali della ragazza, con numeri che lampeggiavano e pulsavano. La giovane giaceva immobile sotto a due coperte. Il respiratore sembrava un macchinario estraneo, un dispositivo di invasione. I tubi, il metallo, le luci intermittenti: il tutto contribuì ad aumentare l’ansia di Adele. La ragazza sembrava così piccola, come una bambina rinchiusa in una trappola per orsi, o avvolta in una bara di tubi, metallo e vetro delle dimensioni di un ospedale.

Adele rabbrividì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di continuare a guardare. “C’è niente che possa dirci?” chiese a labbra strette. “Si riprenderà?”

Il medico parlò con tono rapido e secco. Sembrava irritato dalla loro presenza, ma Adele sospettò che fosse irritato da tutto. “La poverina è scappata,” disse. “Ha passato ore nella foresta. Ecco,” disse. “Guardate voi stessi.”

Tirò fuori una cartella da una fessura accanto alla porta e la porse ad Adele. Lei abbassò lo sguardo, sfogliando le grandi foto, gli occhi che si socchiudevano su ciascuna.

Prima di tutto vide i piedi della ragazza. Tagli profondi su tutta la pianta, la pelle sbucciata, la terra sotto alle unghie e all’interno delle ferite. Due unghie mancavano del tutto e un paio di dita erano di colore bluastro.

“Congelati?” chiese Adele.

“Quasi,” disse il dottor Samuel. “Quei tagli, li vede? Per aver corso a piedi scalzi nella foresta. Terreno duro. Qualsiasi cosa l’abbia spaventata, l’ha fatta andare avanti nonostante il dolore.”

Adele annuì. “E il resto del corpo?”

Il dottore tirò fuori la prima immagine, girandola sopra alla cartella. Indicò quella accanto. “Altri lividi e piccoli tagli in tutto il corpo. Qui e qui.”

Adele scorse dei graffi sopra all’ombelico e altri lividi sopra al petto della ragazza.

“Ma qui,” disse l’uomo, “queste sono ferite più vecchie. Vecchie cicatrici.”

“Quanto vecchie?” chiese Adele rapidamente.

Il medico scosse la testa. “Nella sua condizione è difficile dirlo. Stiamo ancora cercando di capirlo. Ma non pensiamo che sia rilevante per la sua condizione attuale.”

“Cinque mesi?” chiese Adele.

Ma il medico scosse la testa. “Di più. Anche se questa,” disse sommessamente, “potrebbe rientrare in quel lasco di tempo.”

Passò all’ultima foto, che mostrava la sommità della testa della ragazza, con parte dei capelli rasati.

“Che cos’è?” chiese John.

Adele guardò soltanto. C’era una piccolissima cicatrice sopra a un lembo di carne sollevato. Era guarita, ma malamente.

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