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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2
La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Dall’alto al basso caricò l’ammiraglio con la prima banda; nè pur fe’ tanto, che rompesse il nostro antiguardo: onde, perduta la foga, da paro a paro cominciò a combattere, e impedì Reforziato, che seguiva a corsa con l’altra schiera credendo compier la vittoria. Si distende Reforziato dunque su i fianchi dell’oste siciliana; donde i fanti a furia di dardi e sassi il ributtavano con molta strage. Ma Goffredo di Mili, movendo con la terza schiera, perplesso per l’inaspettata resistenza, postosi a canto a Ruggiero, per la strettezza del luogo, o non l’aiutò, o l’impacciò, mentr’ei si travagliava duramente con Blasco: ambo ostinati, l’uno, dice Speciale, per uso alla vittoria e fidanza nel numero; l’altro per vedere i suoi sì feroci e serrati, e non aver giammai voltato faccia in battaglia. Ruggiero, ferito al braccio, mortogli sotto il cavallo, sparve un istante in mezzo la mischia; la sua bandiera, assalita da un nodo di uomini fortissimi, balenò; l’alfier che la reggea, ferito in volto, non vedendo più il signor suo, die’ le spalle alla zuffa. Allor Blasco con terribil voce incalza, gridando: «Avanti, cavalieri, or che cede il mico:» e i Siciliani, nel decisivo momento fatti maggiori che uomini, aprono gli squadroni nimici, li squarciano e sparpagliano. Di qui «Alagona» gridan essi, di lì «Aragona» le genti dell’ammiraglio, sperando invano l’usata vittoria in quel grido; e or nocque, perchè Goffredo Mili, nell’agitazione e rovinio del conflitto, credendo sentirsi gridar Alagona a’ fianchi, come circondato e perduto, fuggì, traendo con sè le altre schiere; e fece compiuta la disfatta. Caddervi i figliuoli di Reforziato e di Virgilio Scordia, Giordan d’Amantea e nobili molti. Reforziato stesso fu preso, ma fuggì, corrotte le guardie; assai più camparono per la notte sorvenuta. Il gran Ruggiero, ferito, a piede, obbliato da tutti i suoi nella rotta fuga, s’ascondea sotto una siepe, aspettando da un momento all’altro i nostri guerrieri e la morte; quando a caso il vide un suo famigliare che fuggiva, e smontato in un attimo, gli die’ il proprio cavallo. Piangendo di rabbia, risaliva in arcioni l’ammiraglio; anch’egli, a spron battuto dileguandosi innanzi i nostri, si rifuggiva a Badolato; e dava poi grande avere nel reame di Valenza a questo fedele, che con tanto pericol suo il tolse a indubitabil morte. Ma se il capo di Ruggiero non fu tra i premi di questa giornata, bastò ai nostri avergli dato la prima rotta ch’ei toccasse in sua vita: un pugno d’uomini, in mezzo al paese nimico, incontro a tal capitano, vinse tre tanti e più del suo numero. Si tornarono la dimane a Squillaci; e non che mantenere il castello, Calcerando ripigliò la terra di Catanzaro, ove gli avanzi della gente nimica non osaron far testa211.

