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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2
CAPITOLO XV
Coronazione di Federigo II di Sicilia. Novelle costituzioni, per le quali è ridotta nel parlamento gran parte della sovranità. Federigo porta la guerra in Calabria, Principi della discordia tra il re e Loria. Presa dì Cotrone; fazioni in Terra d’Otranto; combattimento del ponte di Brindisi. Papa Bonifazlo spinge Giacomo contro 11 fratello. Ambasceria di Giacomo. Parlamento di Piazza. Battaglia di Ischia. Viene Giacomo a Roma. Chiama a sè Loria. Ribellion di costui da Federigo. La regina Costanza il porta via di Sicilia, con Giovanni di Procida. Primavera del 1296 alla primavera del 1297.
D’ogni luogo di Sicilia cavalcavano alla volte di Palermo, all’entrar di primavera, gli ottimati ecclesiastici e civili, i sindichi delle città, e insieme privati borghesi, e plebe, e vassalli, con frequenza non più vista, per trovarsi a quel nuov’atto di libertà, la coronazione di Federigo. Indi la sera innanzi la pasqua di resurrezione, erano sparse di mirto le vie della capitale, i portici, i tempî, i palagi parati in mille bizzarre guise a drappi di seta e oro; le luminarie davan chiaro di giorno per le contrade; la cattedrale, festeggiandosi il vespro del sacro dì, ardea dal baglior d’infiniti torchi di cera, grandi, scrive Speciale, al par di colonne; il fracasso di trombe, corni, taballi, come simbol della guerra soverchiante i diletti della pace, vinceva l’armonia de’ più dolci stromenti, e i lieti canti del popolo, che tutta spese in tai sollazzi la notte. Al nuovo dì che fu il venticinque marzo milledugentonovantasei, nella cattedrale fu unto e coronato re di Sicilia Federigo; ricondotto al palagio tra plausi non comuni, a cavallo, con vestimenta regie, diadema in capo, scettro alla man sinistra, pomo alla dritta. Ei stesso armò cavalieri meglio che trecento giovani di nobil sangue; creò conti; die’ feudi ed ufici: fatti Ruggier Loria grand’ammiraglio; Corrado Lancia gran cancelliere, in iscambio del Procida; capitani dell’esercito Blasco Magona, frate Arnaldo de Poncio disertor di Calabria, Guglielmo di Casigliano e altri provati combattenti. Si passò ai giochi pubblici, adatti al secolo e al guerresco atteggiamento del paese, cavalcare, trarre al segno, giostrare; al palagio tennersi mense imbandite a chiunque, Così per due settimane si tripudiava145. In quel tempo, forse in quel primo brio, e con l’alacrità di chi avea gittato il dado a grande impresa, detta Federigo una poesia provenzale, indirizzata al suo fedel Ugone degli Empuri, che gli rispose nello stesso metro e rima: e i versi d’entrambi attestano con qual franco animo il giovin re andava incontro alla guerra; come fidava nella nazion siciliana; sperava negli aiuti degli avventurieri spagnuoli; e sospettava del re d’Aragona, dubbioso tra gl’interessi di famiglia che ’l tiravano a favorir Federigo, e le profferte e minacce de’ nemici che spingeanlo dal lato opposto. Federigo sfidava quasi gli uomini e la fortuna a trarlo giù dal trono, se potessero: Ugone par che credesse più nel coraggio, che nella capacità e nella mente del nuovo principe: ambo i componimenti, se non han pregio di poesia, servono alla istoria, perchè fedelmente dipingono l’animo di Federigo e le sue condizioni politiche146. S’innovò insieme la costituzione dello stato. Avean Pietro e Giacomo ristorato le buone leggi normanne, riformato abusi, temperato gravezze; ma Federigo, consigliato o sforzato da’ tempi, passò a sviluppare, ben oltre il confine normanno e svevo, i dritti politici della nazione, in guisa che, se non mutaronsi i nomi, si vantaggiò tanto negli ordini pubblici, da restar alla Sicilia premio non indegno del vespro. Nel proemio delle costituzioni, promettea Federigo, e non a ludibrio, di osservar la giustizia e liberalità comandate dall’Onnipotente ai re della terra. La colpa di Giacomo, gl’incerti passi ch’ei medesimo, Federigo, già diede con Bonifazio dopo essersi indettato co’ Siciliani, or lo strinsero a sacramentare su la sua fede e ’l terribil giudizio di Dio, che manterrebbe a tutto potere il presente stato della Sicilia; nè cupidigia di nuovo acquisto, nè