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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2
La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Allor sopravvenne la elezione del nuovo pontefice, tardata oltre due anni per Discordia de’ cardinali, precipitata come per caso, a dì cinque luglio del novantaquattro, col tristo spediente di chiamare un uom dappoco; ma sotto ogni pochezza nelle cose mondane fu Pietro da Morrone, romito abbruzzese, che per vita povera, e straziata d’austerità, avea già riputazione di santo108. La quale esaltazione come fu nota a corte d’Aragona, Giacomo affrettavasi a ultimare il trattato. Inviò in Sicilia a diciotto di luglio Raimondo Vlllaragut, che ritentasse di trarre al suo intento Federigo, e la madre, e gli nomini di maggior seguito. Volle tor dal fianco di Federigo, Corrado Lancia e Blascoq Alagona, intrinsechi del giovane; ai quali il re comandava che di presente venissero in Catalogna. A Corrado surrogò un uom suo, Ramondo Alamanno, sì nell’uficio di gran giustiziere e sì nel comando del castel di San Giuliano109. E intanto la guerra, condotta fin qui assai debolmente come finita nell’animo de’ governanti, posava del tutto in una tregua110. Carlo II, per pratiche, racquistava Cotrone in Calabria111; e a darsi riputazion di munificenza, largiva immunità a questa e quell’altra terra, travagliata per l’addietro da’ nimici112.

Celestino V, tal nome prese Pier da Morrone, volle tra’ suoi Abbruzzi in Aquila consagrarsi: entratovi per umiltà sur un asino; ma l’addestravano due re, Carlo II di Napoli, e Carlo Martello d’Ungheria, fattisi, tra per pietà e ambito, a corteggiarlo assai strettamente. Preso alle quali arti, non ostante che vi ripugnasse forte il sacro collegio, Celestino fissò la sede in Napoli; creò molti cardinali di nazione o parte francese; e fuor da’ consigli e dagli usi della romana corte tanto uscì di via, che religiosi scrittori del tempo, scherzando sulle formole, il proverbiavano: da pienezza di semplicità, non di potestà, decretar Celestino113. Ma portato dalla corte di Napoli, ben per la Sicilia fe’il papa.

Con lo stracco pretesto di Gerusalemme, e di volere far pianta di quella guerra la nostra isola, ratificò a primo d’ottobre milledugentonovantaquattro il trattato di Junquera. Nel quale Carlo promettea d’impetrare per Giacomo e il suo reame, piena assoluzione dalle scomuniche, piena remission d’ogni offesa che i reali di Aragona e que’ popoli e i popoli di Sicilia recato avessero a casa d’Angiò e alla santa sede, e la restituzione del reame d’Aragona, in que’ dritti e termini medesimi in che il tenea re Pietro pria delle sue scomuniche; al qual effetto re Carlo procacciasse la rinunzia del re di Francia, e di Carlo di Valois. Restituiva Giacomo a Carlo tutti gli statichi; restituiva le Calabrie, e le isole adiacenti a Napoli. Stipulava rimetterebbe la Sicilia con Malta e le altre isole adiacenti, in poter della Chiesa nel termine di tre anni dal primo novembre del novantaquattro, a patto che la Chiesa tenessela un anno, nè la cedesse ad alcuno senza saputa di Giacomo. E vergognosa conseguenza ne fu l’altro patto, che resistendo i Siciliani, ei s’adoprerebbe con la forza a domarli114. Assentiti questi accordi, largheggiò Celestino a re Carlo per la difesa del suo reame e ’l racquisto dell’isola, le decime ecclesiastiche delle province francesi per quattro anni, e per un anno quelle d’Inghilterra e d’altre regioni di là dai mari. Poco stante chiamò Giacomo stesso ad Ischia: scissegli apponendo a grave peccato, per cagion di parentela, il matrimonio con la Isabella di Castiglia; e mandavagli che fuggisse quelle nozze per menar una figliuolia di re Carlo, a lui congiunta ancora di sangue115. A tai scandali ne venne il pio Celestino; nè pur fu destro a servirsene, perchè prese termine sì lungo all’affare di Sicilia, e non assicurò punto la sommissione de’ popoli, non compose del tutto le differente tra Francia e Aragona116; onde il trattato a nulla tornava.