Non guari dopo Bernardo Sarriano, audace capitan di navilio finchè ebbe Siciliani, volto a parte nimica, assaltava Malta con un armatetta, tentava Marsala; e, deluso nell’una e nell’altra impresa, tornavasi a’ porti di Napoli; non aspettato Federigo, che a’ primi avvisi armò in fretta in Palermo ed altrove una trentina di galee, con le quali pensava andar egli stesso. Senz’altra fazione d’importanza finì poi l’anno novantasette, e tutto il verno. Federigo, con Manfredi Chiaramonte e Vinciguerra Palizzi, macchinava contro lo ammiraglio, or di spegnerlo per una mano di uomini risoluti, allettati da gran premio; or di sfidarlo a duello per un campione, che fu il famoso difenditor di Girona, Ramondo Folch, visconte di Cardona; e dovealo appellar di tradigione secondo gli usi di Barcellona o il foro aragonese, e in duello ammazzarlo, o almeno, tirandolo in Ispagna, toglier tal mastino dal collo a Federigo212. Ma nulla approdaron queste pratiche contro Ruggiero. Un Montaner Perez de Sosa, mandato alsì da Federigo in Catalogna ad attraversare i preparamenti della guerra, non trovò riscontro ne’ popoli; e per poco scampò dalle mani di re Giacomo213, infiammato nella causa, come diceanla, della santa Chiesa, dal danaro che il papa e Carlo gli porgeano214. Perchè Loria, trafitto dall’onta di Catanzaro, ma feroce in volto e superbo come per vittoria, era andato a re Carlo, a far grande scalpore della vergognosa fuga dei suoi, e che nulla s’otterrebbe senza il re d’Aragona: onde Bonifazio, visto che qui n’andava tutta la fortuna della guerra, die’ a Giacomo quanto ei volle; tollerò ch’ei tardasse la restituzione degli stati di Giacomo re di Maiorca, sollecitata efficacemente dal re di Francia; snocciolò dalla camera apostolica i danari raccolti da quelle province, che il pio Costantino, scrive Niccolò Speciale col fiero piglio del Dante, il pio Costatino ad altro uso largiva a Silvestro poverello. Questa moneta armò contro la Sicilia Aragonesi, Catalani, Francesi, Provenzali, Guasconi, Italiani e altre genti; di che fornite a un di presso ottanta galee, fatta tregua col re di Castiglia, navigava re Giacomo a Ostia215, entrando la state del novantotto.

E Federigo, fatto ammiraglio Corrado Doria, che avea nome di valente in mare, armava sessantaquattro galee; forse con grande aiuto dei Messinesi, ai quali in questo tempo raffermò la franchigia delle dogane di mare e di terra, e diede immunità dalle collette, imprestiti e tutte altre esazioni, per premiarli del passato, e ingaggiarli a nuovi sforzi di fede e valore216. Gravate queste galee, oltre i soldati d’armata, di settecento cavalli, impedimento in mare, in terra pochi, salpò di Sicilia, proponendosi antivenire l’arrivo della armata d’Aragona a Napoli. Federigo sulla capitana, spiegando lo stendardo reale di Sicilia, seguito da lunga fila di galee, solcava il golfo di Napoli, a suon di trombe, in atto baldanzoso e minaccevole, senza ch’alcuno uscissegli contro; gittava l’ancora ad Ischia, che teneasi per lui; ove soprastato un bel tratto, fe’ inaspettato ritorno in Sicilia. Speciale il dà ad ammonimento del fratello, che volendo fare romore e non danno, mandava da Roma ad avvertirlo, non arrischiasse tutte le sue sorti lungi dalla Sicilia. Ma ne’ fatti dell’uno e dell’altro in questo tempo, si scorge tutto il contrario che moderazione e pietà di fratelli; onde più probabil sembra che per la flotta sua non provveduta, per avvisi della nimica sì forte, e sopra ogni altra, per non saper che si fare nè egli nè il Doria, buoni soldati ma infelici capitani d’armata, abbandonavano un disegno maggiore assai di loro, mal copiato da que’ maestri assalti di Loria dell’ottantaquattro e dell’ottantasette. Tornò dunque Federigo in Sicilia a munir castella e ordinar forze terrestri. Giacomo, di Roma andò in Napoli con la flotta; e dopo lunghi consigli, affrettandosi tanto che non aspettò stagione, fe’ vela sopra Sicilia a ventiquattro agosto del novantotto217, con gran podere di navi e di genti218; seguendolo non guari dopo, Roberto duca di Calabria, erede della corona di Napoli; e portando con loro, come usato stromento di guerra, un legato della corte di Roma, che fu il cardinale Landolfo Volta219.

