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Venezia. Ciminiere Ammainate
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“... semplicemente si era aperta una diversità di vedute tra chi riteneva che si potesse ancora giocare qualche carta per impedire la chiusura dell’Alucentro e chi invece era del parere che la nostra lotta per il lavoro dovesse ricominciare dall’acquisizione del dato che la fabbrica era ormai inevitabilmente destinata alla chiusura”. (37. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994, p. 82).

Questo confronto, con tratti anche molto aspri, si esplicitò in continue assemblee dei lavoratori dell’Alucentro, dove sempre prevalse la posizione del sindacato, nonostante la costante contrapposizione della maggioranza del Consiglio di fabbrica. Ma qual era la posizione sindacale? Nella relazione introduttiva al Comitato Direttivo della Fiom-Cgil veneziana del 26 ottobre 1992 si legge:

"Domani mattina saremo al Ministero del Lavoro insieme alla multinazionale svizzera Alusuisse. Dieci anni fa avremmo messo in campo tutte le iniziative per impedire la chiusura, poi alla fine – se isolati e senza essere riusciti a modificare le posizioni dell’azienda, cioè sconfitti – ci saremmo “accontentati” degli ammortizzatori sociali. Oggi, almeno per me, ciò non è più possibile. Cioè se il Governo ci dirà: si chiude e per i 180 lavoratori sarà garantito il prepensionamento, la Cig, l’incentivo per chi sceglierà di andarsene, io sono per dire che tutto ciò da solo non ci interessa e che abbiamo bisogno di ottenere qualcosa di più e di diverso e cioè, da parte di Alusuisse o di altri, vogliamo in quell’area nuovi investimenti e il Governo insieme con altri – la Regione, il Comune – deve fare la propria parte per questo obiettivo. Gli ammortizzatori sociali – accettati senza null’altro – significano la morte di Marghera". (38. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva al Comitato Direttivo della Fiom-Cgil, 26 ottobre 1992, dattiloscritto).

Nel libro di Cerasi si legge anche una Postfazione di Giancarlo Fullin che può aiutarci nella comprensione dello scontro tra le due diverse linee politiche. Una lunga citazione:

Viene infine novembre [1992, n.d.a.] e la notte del 17 [in realtà è il 5 e non il 17, n.d.a.] a Roma, malgrado tutto e malgrado il voto contrario di otto dei nove lavoratori del comitato di lotta presenti, il sindacato sottoscrive l’accettazione della chiusura dell’Alucentro [in realtà l’accordo è stato “siglato” e sarà sottoscritto solo dopo il parere favorevole dei lavoratori, n.d.a.] e l’inizio della cassa integrazione invece della mobilità [cioè licenziamenti, n.d.a.]. La mattina seguente i dirigenti sindacali si presentano in azienda di buon’ora (sono rientrati in aereo) a presentare l’accordo ai quadri del sindacato in fabbrica. Solo a fine mattina arrivano invece, in treno, i membri del comitato di lotta a spiegare le ragioni del loro rifiuto. Poche ore di differenza ma sufficienti perché il clima sia divenuto teso e sospettoso, e il giorno successivo [ il grassetto è mio] l’assemblea ratifica, sia pure a maggioranza, l’accordo [solo dieci i contrari, n.d.a.]. (39. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, cit., p. 130).

Tutto questo non è sufficiente e dopo l’esito della votazione dell’assemblea «si apre (...) la fase più difficile dell’intera vicenda. Il Consiglio di fabbrica si dimette per intero e contemporaneamente chiede le dimissioni dei segretari provinciali dei metalmeccanici...» (40. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994, p. 131). A questo punto i segretari provinciali rinviano l’incontro per la sottoscrizione dell’accordo appena approvato dai lavoratori e così si legge su Il Gazzettino di Venezia del 12 novembre 1992:

I segretari contestati contrattaccano. In un comunicato stringatissimo, ma furioso, i due sindacalisti stigmatizzano l’atteggiamento dei rappresentanti dei lavoratori e rinviano l’incontro già fissato al Ministero del Lavoro, il 12 novembre. Al tempo stesso verrà organizzata un’assemblea dei lavoratori per porre fine a ogni interpretazione di ciò che è stato deciso nell’ultima assemblea.

L’esito di questa seconda assemblea lo lasciamo descrivere a Fullin:

« A pochi giorni di distanza, di nuovo in assemblea, la maggioranza che aveva ratificato l’accordo si riduce a pochi voti e tra questi cominciano a prevalere i distinguo» (41. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994, p. 131).

Il cronista de Il Gazzettino di Venezia Paolo Navarro – che a differenza di Fullin è presente all’assemblea – sul quotidiano uscito il giorno dopo l’assemblea, cioè il 17 di novembre, scrive:

«È stata dura, durissima, ma alla fine i sindacati hanno vinto... Oggi, alle 14.30, a Roma, nella sede del Ministero del Lavoro... firmeranno la “bozza di accordo” elaborata quindici giorni fa...» (42. Navarro P., Alucentro vincono i sindacati ma la maggioranza è risicata, « Il Gazzettino di Venezia», 17 novembre 1992).