altra ragione lo spunterebbe dalla difesa; nè farebbesi a domandar dalla romana sede scioglimento da cotali promesse, com’era pessima usanza di quell’età. A guarentigia di ciò, si strinse Federigo d’un altro vincol più duro: che nè con la Chiesa romana, nè con altri potentati, farebbe unquemai lega, pace, guerra, se nol consentisse la nazione. Slmilmente partì co’ rappresentanti della nazione il poter legislativo. Stanziò, che s’adunasse ciascun anno il dì d’Ognissanti generale parlamento de’ conti, baroni, e sindichi de’ comuni (nè qui si fa menzione di prelati), che insieme col re provvedessero alla cosa pubblica; e il re fosse tenuto, come ogni altro, dalle leggi decretate col parlamento. Data a questo la censura su i magistrati e uficiali pubblici; e che i sindichi accusassero, tutto il parlamento punisse. Tutto il parlamento, non esclusi i sindichi delle città, ebbe la scelta annuale di quella che noi diremmo alta corte de’ pari, cioè di dodici nobili siciliani, che giudicassero inappellabilmente, indipendenti da ogni altro magistrato, le cause criminali de’ baroni; importante privilegio de’ tempi normanni, ristorato or che montava l’autorità de’ nobili e del parlamento.
Confermò Federigo largamente le franchezze e privilegi degli Svevi e de’ suoi predecessori aragonesi, con ciò che nei casi dubbi s’interpretassero a favor dei soggetti. Nè terminò quest’ordine di leggi politiche, senza riforma in quelle sopra i delitti di maestà, ch’a gran pezza dipendono dalle politiche, e secondo l’indole del reggimento, or portan mite freno, or cieca ed efferata vendetta. Ondechè fu tolta a’ privati l’accusa di fellonia; riserbata al principe; lasciata ai rei la scelta del giudizio, come lor fosse a grado, secondo il dritto comune, le costituzioni dell’imperador Federigo, o le usanze larghissime di Barcellona. Volle il re in fine, che su i beni confiscati per alto tradimento, si rendesse alle mogli quanto lor dava la civil ragione, o ad esse e alle figliuole si porgessero sussidi per vivere. E intendendo nel principio del suo regno a cancellar ogni ombra di parte, vietò severamente le parole di fellone, guelfo, o ferracano, divenute ingiurie in questo tempo, in cui l’opinione pubblica e gl’intendimenti del governo non discostavansi un passo. Fu questo il primo libro delle costituzioni di Federigo147.
Contengonsi nel secondo poche riforme di abusi su l’amministrazione della giustizia148, perchè Giacomo ci avea provveduto appieno; ma notevol è lo statuto, che fossero Siciliani, nobili, e ricchi, da scambiarsi in ogni anno, e stipendiati dall’erario, i quattro giustizieri, deputati a conoscer le cause criminali per tutta l’isola, fuorchè in Palermo e Messina, che avean privilegio di speciali magistrati149. Sonvi ancora statuti ch’or diremmo di polizia, tra i quali si legge l’ordinamento de’ sortieri, ossia guardia cittadina, ne’ comuni demaniali, e che fosse multato d’un agostal d’oro tutt’uomo trovato per le strade senza lume, appresso il terzo tocco della campana150. Si diè maggior passo in altra parte d’amministrazione civile, decretando l’unità di peso e misura, se non per tutto il reame, ben in ciascuna delle due regioni in cui divideasi la Sicilia, a levante e a ponente del Salso151; e che nella prima si adoprassero il tumolo di Siracusa e il quintal di Messina; nella seconda que’ di Palermo152. Quanto innanzi sentivano in economia pubblica i Siciliani di quel tempo, si scorge altresì dalla legge ch’obbligò le chiese a vendere o concedere ad enfiteusi, entro un anno, i poderi ad esse pervenuti per lasciti o quantunque altro modo; talchè la incuria delle mani morte, come si chiamano, non nocesse all’industria del paese. Gli ecclesiastici, su i beni di lor patrimonio privato, andaron soggetti, come ogni altro cittadino, alle pubbliche gravezze: e si pose più giusta proporzione tra i contribuenti delle collette in ciascun municipio, che altra riforma non restava, dopo quella di Giacomo, nell’ordinamento delle entrate pubbliche153. S’aggiunse che gli uficiali dell’erario fosser tutti Siciliani, capaci, e obbligati ad esercitar gli ufici in persona: e stabilironsi i modi e i tempi in cui rendessero ragione di lor portamenti154.