Questo inchinò Carlo alle ambizioni di Benedetto Gaetani da Anagni, salito in riputazione da avvocato nella curia papale, fatto indi notaio del papa, e cardinale; uom procacciante, superbo, capacissimo nelle civili faccende il quale poc’anzi a Perugia era venuto ad aspre parole col re, ed or guadagnosselo con dirgli preciso; che Celestino avea voluto e non saputo aiutar casa d’Angiò; ei vorrebbe, e potrebbe, e saprebbe. E a Celestino gravava il papato, per coscienza e per sentirne mormorare ogni dì i cardinali; onde il tranellarono al rifiuto; e perfin si legge che ’l gaetani grossolanamente fingesse al semplice romito chiuso nella sua stanza, voce del Cielo che gl’imperava spogliarsi il gran manto. Ond’ei lasciollo, non ostanti le preghiere, veraci del popolo di Napoli, infinte della corte. Per la possanza di lei, indi a pochi dì, la vigilia del Natale del novantaquattro, in Napoli fu rifatto pontefice il Gaetani; quel famoso Bonifacio VIII, che salì da volpe, da lione regnò, e da cane morì, secondo la sentenza profetica, foggiata da poi e data a Celestino, come se a lui medesimo la dicesse nella prigione, ove per comando di Bonifacio fu chiuso, e finì in poco tempo, non senza sospetti di morte violenta. Ed or congiunto, scrive Speciale, il potere all’astuzia, si die’ tutto Bonifacio a scior quell’inviluppato nodo della siciliana lite117. Oltremonti gli ambasciadori di Giacomo e di Francia, con la riputazion del novello papa, ristringeansi un’altra volta a spianar gli ostacoli rimasi tra loro118; Bonifazio serbò il più grave a sè stesso, quasi per provarvi il suo ingegno. Avuti o richiesti, poco appresso la esaltazion sua, legati di Federigo, che furono Manfredi Lancia e Ruggiero Geremia, raccolseli umanamente il papa, li rimandò con grandi promesse, e l’importanza della cosa maneggiar volle da sè con Federigo; cui, non potendolo trar di Sicilia con forza, avean mostrato per l’addietro la dignità di senatore di Roma o altra debol’esca; ma Bonifazio pensò abbagliarlo profferendo una bella sposa e un impero. Mandogli un suo cappellano con breve dato il venzette febbraio del novantacinque, richiedendolo che venisse a corte di Roma con Giovanni di Procida, Ruggier Loria, e i primi d’ogni siciliana città, muniti di pien mandato de’ popoli. Portava i salvocondotti il medesimo nunzio. Federigo, proponendosi obbedire, immantinenti alle città nostre ne scrisse.

Il che è prova non dubbia della importanza che ritenea o ripigliava in tal frangente l’elemento municipale e popolare, ristorato dalla rivoluzione; il valor del quale d’altronde risplende assai nobilmente nell’epistola, che il comune di Palermo drizzò a Federigo, e rincalzò con la viva voce di tre inviati, Niccolò di Maida cavaliere, Pier di Filippo, e Filippo di Carastone giudici. Ricordavasi all’infante per queste lettere la romana corte qual fosse: il sommo Iddio aver giudiccato tra lei e la Sicilia, con quella serie di strepitose vittorie de’ pochi contro gli assai; tranquillasse gli agitati animi de’ cittadini; non desse in questo laccio dell’andata al papa, onde null’altro che danno incor gliene potrebbe119. Ma Federigo, com’è timida l’ambizione di chi siede sull’alto, e ama piuttosto lasciarsi raggirar dai potenti che fondare in su i popoli combattuta ma grande fortuna, ostinossi all’andare. Montato sulla flotta con Procida che il tirava alla via più ignobile, e con Loria, e molti altri rinomati nella guerra o nei civili consigli, approdava negli stati della Chiesa sotto il monte Circeo, poc’oltre il dì assegnato dal papa; e non trovando Bonifazio, a lui andava a Velletri.