Messe in terra le genti vicino Patti, drizzata quivi la flotta, occupava Giacomo l’indifesa città il dì primo settembre: e principiò da questa banda l’impresa di Sicilia, per consiglio di Ruggiero, ch’ebbevi già molte castella, ed or, agognandone il racquisto, il procacciava con dir più agevole in quelle regioni per le sue molte clientele lo effetto delle armi. E in vero i collegati fondarono assai su le pratiche, aiutandole con la scena, niente spiacevole a Bonifazio, del rendersi la Sicilia non a casa d’Angiò, ma alla romana corte, di cui Giacomo si nominava capitan generale, ed esercitò con tal sembianza atti d’autorità, che avrebbero dovuto svegliare a gelosia la corte di Napoli, s’ella fosse stata in tali condizioni da potersi risentir delle usurpazioni de’ suoi alleati, dalle quali tornavate immediato comodo220, S’aggiunse a questo la riputazione de capitani; quando insieme col nome di Loria, suonava quel di Giacomo, principe non caro all’universale in Sicilia, ma intimo con parecchi baroni, riverito da molti per consuetudine a obbedirlo, e ridottato da’ più per arti di regno e valore in guerra. Indi lo sbarco si divulgò per tutta l’isola con terrore; e, sedotte da Ruggiero, s’arreser le castella di Milazzo, Novara, Monforte; San Piero sopra Patti e poche altre. Ma la più parte delle terre d’intorno, non curando lusinghe nè spaventi, tenne per la siciliana causa221. Il re d’Aragona, consumati poco men che due mesi senza maggiore acquisto, cercando alla flotta sua un porto vernereccio più capace, pensò impadronirsi di Siracusa. Andovvi allo scorcio d’ottobre, rinforzate prima le occupate castella; e trovò Siracusa sì gagliarda, da non mancare allo antico suo nome.

Attendatasi la formidabil oste di Giacomo sulla costiera ond’esce in penisola la moderna Siracusa, ch’era di già misero frammento dell’antica, si sparse depredando per la campagna; drizzò le macchine contro il castello dell’istmo; poi die’ furiosi assalti di terra e di mare; e sempre fu niente alla città, forte e fedele, comandata dal pro Giovanni Chiaramonte. Sdegnò costui fin d’ascoltare i messaggi dello insidioso re d’Aragona. Penetrò una congiura, macchinata da chierici, che per promessa di dignità ecclesiastiche, accoppiando simonia a tradigione, profferiano a’ nemici la torre della porta Saccara; i quali furon puniti nel capo. Con estrema costanza i Siracusani patiron la fame: per quattro mesi e mezzo il re d’Aragona indarno li strinse con ogni argomento d’assedio. In questo tratto, di ferro e di morbi scemavasi l’oste; nè più s’allargava in questa orientale, che nella settentrional regione. Buscemi, Palazzolo, Sortino, Feria, Buccheri, gli s’arresero; e Buccheri pochi dì appresso tornò in fede. Mandatovi da re Giacomo il conte d’Urgel a ripigliarla, con un forte di cavalli e di fanti, i terrazzani, rustici e fieri, al dir di Speciale, diersi a combatterlo dall’alta lor postura, con una tempesta di selci, talchè mal concio si ritirò. Ma que’ ch’a furia di popolo avean vinto, la notte fur presi d’un vano timore che non tornassero i nimici con maggior forza; onde la terra sì egregiamente difesa contro gli armati, senz’alcuno assalto abbandonarono. Tal è senza capi la moltitudine. Tali passioni in quel tempo infiammavano i Siciliani, fin delle terra più rozze, ove non son ordini da rendere util valore una natura animosa e pugnace222!