Ma volgendosi nel terzo libro alla feudalità, s’ingaggiava a riconcedere i feudi che fossero caduti nel demanio regio; e più gratificava a’ baroni derogando alle leggi dell’imperator Federigo, anzi a tutt’ordine feudale, col permetter che si alienassero i feudi, pagata sì la decima al fisco, con lievi altre condizioni. Confermò, anzi estese alquanto, i capitoli di Giacomo per la successione de’ collaterali, e i discreti termini del militar servigio; migliorò le condizioni de’ marinai dell’armata155. Ebbe dunque la nazione, dritto di pace e di guerra e di dar leggi, moderate gravezze, più spedita e benigna amministrazione di giustizia, sicurezza pubblica, favore a’ commerci e alla agricoltura: nè merita poca lode, secondo i tempi, quella legge dell’alienazione de’ feudi, che, qualunque fosse stato il suo scopo, rendea più libere le proprietà. Federigo giurò solennemente l’osservanza di queste costituzioni; dienne perpetuo attestato nell’ultimo capitolo. Poco appresso confermava ai Catalani mercatanti in Sicilia i tre privilegi di Giacomo; rendea comuni a tutti sudditi spagnuoli del fratello que’ dati specialmente ai cittadini di Barcellona. Talmentechè è una mirabile somiglianza tra i primordi delle due dominazioni di Giacomo e di Federigo, per trovarsi ambo nelle medesime necessità in Sicilia, e sperar dall’interesse privato dei sudditi in Aragona, gli aiuti che quindi lor contrastava l’interesse del re156.
Poi si volse Federigo alia guerra. Tenne in Palermo l’ultima adunanza di quel parlamento; ove sedendo gli ottimati a destra e a manca del trono, a fronte i sindichi de’ comuni, il re con modesta parola, chiamando ogni suo potere da Dio, aringava; conchiudendo che rimbaldanziti i nimici, strignenti d’assedio Rocca Imperiale in Calabria, era uopo incalzarli per ogni luogo in terraferma; per pochi giorni più che si sudasse sotto le armi, i Siciliani asseguirebber premio di ferma pace; ei già li vedea azzuffantisi, vittoriosi, bagnati di novello sangue nemico. I quali detti fur tanto ne’ commossi animi, che non aspettato il fine, non serbato ordine o modo, prorupper tutti in un grido di: «Guerra al nemico, guerra per la libertà;» e deliberossi per acclamazione. Il popolo applaudendo con maggior foga, chiedeva le armi; agguerrito, non stanco in quattordici anni di guerra157.