Atteggiossi allor Bonifazio a paternal carità. Inginocchiatosi dinanzi a lui Federigo, il rialza, prendegli il capo con ambo le mani, il bacia affettuosamente; e veggendolo balioso e svelto portar l’armatura, prese a lusingarlo: «Gentil garzone, ben par che da fanciullo reggevi quel duro peso.» Poi volto a Loria, senz’ira il domandò, s’ei fosse quel nimico della Chiesa, noto per tante sanguinose battaglie; e Loria a lui: «Padre, i papi il vollero!» Da queste accoglienze si passava ai consigli. In pregio d’abbandonar la Sicilia, promesse il papa a Federigo la giovane Caterina di Courtenay, figliuola di Filippo, in titolo imperador d’Oriente; e con lei i dritti a quella dominazione, e, per l’impresa del racquisto, aiuti di gente, e in quattro anni centotrentamila once d’oro. E in ver sembra che Bonifazio s’appose; e che il giovane allettato da grandi parole, e da beltà da lui non vista con gli occhi, si piegava a lasciar in balìa de’ nemici quel popolo, con cui era già entrato in legami più stretti che di vicario del principe. Ma da cauto, volle termin breve all’adempimento de’ patti, che fu il settembre vegnente120. Pien d’allegrezza tornò in Sicilia; abboccatosi pria ad Ischia con Gilberto Cruyllas e Guglielmo Durford, inviati di Giacomo121. A corte di Roma lasciò, o rimandò a praticare per esso, Manfredi Lancia e Giovanni di Procida122.

In questo modo parendo a Bonifazio avere in pugno Federigo e la Sicilia, ultimava gli accordi. Tra i principi che v’ebber parte le due forze venate a patti eran l’Aragona e la Francia. L’una di queste corti possedea la Sicilia; l’altra il dritto su l’Aragona, com’or si confessò aperto, messo da canto il nome del Valois123; e per questo la Francia avea sparso tanto danaro e tanto sangue, sovvenuto a’ bisogni di Giacomo re di Maiorca124, ed or era tenuta a negoziare per lui. Acquistava il papa una maggiore autorità; Carlo II, la Sicilia; Giacomo d’Aragona, la pace e la vergogna; Giacomo di Maiorca, l’impunità alla ribellione contro il fratello; Carlo di Valois, il baratto d’un vano titolo con un picciol patrimonio125; e niente la Francia, fuorchè l’onore di ristorar casa d’Angiò a tutta la dominazione ch’avea avuto una volta. Convenuti diansi al papa in Anagni gli ambasciatori d’Aragona, Napoli e Francia, a dì cinque giugno del novantacinque rinnovavano i patti ratificati da Celestino; mutando sì i termini della dedizione di Sicilia e Malta alla Chiesa, che fosse pronta; e che a domar i popoli, essendone uopo, facesse Giacomo ogni piacimento del papa. In cambio di ciò, s’era già fatta in mano del pontefice, la rinuncia del Valois e del re di Francia a ogni dritto sopra Aragona. Guadagnonne ancor Giacomo, che non fosse tenuto a rendere i trentamila marchi d’argento, dati da Carlo ad Alfonso con le altre sicurtà al tempo della sua liberazione; che Carlo, con la sua figliuola Bianca, dessegli in dote centomila marchi. Guadagnonne per capitol segreto la investitura di Corsica e di Sardegna, liberalmente donategli da Bonifazio che non aveaci alcun dritto. Al perdono largheggiato pei fatti della rivoluzione o della guerra siciliana, s’aggiunse quel degli usciti da’ tempi di Carlo I, e che si godessero quantunque or possedeano in Sicilia. Per un altro capitol segreto, Giacomo s’obbligò a fornire forze navali agli stipendi di Francia contro Inghilterra. La redintegrazione dello stato preso al re di Maiorca, instando gli ambasciatori di Francia e non avendo gli Aragonesi autorità a stipulare, differissi alquanto; ma poi si ultimò, come anco una lite di confini tra Francia e Catalogna126.