Ondechè Federigo, consigliandosi di far guerra guerriata al nemico che non potea fronteggiare con giusto esercito, ragunò il più che potea genti a Catania, nè troppo discosto, nè troppo vicino al nimico, per vietargli, senza battaglia, di spargersi per l’isola, Nè perchè la città di Patti, tornata al suo nome, l’invitasse all’assedio della rocca, ov’eransi chiuse le soldatesche nimiche, lasciò Federigo l’importante sua postura. Manda a Patti uno stuol di Catalani sotto Ugone degli Empuri, di Messinesi sotto Benincasa d’Eustazio, di Catenesi sotto Napoleone Caputo e altri Siciliani. Ei da Catania confortava i Siracusani a tener fermo, forse con aiuti, certo con larghe concessioni di franchigia nelle dogane, e abilità a legnare nei boschi regi: e redintegrò i confini antichi del territorio; die’ loro la proprietà d’alcuni poderi223. Non lungi dal re, Blasco Alagona stava con un pugno d’audacissimi, a volteggiar, dice lo Speciale, intorno i nimici alloggiamenti, come lupo che non osa assalire i mastini, ma rabida fame lo stiga al ratto. In questo tempo Giovanni Barresi, barone siciliano d’illustre prosapia, ribellatosi da Federigo, per animo non curante del pubblico, ed error di troppa scaltrezza a speculare il privato suo bene224, die’ agli stranieri le castella di Naso e Capo d’Orlando nel settentrione, la forte Pietraperzia nel cuore dell’isola. Sperando quivi sicuro asilo, i mercenari di Giacomo si avventurarono allora a cavalcar il paese più addentro che non soleano. Seppelo Blasco dai suoi rapportatori, e li appostò in Giarratana al ritorno di Pietraperzia. Una notte dunque di folgori e tempesta, mentr’essi, carichi di bottino, venian sicuri al campo, si trovano avviluppati nell’agguato di Blasco, tra sentieri mal noti; nè seppersi difendere, nè trovar via alla fuga. Berengario e Ramondo Cabrera, Alvaro, fratello del conte d’Urgel, con più altri andaron prigioni; pochi scamparono. E Blasco, tutto lieto della prima vittoria contro i Catalani, recò a Federigo in Catania le funate de’ gregari, legati a dieci a dieci, e sciolti, sotto buona scorta, gli uomini di paraggio225.

Più segnalato avvantaggio s’ebbe per mare. Saputo l’assedio del castel di Patti, spiccavansi al soccorso dal campo sotto Siracusa trecento cavalli capitanati dall’ammiraglio, e venti galee cariche di vivanda con Giovanni Loria. Dei quali l’ammiraglio, con ardire e fortuna, cavalcando per lo mezzo della Sicilia nemica, giunse a Patti, e dileguò l’assedio; perchè i nostri, com’era intendimento di quella guerra, scansaron venire a giornata: e dato lo scambio al presidio del castello, stracco o dubbioso nella fede, velocissimo al campo tornò Ruggiero. Dopo lui giunse a Patti l’armatetta di Giovanni, e vittovagliò anco il castello, ma non fu felice al ritorno, Perchè Federigo vedendo qual destro gli offriva la fortuna, di combattere contro una punta sola delle navi nemiche, sopraccorre di Catania a Messina; gittasi nelle braccia dei cittadini, scongiurandoli a montar sull’armata; nè molto penò a infiammarli, sì che avean allestito sedici galee, quando si seppe da’ riconoscitori l’armatetta catalana navigar ne’ mari di Mirto, e poi fur viste le prime galee, che abbandonate da’ venti si sforzavan remigando a valicare lo stretto. S’odono in Messina squillare le trombe per ogni contrada; corrono armati al mare giovani e vecchi; il fratello, scrive Speciale, chiama all’armi il fratello, il padre non respinge i figli che il seguono al rischio; in tutti è una brama, di perire o pigliar vendetta di cotesti Catalani, predon venderecci, venuti a portar guerra ingiusta a’ lor liberatori della vittoria di Roses. Disordinatamente vogan dunque i Messinesi all’affronto, con tal furore che il disordine stesso non nocque. Per breve zuffa, senza molto lor sangue, trionfarono de’ nemici, contrariati dal vento; ogni galea messinese ne cattivò una Catalana; le altro quattro si salvaron fuggendo; ma Giovanni Loria restò tra i prigioni. Al ritorno de’ vincitori, non furono spettacol nuovo a Messina, un