Cavalcando il re per Messina, lo stesso amore il festeggiò a Polizzi, Nicosia, Randazzo, e per ogni luogo; e più a Messina, gareggiante con Palermo, allor solo in virtù. Quivi per lungo tratto fuor la città si faceano incontro al principe, con bandiere e pennoncelli e signorile abbigliamento, gli uomini di legge, onoratissimi in quel culto popolo; i nobili vestiti di seta, su cavalli ricoperti a drappi di oro; il clero venia salmeggiando; più presso alla città si trovaron brigate di matrone e donzelle, ricchissime di vesti, di gemme, di profumi orientali. Entrò Federigo per le strade parate e sparse di fiori; sotto un pallio portato da nobili uomini; precedendo un araldo che gridava le sue lodi; rispondendo il corteggio e il popolo; e gli stessi bambini, dice lo Speciale, facendo plauso in braccio alle madri. Smontato al palagio, la madre, la sorella che sì l’amava, la prima volta il salutarono re. Confermò ai cittadini messinesi la libertà di mercatare per tutta la Sicilia portando o traendo derrate, ch’era gran privilegio tra’ sistemi proibitivi di quell’età, e loro l’avea dato l’imperador Federigo, l’ultim’anno del secol duodecimo158. Loria allestì l’armata con mirabile prestezza in quest’alacrità della nazione. Nè andò guari che il re, spiegando la prima volta in guerra, l’insegna delle sveve aquile nere in campo bianco inquartate con l’addogato giallo e vermiglio di casa d’Aragona, passò lo stretto, con fortissim’oste, e fu accolto in giubilo a Reggio159. Perchè questa e altre città di Calabria eran rimase in fede della nazione siciliana, non ostanti gli ordini di Giacomo. Più se ne eran perdute; a ridur le quali non bastava, per aver poche genti, il pro Blasco Alagona; ma le tenea in sospetto, e stringeva Squillaci.
Su questa marciò dunque Federigo, poich’ebbe fatta la massa a Reggio. E al primo scorger la postura di Squillaci, domanda s’abbia altre acque che delle due riviere a pie del colle; e sapendo che no, fatte venir le genti dell’armata, le sparge sulla ripida costa che dalla città pende sul fiume, occupa intorno tutti i passi. Dondechè i terrazzani sitibondi, brucianti, che guardavan dall’alto la limpida corrente del rivo, e lor era vietata, disperatamente uscirono ad azzuffarsi co’ nostri; ma rotti da Matteo di Termini, e rincacciati entro le mura, per non trovare altro scampo al morir dalla sete, s’arresero a Federigo160. Lasciata Squillaci, ei sostò alquanto presso Rocchella, per deliberare i movimenti della guerra contro il conte Pietro Ruffo, che s’era afforzato in Catanzaro, ubbidito alsì da tutta la provincia.
Quivi s’accese tra i nostri capitani una lagrimevole discordia. Perchè Ruggier Loria, grandissimo di fama, d’avere e d’orgoglio, pensava troppo d’essere primo o solo sostegno del nuovo principato: e allettandolo le arti di Giacomo e de’ nemici, che profferian alto stato a lui e a Giovanni di Procida e a tutt’altri stranieri gittatisi nella siciliana rivoluzione, tanto teneva ormai l’ammiraglio per Federigo, quanto questi e ’l reame di Sicilia si reggessero del tutto a sua posta. Per le medesime cagioni gli altri baroni, valenti anco in guerra, invidiavan profondamente l’ammiraglio, ed eran più grati a Federigo. A questi umori non mancò presta occasione. Volea il re oppugnar Catanzaro, avvisando che con essa cadrebbe tutto il paese: Loria, al contrario, congiunto di sangue col conte, lo dipingea fortissimo; però si lasciasse stare, s’occupasser le altre facili terre, Catanzaro si avrebbe per fame. In tal disparere, gli altri capitani non osavano in consiglio dir contro Ruggiero, perchè non li conficcasse di rimbrotti in qualche sinistro; non voleano lasciar passare non malignata la sua sentenza; ma con gesti e mormorar tra i denti, fean peggio che con parole. Federigo colse il cenno, e risoluto comandò di marciare su Catanzaro; l’ammiraglio apprestasse le macchine per lo assedio. Ed egli tacque e ubbidì.