Ratificava Bonifazio a dì ventuno giugno; dispensava alla consanguineità per le nozze tra Giacomo e Bianca; riconcedeva a re Carlo le decime ecclesiastiche per lo racquisto dell’isola; e il dì di san Giovanni, tra i riti del divin sagrifizio, promulgava in un con la pace, scomunica a chi contrastassela. Per novelli sospetti ribadì con più forti pene questi anatemi il dì ventisette giugno, poichè furon ripartiti alla volta di Sicilia Lancia e Procida. Accomandò loro un frate de’ predicatori, inviato a raffermar negl’intenti del papa la regina Costanza; indirizzò a Federigo il novello arcivescovo di Messina, con autorità di ribenedir l’isola e ultimare ogni cosa. Ei medesimo scrive intanto a Caterina di Courtenay, aver promesso con re Carlo la sua mano al valente Federigo; disponga, dicea il papa, la mente e l’animo a queste nozze; ascolti i consigli dell’abate di san Germano e d’un altro prelato, apposta a lei spacciati dalla paterna cura del pontefice; e tosto si metta in viaggio per venirne in Italia alle braccia dello sposo. Sollecitò anco Filippo il Bello a farsen mezzano. E di tutte queste pratiche ragguagliava minutamente Federigo, perchè sempre più inchinasse l’animo alla obbedienza e alla pace127.

Volle infine indettare nel nuovo ordin di cose l’ammiraglio; il quale, fatto ricchissimo e tra potente per concessioni de’ re aragonesi in Sicilia e in Valenza, e propri acquisti di prede, riscatti, baratterie, commerci, e per la gloria nelle armi, e per lo terrore di quell’animo impetuoso, era forse il primo tra’ grandi che salvar poteano o inabbissar la Sicilia in questo frangente128. Con costui dunque trattando, prima in persona, poi per Bonifazio di Calamandrano, il papa concedettegli in feudo della Chiesa l’isola delle Gerbe, ch’egli acquistò con le armi di Sicilia, e or volea farne un nuovo principato cristiano, o nido di corsali in levante, da potersi render formidabile per la guerriera virtù dell’ammiraglio e de’ soldati dell’armata di Sicilia, che a lui sarebbersi rannodati129. Da un lato dunque tiravan Ruggiero i poderi in Ispagna, la sovranità delle Gerbe, la potentissima lega che minaccerebbe la Sicilia resistente; dall’altro le sue facultà in Sicilia, l’onor del suo nome, il tedio della pace, la cupidigia di preda, l’amore a un popolo ch’era prode e per dodici anni avean pugnato e vinto insieme, sopra ogni altro i fomiti dell’ambizióne; che, s’ei non chiedeva il titolo, aspirava alla potenza di re di Sicilia, e sapea che l’avrebbe rompendosi nuovamente la guerra, perch’ei sarebbe principal sostegno di Federigo. Perciò l’ammiraglio ascoltava le profferte di minore stato nella pace; ma era pronto a turbarla, e accomunar le sue sorti con la Sicilia e Federigo.