re piangente di gratitudine che mescolavasi tra il popolo e combattenti; le donne che traeano agli altari, recando la offerte votate nell’ansietà del rimirar la battaglia. I prigioni più notabili furono chiusi in castello; i minori in altre carceri di Messina e di Palermo, ch’eran Catalani la più parte, e i nostri, com’è aspro il risentimento dopo dimestichezza e vicendevoli obblighi, non contenendosi che non aggravassero la prigionia col dileggio e chiamaronli garfagnini226. Dopo questo disastro poco giovò ai nimici la ribellione di Gangi; ove se vennero il traditor Barresi, Tommaso Procida, e Bertrando de’ Cannelli, catalano, a confortare la terra a difesa, non tardavano a presentarsi ostilmente con armi siciliane Matteo di Termini, maestro giustiziere, uom nuovo, ascendente a possanza nella corte di Federigo, e Arrigo Ventimiglia conte di Geraci s d’Ischia, d’antica nobiltà e nimistà a parte angioina227; i quali trovando ostinati i terrazzani e fortissimo il luogo, davano il guasto al contado228. Ma un altro più grave effetto ebbe il combattimento del Faro. Perchè arrivate al campo di Siracusa le navi fuggenti, ristretti a consiglio Giacomo, Roberto e il legato, co’ principali capitani, consideravano la resistenza durissima di Siracusa, da non vincersi di leggieri: le molte migliaia mancate all’oste229; la flotta menomata, ch’essi in paese nemico non potrebbero ristorare, ma ben i Siciliani la loro, incoraggiati dall’ultima vittoria: e certo fu tra le principali ragioni, che la guerra andava in lungo, e gli stipendi della gente catalana correano scarsamente230. Perciò, messo il partito da un Pietro Cornel, assai riputato tra i condottieri di Giacomo231, si deliberò la ritirata. Raccolsero sulle navi gli arnesi e le tende di maggior prezzo; poser fuoco agli alloggiamenti; e l’armata fe’ prora a settentrione. Lasciati da cinquecento cavalli e duemila fanti nelle occupate fortezze, il re d’Aragona, pria di partirsi di Sicilia, sostava a Milazzo, ridomandando a Federigo le sedici galee co’ prigioni; e promettea che mai più non tornerebbe a’ suoi danni. E forse, quant’era stato bene una volta non ascoltar Giacomo, tant’era in questo incontro assentirgli; e Vinciguerra Palizzi sostenealo caldamente nel consiglio del re, mostrando che a sì grande utilità potea ben sagrificarsi un po’ di vendetta. Corrado Lancia, per lo contrario, stigava Federigo ch’usasse la fortuna; che rispinto ogni accordo, di presente uscisse con l’armata a combattere i Catalani fuggenti: e il re, che non sapea reggersi fuorchè ad altrui consiglio, seguì per abitudine quel di Corrado. Data dunque tal risposta ai legati d’Aragona, Federigo, per novella ira di qualche parola di Ruggier Loria riportatagli in mal punto, affretta il supplizio di Giovan Loria e di Giacomo Rocca, condannati nel capo dalla gran corte, a ragione, per ch’eran rei di tradimento; ma costò poi molte lagrime alla Sicilia. Intanto infellonito contro il fratello, messa in punto tutta la flotta in pochi dì, montovvi Federigo, cercando battaglia. Gliela tolsero un vento fortunale che si levò, e la prudenza di re Giacomo, il quale amò meglio affrontar la tempesta, che il fratello in quell’ira; non sappiam se mosso da carità del sangue, o da coscienza delle proprie sue forze. Perdute due navi tra le isole Eolie, tornossi di marzo del novantanove a Napoli; ove Bianca gli partorì un figliuolo, ei fortuneggiò tra vita e morte in breve malattia, e appena sorto dal letto, sopraccorse in Ispagna ad assicurar le sue frontiere minacciate. Federigo, battuto e mal concio dalla tempesta, si ricolse nel porto di Messina. Nè andò guari che Manfredi Chiaramonte ridusse Pietraperzia; il re stesso, con maggior oste e più duro assedio, Gangi, uscitini a patti i tre baroni nominati dianzi; ed ebbe alsì le castella occupate dai nimici presso Siracusa. Quelle della costiera di tramontana, già vicine ad arrendersi non ostanti i soccorsi di Napoli, instando all’assedio Federigo, furon liberate dal nuovo passaggio de’ Catalani232.