Messo il campo al castello, parve a Federigo assaltarlo dal Iato ov’era fabbricato sul piano; e volendo colmar di tronchi e fascine il fosso, con molto ardore egli stesso conducea le genti al vicin bosco; di sua mano dava con la scure per gli alberi; talchè fornita l’opera in poche ore, grande massa di legname si ammontò sullo spalto. S’udiron tutta notte squillar di qua e di là le trombe; stettero in arme gli assediati per timore, i nostri per impazienza del saccheggio, che promettea il re. Al far dell’alba, appena dato il segno, appianato in un attimo il fosso, le genti di mare leste scalavano. Ma un dispettoso comando le arrestò. Il conte, con l’acqua alla gola, chiama l’ammiraglio, mescolatosi, com’ei solea, tra i combattenti; gli offre darsi a patti, raccomandandosi a lui per lo comun sangue: e l’ammiraglio, fattogli cenno a tacersi, che non udissero i soldati, comandò di far alto, prima a suon di tromba, poi con voce e minacce egli stesso, galoppando qua e là sotto i muri; perchè i nostri, per tener già la vittoria, non sapeano spiccarsene. Corse indi Loria al re; n’ebbe una prima ripulsa, ma non restandosi per questo, e tirando seco altri baroni, tanto disse che, fremendone tutta l’oste, impetrò alfine l’accordo: si rendesser Catanzaro e le altre terre della contea, non avendo soccorso dal re di Napoli tra dì quaranta. Con giuramento e statichi il conte ratificò. Entrò nella tregua tutta la Terra Giordana, fuorchè Sanseverina, renduta ostinatissima alla difesa dall’arcivescovo, per nome Lucifero, che per lo suo gregge, Speciale dice, si giocava l’anima; e non ostia, ma umani corpi, non mistico vino, ma uman sangue offriva al Cielo. Federigo accampossi, per l’amenità del luogo, sotto Cotrone, ingaggiata dall’ammiraglio ne’ medesimi patti di Catanzaro161. E tenendo appresso di sè dodici galee, mandò l’ammiraglio col rimagnente della flotta e trecento cavalli su’ confini di Basilicata, a sovvenire Rocca Imperiale, duramente battuta dal conte Giovanni di Monforte162.
Col solito ardire quivi sbarcò Ruggiero; avvicinossi al campo nemico; poi, accozzate le forze con frate Arnaldo de Poncio, prior di Sant’Eufemia, che combattea in quelle regioni per parte aragonese, vittovagliarono la rocca una notte, con sacchi di grano portati in groppa da’ cavalli, in ispalla da’ pedoni, in improvvisa fazione sugli assedianti. Di lì l’ammiraglio percote d’un altro assalto Policoro, presso alla foce dell’Acri; vi prende i viveri dell’oste di Monforte, e cento cavalli che stavano a guardia. E tornavane al campo di Cotrone tutto lieto, se un caso non facea divampar tra lui e il re la rattenuta ira163.
Perchè durante la tregua, i terrazzani di Cotrone, venuti un dì alle mani co’ Francesi del presidio per private cagioni, e avutone il peggio, chiaman soccorso dal nostro campo, di là ov’era attendata la fiera gente delle galee; la quale, rapite in furia quelle armi che il caso offrì, salta dentro, rinnova la zuffa, e rifuggendosi i Francesi nel castello per postura fortissimo, entravi rinfusa con essi, pone ogni cosa a sacco ed a sangue. Intanto levandosi il romore nel campo, Federigo che meriggiava, desto dal sonno, così com’era senz’arnese, afferrata una mazza, lanciossi a cavallo, spronò al castello; e il trovò sforzato, e i suoi ch’uscivano col bottino. Ond’ei crucciosamente proruppe a rampognarli della rotta fede, nè si ritenne dal trucidar di sua mano i men presti a fuggirgli dinanzi. Poi comandò fosse resa tutta la preda; pagato dalla cassa regia ciò che non si rinvenisse; dati due prigioni, francesi per ognuno morto nella mischia: e fe’ scusa della tregua violata, ma non rendè la fortezza. Fe’ imbarcare il capitano francese, Pietro Rigibal, con tutto l’avere de’ suoi, e lettere drizzate all’ammiraglio, narrandoli il successo, e commettendo ch’avviasse Rigibal coi renduti prigioni al re di Napoli, poichè altra riparazione non restava.