Le sorti della Sicilia che pendeano sul precipizio, per tal abbandono del re, del luogotenente, dell’ammiraglio, di tutti i grandi, poteano tornar su per novello empito del popolo; ma ristorolle con men sangue l’interesse di Filippo il Bello, o il caso, che spinse la giovane di Courtenay a rifiutar le nozze di Federigo, rispondendo al papa, che una principessa senza terra non dovesse maritarsi a un principe senza terra. Ostinata resse Caterina alle repliche del papa130: e Federigo, fatto accorto dell’inganno, tutto si volse a quelle ben più salde e vicine speranze che gli offriva la Sicilia; dove, trapelando le nuove de’ trattati, s’era con più furore ridesto il turbamento d’animi del novantadue, per esser più certo e imminente il danno, e scorgersi la perfidia che il dissimulò. Indi l’infante diessi a prendere il regno; ma volea parere sforzato, ritenendol anco il sospetto della fazione degli stranieri, mascherati di lealtà a Giacomo, e tradenti per turpe guadagno il paese che li nudriva. Costoro, come aperti apparvero gl’intendimenti di Federigo, la focosa volontà del Sicilian popolo, diersi dapprima a gridare che la rinunzia del re fosse favola di Federigo volto a usurpar la cotona. Per darsi riputazione, fecero lor capo il solo che operava forse da coscienza e lealtà, Ramondo Alamanno gran giustiziere; e si notavano inoltre i nomi del Procida, di Matteo di Termini, di Manfredi Chiaramonte e di più altri. Vedendo tornar vane le arti, ai chiusero in lor castella, minacciando già la guerra civile.

La regina Costanza l’ovviò col ripiego, che novelli oratori si deputassero in Catalogna a intender la mente di Giacomo; dondechè adunato un parlamento, questo elesse Cataldo Rosso, Santoro Bisalà, e Ugone Talach131; e nel medesimo tempo Federigo, vedendo ormai vane le coperte vie, s’ingaggiò in parlamentò co’ patriotti, che svelerebbe ad essi quantunque risapesse de’ trattati di Giacomo coi nemici. Lasciò dunque coloro che si dicean leali, chiusi dalle lor mura e dall’universale sdegno del popolo; ed egli, con nome ancor di vicario e opere maggiori, andò in giro per tutta l’isola, ad accrescersi parte e riputazione, con opportune riforme, amministrazion vigilante, e volto benigno132. Giunser gli oratori siciliani in Catalogna, quando ratificati già dalle corti i capitoli della pace, re Carlo e il legato pontificio con la sposa veniano a Perpignano e Peralada, e Giacomo si facea loro all’incontro per Girona e Villa Bertram; i quai luoghi, straziati d’ogni più atroce eccesso nella guerra, or s’allegravano per lusso de’ grandi venuti al seguito de’ due re, e per frequenza di plebe che festevole ne venia chiamando Bianca «Regina della santa pace» e anelando lo scioglimento degli anatemi di Roma133. Il ventinove ottobre a Villa Bertram, sendo poche miglia discosto il corteo della sposa, raggiunser Giacomo i nostri legati: pallidi e severi gli si apprestarono a sconfonderlo tra tanta allegrezza, dinanzi tutti i nobili del reame. Esposta la domanda del sicilian parlamento, il re senza vergogna confessava il trattato. A che Cataldo Rosso: «O voi, sclamò, o voi passaggieri, sostate; oh dite se v’ha duolo ch’agguagli il duol mio134!» e dopo tal biblica lamentazione, in un coi compagni e i famigliar! della siciliana ambasceria, stracciaronsi i panni indosso, ruppero a dimostrazioni d’angoscia disperata, e a Giacomo gridavano: «Non più udita crudeltà, che un re desse leali sudditi a straziare a’ nimici!» Ma poich’ebbero così aggravato il biasimo del principe, ricomposti a dignità ed alterezza, protestarongli in piena corte: come la Sicilia abbandonata, disdicea tutti i dritti di lui alla corona; scioglieasi da ogni giuramento, fede ed omaggio; si tenea libera a prendere qual governo più bramasse. Fu forza al re quella protestazione accettare; e ne voller diploma gli ambasciadori, e l’ebbero. Lo stesso dì, vestiti a bruno, volgean le spalle all’infida corte straniera. Ma pria Giacomo ebbe fronte a dir loro, ch’accomandava ai Siciliani la madre e la sorella. «Di Federigo nulla parlo, aggiugnea, perch’è cavaliere, e ciò che fare ei sel sa, e voi il sapete anco.» Almen così Federigo propalò poi in Sicilia. Incontraron gli ambasciadori, sciogliendo per l’isola, fierissima fortuna di mare, che dilungò il ritorno, e ’l tolse a Santoro Bisalà, sbalzato sulle costiere di Provenza, e tenutovi prigione finchè nol ricattarono i suoi Messinesi concittadini135. E in Catalogna il trenta ottobre Giacomo fu ribenedetto dal legato pontificio, egli e ’l reame; bandì nelle adunate corti d’Aragona il fine della gran lite di Sicilia; lo stesso dì Carlo II a lui e alla madre e a Federigo e a Piero con tutta lor baronia e amistà rimettea le offese fatte, le robe occupate a sè ed a suoi ne travagli della guerra. La dimane, portatosi Giacomo a Figueras, rese a Carlo i tre figliuoli e gli altri statichi; tolse la sposa; e celebrò le nozze il primo novembre136.