Così allenando in primavera del novantanove, ambo le parti ripigliavan forze al nuovo conflitto. Papa Bonifazio, superbo di questo gran colpo di scatenare il fratello contro il fratello, sì che scrivealo fra le principali sue geste in accrescimento del nome cristiano, e vantavasi delle notti vegliate a macchinarlo, e della moneta gittatavi233, raccolse allora sotto il patrocinio della Chiesa il reame di Aragona, che, assente il re, i vicini nol turbassero; die’ a Giacomo per la guerra siciliana le decime ecclesiastiche de’ suoi reami, e il vescovo eletto di Salerno, legato apostolico da maneggiar censure e perdoni234; ma questa fiata men prodigo fu di danari. Smorzava ciò lo zelo di Giacomo, ch’era cominciato a pentirsi, e tornò ciò non ostante a Napoli in fin di maggio235, perchè l’anno innanzi, fidandosi ne’ sussidi di Bonifazio e di Cario, s’era vincolato a pagar egli i soldati, e indi i debiti stessi lo strinsero a continuar nel servigio de’ due potentati italiani, e raddoppiare gli sforzi alla vittoria. Par che in questo tempo una speranza inaspettata di libertà s’offrisse ad Arrigo, Federigo ed Enzo, figli di Manfredi, per la necessità in cui era Carlo II di far ogni piacere del re d’Aragona, o per altro disegno che non saprebbesi indovinare; e che il disegno o il desiderio dì Giacomo si dileguassero prestamente per la ragion di stato che volea sepolti vivi i veri eredi del trono di Sicilia. Dicemmo già ch’essi, con la sorella Beatrice, passaron dalle fasce alle tenebre e all’oblio della prigione. Ruggier Loria alla prima vittoria del golfo di Napoli ridomandò ben la Beatrice, minor sorella della regina Costanza; non però i tre giovanetti ch’avrebbero conteso alla casa d’Aragona ogni dritto su la Sicilia, e, se non dalla corte, certamente dal volgo, si credeano spenti. Carlo II ordinava a un suo cavaliere il venticinque giugno del novantanove, che li traesse dal castello di Santa Maria del Monte; li vestisse, li provvedesse di cavalli, e liberi li mandasse alla corte di Napoli. Ma la storia nulla ci dice di loro; ed è evidente che i nipoti del gran Federigo, o furon vittima di qualche misfatto, o la loro liberazione fu contrabbandata, o tosto tornarono alla prigione, perchè non s’avviluppasse maggiormente con questi altri pretendenti la gran lite di Sicilia236.

Il re d’Aragona, che per certo facilmente s’acquetò alla sventura de’ fratelli della madre, seppe cavar moneta il più che potea dallo esausto erario di Napoli237. S’acconciò col suocero che questi gli pagherebbe il rimagnente delle spese della passata impresa, sottilmente computato tra i commissari dei due re, per ventimila quattrocento ottantanove once d’oro, obbligandovi Carlo tutti suoi domini, e specialmente l’isola di Sicilia, se avvenisse di racquistarla; e si pattuì ancora, che ripigliando la guerra, lo Spagnuolo avrebbe pronta moneta, nè si farebbero mancare i sussidi per lo innanzi238. Crebbero per cagion di sì gravi spese le penurie della corte di Napoli; ch’indi in questo tempo veggiamo, mal sovvenuta da’ popoli con mendicati doni più tosto che tasse, vender gioielli, e più precipitosamente ingaggiarsi co’ mercatanti toscani che le davano in prestanza, le maneggiavano i cambi, e, come co’ falliti si fa, toglieansi in pagamento le entrate più spedite239. Portan la stessa sembianza gli stentatissimi pagamenti alle soldatesche di Giacomo240; la sollecitudine della romana corte a farsi promettere da quella di Napoli il valsente di tanti poderi, per la massa enorme de’ debiti che si erano ammontati, di censo alla Chiesa, d’imprestiti dei suoi mercatanti, di sovvenzioni per la guerra, di sovvenzioni per la dote della figliuola, con che comperaron Giacomo re d’Aragona241. Per questi travagli ancora, re Carlo vedea nel reame di Napoli prorompere assalti e guerre private, come avviene ove mal reggasi il freno degli ordini pubblici242; avea a temer sudditi volti a praticare con quegli stessi minacciati ribelli di Sicilia243; era necessitato a porre magistrati con istraordinaria autorità nelle città più grosse, ove i consueti modi del reggimento rendeansi inefficaci244. Donde furono debolissimi in tal tempo i nerbi di guerra d’un reame, che dapprima avea armato contro la Sicilia tanti eserciti, tante flotte; nè per numero d’uomini, nè per mole di preparamenti fallò che non la domasse.