Ma l’ammiraglio all’intendere il caso, infellonito diessi a gridare: «Son io, son io la cagione!» e affrettatosi al campo, assai superbamente parlava a Federigo, delle sue geste, dell’incontaminata fede guerreggiando fin co’ barbari e gl’infedeli; questa esser macchia incancellabile sul suo nome. «Mai più, conchiuse, mai più non sarò ludibrio di chi sta e susurra perfidi consigli agli orecchi del re. A man giunte, dalla rocca di Castiglione, vedrommi il fine di questa guerra. E tempo verrà che i ribaldi calunnianti or me in corte, tremeranno in faccia al pericolo.» Federigo, contenendosi appena, con un sogghigno gli rispondea: non ricantasse que’ servigi, noti e pagati a soperchio: essersi fermati a nome del re i patti di Cotrone, al re toccava mantener la sua fede; e a tutta possa aveal fatto; ma non saper soffrire l’orgoglio; andasse pur via dall’oste a sua voglia: e montato a cavallo, il piantò. Corrado Lancia, fidatissimo di Federigo, cognato dell’ammiraglio, tramezzatosi a riconciliarli, salvò almen le apparenze. Sì che per questa volta l’uno e l’altro si davano a sfogar sopra i nimici gli animi grossi e tempestosi164.
Prosperamente avanzavano in terraferma le armi nostre. Avuti i messaggi del conte di Catanzaro, re Carlo, esausto di danari, dopo molta deliberazione, avvisò munir le città marittime di Puglia, senza affaticarsi a impotenti aiuti nelle Calabrie; onde scorsi i dì quaranta, vennero in poter di Federigo tutta la contea di Catanzaro e la Terra Giordana. Il re con l’esercito, Loria con l’armata, venuti in questo sopra il conte di Monforte, lo fean levare dall’assedio di Rocca Imperiale. Poi l’uno, cavalcando ambo le Calabrie vittorioso, piegò agli accordi il feroce arcivescovo di Sanseverina; occupò, dato il guasto al contado, Rossano fortissima di sito, e le terre d’attorno; e inanimito da’ successi, minacciava le province di sopra. L’ammiraglio, valicato il golfo di Taranto, assaltava Terra d’Otranto. Dapprima innoltratosi sull’asciutto fino a Lecce, d’improvviso assalto di notte, la sorprese e depredò. Rientrato in nave, presentasi ad Otranto; senza fatica se n’insignorisce, mentre gl’irresoluti cittadini nè difendeansi, nè venieno a’ patti; e perchè gli parve comodo il porto, la rafforzò di torri e di mura, lasciovvi tre galee e scelta gente di presidio165. Dopo ciò tentava un colpo su Brindisi.
Ma perchè vel prevennero secento cavalli francesi, Ruggiero, posti in terra i suoi, trinceossi alla Rosèa con pali e corde intorno, a sua usanza; e non potendo assaltar la città, dava il guasto al paese. Avvenne un dì, che conducendo egli stesso la cavalcata infino al ponte di Brindisi, i fanti che ’l seguiano, spinsersi oltre il fiume in cerca di verzure e più limpid’acque, in un luogo che l’ammiraglio non tardò a riconoscer atto ad insidie: ond’ei sopra un ronzino corse lor dietro, gridando che tornassero. Ed ecco una torma di cavalli francesi, uscita dall’agguato, a corsa drizzarsi al ponte. Voltò la briglia Ruggiero; a mala pena guadagnò il ponte; gridò che gli recassero il suo destrier di battaglia; e ansando facea montare gli uomini d’arme: perchè nella difesa del ponte stava la salvezza de’ suoi, sparsi e pochi incontro al grosso stuolo nimico. Già il capitano, Goffredo di Joinville, con un altro nobil guerriero, trasvolavan oltre l’arco di mezzo; eran perduti i nostri, se Peregrino da Patti e Guglielmo Palotta, cavalieri siciliani, non si gittavan soli sul ponte. Costoro a’ due Francesi fecer testa, indi a tutta la torma accalcatasi allo stretto varco: bagnati di sangue da capo a piè, coperti di ferite, tennero il ponte finchè