Ansiosi in questo tempo pendeano tutti gli animi in Sicilia. Ma alla prima certezza di quelle nuove, ed anzi che tornassero gli ambasciadori, Federigo, sostando d’un tratto dal viaggio per val di Mazara, adunò in Palermo conti, baroni, cavalieri, e i sindichi delle città di qua dal Salso: ai quali, come per tener le promesse di Milazzo, palesava la non dubbia cessione dell’isola; la compiuta pace; la risposta a’ legati. Allora il fatto, soprattenuto per salvar le apparenze, pieno si consumò. Il parlamento di Palermo, a dì undici dicembre, ritirò la rivoluzione a’ suoi principi con esaltare a una voce Federigo; ma, da riverenza all’universal voto della nazione, il chiamò solamente signor dell’isola, volendo più solenni comizi per dargli nome di re; onde disse generale adunata in Catania il dì quindici gennaio, e che non solamente i sindichi vi si trovassero, ma giusto numero dei primi d’ogni terra e città, per facultà, sapienza e riputazione, con pien mandato a partecipare in quel principalissim’atto di sovranità. Federigo protestando la santità della causa, e affidarsi in Dio e nei Siciliani, accettò il dominio; si votò con persona e facultà a difenderli. Cominciava allora a intitolarsi signor di Sicilia. Il dì appresso promulgava unitamente le novelle di fuori, le recenti deliberazioni, e richiedea le municipalità di sceglier tosto i deputati al parlamento di Catania137.

In questo generale assentimento fu agevole ridurre i baroni recatisi in parte. A Ramondo Alamanno, afforzatosi nel castel di Caltanissetta, andavano Ruggier Loria e Vinciguerra Palizzi, con molti altri grandi del regno; ed ei cominciando a mostrar l’animo con liete accoglienze, sincerato della rinunzia, piegossi, e tutti gli altri con esso138. Poco stante venner ordini di Giacomo, che richiamava di Sicilia i Catalani, e gli Aragonesi, e comandava l’abbandono delle fortezze; compiuto a nome del re dall’Alamanno e da Berengario Villaragut, con questo rito, che gli uficiali, fattisi alla porta, gridavan alto tre fiate: se fossevi alcuno che prendesse la fortezza per la santa romana Chiesa? e niun rispondendo, si ritraeano col presidio, lasciavano schiuse le porte, appese le chiavi; e le municipalità incontanente se n’insignorivano a nome di Federigo139. Tornarono in patria quelli e altri cavalieri spagnuoli. Molti altri restarono in Sicilia a seguir la fortuna di Federigo; tra i quali eran primi Ugone degli Empuri e Blasco Alagona, che dopo la rinunzia di Giacomo, era fuggito dalla sua corte: e altri nobili avventurieri aspettavansi di Spagna, a dispetto anco di Giacomo, che secondo il dritto pubblico di quel reame non potea lor vietare che militassero per cui lor piacesse. Così Blasco, confortando i suoi compagni, ricordava che lor nazione, libera sopra ogni altra ch’avesse re, non ubbidiva a voler di principe, ma a giustizia e ragione. Filavan indi il creduto testamento di Pietro, l’espresso d’Alfonso; che Giacomo potea risegnare alla Chiesa il proprio diritto al reame di Sicilia, non già l’altrui; che ben se insignoriva Federigo140. Con questi argomenti mal colorivano di legittimità quel reggimento per sè legittimissimo. Nè badavano che per dritto di successione potea il trono appartenere alla sola Costanza; e che nè Piero, nè Giacomo altrimenti v’ascesero, che, come or Federigo, per la elezione del popolo.