Ed or fu costretto Carlo ad accattare l’armata dallo Spagnuolo, nè vi sopperì del suo che poche galee, e remiganti, vittuaglie, attrezzi, ch’erano il frutto di quegli ultimi disperati imprestiti di moneta245. Poco men tristo fu per vero l’esercito di milizie feudali, compagnie di venturieri, e in qualche caso fanti armati dalle città246; e pur non ebbero tanta forza che sbarbassero di terraferma le nostre soldatesche, varie, ribalde, senza disciplina, senza paga. Non che nelle Calabrie sì vicine a’ nostri aiuti, non valser gli sforzi di re Carlo contro picciole castella di Principato stesso, contro le isolette a veggente di Napoli; e fa d’uopo che si volgesse a procacciar tradimenti, aiutandol Giacomo con la sua riputazione appo gli antichi suoi condottieri siciliani e spagnuoli, ch’or teneano per Federigo. Il pro Ruggier Sanseverino conte di Marsico, e quel Ruggier Sangineto che delle romane virtù imitava bene le snaturate ed atroci, or mostraronsi peritissimi a servir Carlo nelle novelle sue vie. Si pensò mandar la flotta catalana sopra Ischia, Procida, Capri, che teneano il governo angioino in molto sospetto, e sbarcarvi saccardi di Napoli, Capua, Aversa, che dessero il guasto alle campagne: e mal ritraesi se la fazione fu dismessa o fallì; certo che le tre isole resistettero fino alla sconfitta del Capo d’Orlando247. A castell’Abate, sulla meridional punta del golfo di Salerno, che i nostri per tredici anni avean tenuto con mirabile costanza, andò il Sanseverino, men a combattere che a trattar tradimento con alcuni almugaveri del presidio, spagnuoli e siciliani, che passaron di lì a poco a’ soldi dell’Angioino. Sforzato da questi sleali, o da’ terrazzani, Apparente di Villanova capitan del castello, all’entrar di marzo del novantanove pattuiva che darebbe la piazza, salve robe e persone delle sue genti, con immunità larghissime e sicurtà degli abitatori della terra, s’a capo a trenta dì non fosse soccorso da Federigo; il quale non potendo mandar alcuno aiuto, s’arrese alfine il castell’Abate, con vana mostra di venirvi i principi Roberto e Filippo e grande oste del regno248. Sembra che per simil guerra tornassero all’ubbidienza del re di Napoli, Rocca Imperiale e Ordeolo, terre in Basilicata e val di Crati, alla cui espugnazione si fece gran ressa. Tenne fermo il castel di Squillaci249. Vendè Otranto il traditore Berengario degl’Intensi, catalano, passato co’ suoi venturieri a parte nemica, e rimasovi in dubbia fede, sì che l’imprigionarono; ma poi gli ottenne mercede Giacomo, amico di sì fatti ribaldi250. Altri ne fallirono a Federigo in questo tempo medesimo; i quali, al par che l’Intensa, credean colorire il prezzo del tradimento, con farsi pagar dai nemici i loro stipendi, non soddisfatti dal re di Sicilia, o così essi diceano, non trattenendosi forse dalla menzogna poichè s’eran gittati al più vil dei misfatti. Così Giacomo trattò col castellano di San Giorgio in Calabria, e il volse a parte angioina251. Guidone Spitafora, che reggea per Federigo la terra di Taverna in Calabria, sedotto da Sangineto, la rese a tradigione, ed ebbesela in feudo. Per simil premio, il Sangineto ordiva che rendesse al nome d’Angiò Martorano anco in Calabria. Precipitavano alla corruzione i privati, tra tanti rivolgimenti e pericoli de’ governi. Precipitava alla corruzione, per troppa voglia e debolezza, lo stesso Carlo II, cui dritto animo e pietà cristiana non ritennero, non che dal trattare i tradimenti delle dette due terre, ma dal por giù ogni pudore, scrivendo in questi casi ne’ suoi diplomi latini: «Onore è ciò che toglie molestia;» che suona bisticcio miserabile in quell’idioma, e bestemmia nel linguaggio dei giusti252.

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