l’ammiraglio sopravvenne co’ suoi, gridando: «Loria, alla riscossa!» Allora si strinse più aspra la zuffa. Sotto i colpi delle spade e delle mazze volavano, scrive Speciale, in pezzi le armature; fronte con fronte, petto con petto, cozzavano i guerrieri. L’ammiraglio e Joinville per caso affrontansi: e alza questi la mazza per ferire; Ruggiero al tempo, gli vibra una punta tra corazza ed elmo; ondechè il Francese, avvampando di vendicarsi, immerge gli sproni ne’ fianchi del cavallo per gittarlo addosso al nemico; e gittossi a morte, perchè l’agil animale, spiccato un salto, precipitava giù dal ponte. Nè finì la tenzone a questo; dura e ostinata si travagliò, finchè i balestrieri siciliani, bersagliando la massa de’ nemici serrata sul ponte, laceraronla, diradaronla e volserla in fuga. Molti, fitti nella melma del fiume, restarono uccisi o prigioni; i fuggitivi non inseguì Loria co’ suoi, laceri e ansanti poco men che i nimici, per la disuguale battaglia. Indi non s’ebbe dalla vittoria altro frutto166. Ma la virtù di Peregrino da Patti e di Guglielmo Palotta, che ricorda per la somiglianza del caso, illustri esempi antichi e recenti, degnissima è della nostra memoria. Speciale la registrò nelle istorie siciliane; poi l’hanno obbliato i più, perchè tutto quaggiù, anche la gloria, vien da fortuna. E maggior mancamento mi sembra che nel toccar questi fatti, pochi scrittori e vagamente, s’innalzavano alla considerazione politica, che travagliandosi in guerra i due reami di Sicilia e di Puglia, il primo vinse per lo più il secondo, ch’è tanto maggiore di territorio: e nella state del novantasei, non che difendersi, conquistava tutto il paese dalla punta di Reggio al capo di Roseto167; infestava Terra d’Otranto; e più addentro portava le armi, se non ch’entrovvi di mezzo l’interesse degli altri potentati d’Europa.
Perchè papa Bonifazio, vedendo torcer Federigo dalle sue vie, più si ristrinse con Giacomo, per lanciarlo contro il fratello. E prima a ventuno gennaio del novantasei, col titol sonante di gonfaloniere, ammiraglio e capitan generale della santa sede, condusse il re di Aragona ai suoi soldi; da combattere in Terrasanta, e quest’era il pretesto, o altrove, e quest’era l’effetto, contro qualunque nimici e ribelli della Chiesa, con sessanta galee, armate da lui, pagate dal papa; e n’avesse Giacomo la metà della preda, l’investitura di Corsica e di Sardegna, del rimanente gli acquisti fossero della Chiesa o degli antichi signori cristiani168. Poco appresso il sollecitò Bonifazio a venir, com’avea promesso, a Roma169. E punto al vivo da Federigo, che tentava in questo tempo gli animi dei Napolitani, praticava con usciti lombardi e toscani, e fin co’ romani Colonnesi già disposti a ribellione contro il papa, più gravemente scaricò i colpi spirituali il dì dell’Ascensione; cassò l’atto del coronamento del re di Sicilia; scomunicato lui, co’ popoli e loro amistà; dato termine a pentirsi il dì di san Pietro, nel quale rinnovò le maledizioni170. Intanto spandea le indulgenze a chiunque portasse armi contro Sicilia; aiutava Carlo con le decime ecclesiastiche del regno e di Provenza171. Talchè il re di Napoli, non ostante que’ rovesci, volendo ritentar la guerra, o farsen pretesto a cavar moneta da’ popoli, bandi general parlamento a Foggia, pel dì venti settembre; disse di nuova impresa sopra la Sicilia172, ingiungendo ai feudatari che venissero in armi o pagassero173. Giacomo s’apprestava anch’egli al combattere; ma, ritenuto da pudore, e dalla briga che davangli in casa le guerre di Murcia e Castiglia174, volle tentar prima nuovi ammonimenti a Federigo.