E già la Sicilia a questo solenne atto metteva il suggello, ad onta della romana corte, di Napoli, Francia, e Aragona, contro lei congiurati. Il dì quindici gennaio milledugentonovantasei, nella cattedral chiesa di Catania, s’assembrarono frequentissimi i rappresentanti della nazione, con quanti nobili catalani e aragonesi sperassero ventura qui, più che in lor patria. Ruggier Loria primo parlò; poi Vinciguerra Palizzi, prestante per forza d’ingegno e di parola; e seguendoli ogni altro, d’un accordo gridavano re Federigo; decretavano si fornisse la coronazione in Palermo141. Fu secondo di questo nome in Sicilia; ma s’intitolò terzo, per esser terzo de’ figliuoli di Pietro, o dei reali d’Aragona qui dominanti, o per errore diplomatico piuttosto, credendosi secondo di Sicilia Federigo lo Svevo, che fu secondo degl’imperadori, primo tra nostri re142.

Ma come Bonifazio riseppe que’ primi passi del parlamento di Palermo, non essendo in punto a usar la forza, non lasciava intentato alcun mezzo di frode. A Federigo scrisse il due gennaio, ricordando le pratiche dell’anno innanzi, la sollecitudine a trovargli terreno e sposa; che negava Caterina, ma non resisterebbe a nuovi preghi; e sì richiedealo, e lo scongiurava con ogni più efficace parola, che desistesse dalla usurpazione del regno. Al medesimo effetto ammonì la regina Costanza. Lo stesso dì «ai Palermitani e agli altri Siciliani» drizzò un breve pien di mansuetudine: come la romana Chiesa, or che Giacomo le avea risegnato questa bella Sicilia, volea consolar le sue afflizioni, fare il ben pubblico, governarla dassè per un cardinale; vedessero i Siciliani tra’ fratelli del sacro collegio qual più lor fosse a talento, quello il sommo pontefice manderebbe. E con tali missioni inviò il vescovo d’Urgel, e quel Bonifazio Calamandrano, che da quattro anni correa per tutta Europa in questi maneggi, come li chiamavan, di pace. Facean assegnamento altresì sulla fazion d’Alamanno e di Procida, non sapendola per anco spenta: e con tali speranze il Calamandrano a Messina approdò, poco innanzi o poco appresso il parlamento di Catania143. Il pratico negoziatore parlava ai cittadini di maravigliose prosperità lor preparate dal papa, ingeriasi, brigava; alfin vedendo grossa la piena per Federigo, tentò l’ultimo argomento, mostrando pergamene bianche col suggello della corte di Roma; dicea, consultassero i Siciliani tra loro, e assoluzioni, perdonanze, immunità, franchige, dritti, usanze, patti, quantunque vorranno, ei scrìverà sulle pergamene, assentiralli il sommo pontefice. Ma i Messinesi, non che dar dentro la grossolana rete, sen beffavano; rincalzati da Loria, da Palizzi, e dagli altri primi. E Pietro Ansalone, prudente e ornato dicitore, al Calamandrano ne andò senza molte parole. «Sappi, gli disse, che i Siciliani non ubbidiranno a dominazione straniera; sappi che vogliono Federigo per loro re: e vedi qui! (aggiunse sguainandola spada) i Siciliani da questa aspettan la pace, non dalle tue carte bugiarde! Sgombra su dalla Sicilia, se morir non ami!» Il Calamandrano, scrive Speciale, incontrar non volle il martirio per servire a mondane ambizione. Tornato a Bonifazio, il fe’ certo non restare altra speranza che nelle armi144.

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