È l’accordo che aprirà la strada alla nascita di una nuova attività produttiva. Ma un’altra divisione vedrà contrapposti nei mesi successivi il Cdf e i sindacati. Chi dovrà gestire la nascita della nuova attività? In campo ci saranno due proposte, una della Cesam, un’impresa creata dalla Compagnia Lavoratori Portuali, e l’altra di una società formata da una cordata di imprenditori locali. Il Cdf è più incline alla proposta della Cesam, i sindacati, invece, all’altra, che poi darà origine al Centro Intermodale Adriatico. Lasciamo ancora parlare Fullin:

“Il 7 maggio 1993 si arriva finalmente all’accordo di cessione, firmato a Roma e preceduto, due giorni prima, dalla definizione dell’intera materia a livello locale tra tutte le parti interessate... non prima del 15 novembre 1993, data fissata per il rogito, al Centro Intermodale Adriatico, che, a differenza della Cesam, si impegna a riassumere, nel tempo ma in tempi certi, tutte le maestranze. È una vittoria, finalmente, vera. Inoltre, essa conferma quello che i lavoratori dell’Alucentro hanno pensato fin dall’inizio...” (43. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, cit., pp. 132-133).

Ma su quali basi si esprime un simile giudizio, che stravolge fatti facilmente ricostruibili su base documentale? Si è chiesto Fullin se i lavoratori sarebbero stati parimenti in grado di esprimere questo giudizio senza l’approvazione dell’accordo grazie a quella votazione che lui stesso ha definito a “maggioranza risicata”? E si è chiesto in quali condizioni si sarebbero ritrovati i lavoratori dell’Alucentro se la loro lotta in difesa dell’occupazione fosse stata impostata, come voleva il Consiglio di fabbrica, sulla difesa dell’attività esistente e cioè mantenendo le produzioni di anodi? E chi sarebbe stato considerato responsabile di una sconfitta sicuramente pesante? Negli anni successivi tutti i lavoratori ex Alucentro rimasti senza lavoro sono stati riassorbiti dal Centro Intermodale Adriatico, dopo un periodo di formazione professionale. Gli imprenditori rimasti nella nuova società crearono accanto al Centro Intermodale Adriatico la società immobiliare Interporto di Venezia SpA, che ha proseguito in una costante politica di sviluppo nel settore della logistica, portando le aree utilizzate a tale scopo dai 227.470 mq del 1993 ai 296.500 del 2004. Rimane da chiedersi solo chi ha meglio interpretato ciò «che i lavoratori dell’Alucentro hanno pensato sin dall’inizio» non tanto per distribuire voti, quanto per capire come accanto a inevitabili processi “oggettivi” complicati e difficili da risolvere si aggiungono altrettanti problemi che hanno una natura “soggettiva” e se la gestione di un tale processo realizzata con una significativa partecipazione può sempre aiutare la ricerca della soluzione possibile.

Difesa dell’occupazione e condizioni di lavoro: il caso Fincantieri

A Porto Marghera gli effetti di questa intensa, diffusa e prolungata lotta per (non perdere) il lavoro hanno finito per concentrare la discussione e le iniziative sindacali quasi esclusivamente sul terreno delle politiche industriali e occupazionali. Ciò è vero per la grande fabbrica sindacalizzata e con una forte presenza all’interno dei partiti politici, cioè per realtà produttive nettamente minoritarie rispetto a quelle dove risulta impiegata la quota principale del lavoro dipendente. Infatti la realtà delle piccole aziende ha visto processi più intensi di sfruttamento e di peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Pur tuttavia non va dimenticato che la “minoranza” delle grandi fabbriche, avanzando, ha finito per “trascinarsi” dietro nel l’esercizio dei diritti, come sul salario, anche la maggioranza del lavoro dipendente delle piccole aziende. Pensiamo ad alcune significative conquiste che sono state estese a tutti i lavoratori dipendenti, come l’inquadramento unico dei metalmeccanici (1973) o il diritto all’informazione sui piani produttivi e sugli investimenti delle aziende (1976).

Pensiamo, poi, ad alcuni grandi obiettivi che hanno rappresentato per il sindacato, nelle fasi di crescita, un terreno di ulteriori e significative acquisizioni attraverso la contrattazione:

1) le qualifiche professionali come strumento per intervenire e controllare l’organizzazione del lavoro e, quindi, lo sviluppo professionale di ogni singolo lavoratore; 2) il controllo dei ritmi di lavoro; 3) l’intervento sull’ambiente di lavoro attraverso l’eliminazione di tutti i fattori portatori di nocività per i lavoratori come pure per il territorio circostante; 4) il controllo degli orari di fatto; 5) il salario aziendale.

Molte delle vertenze aziendali condotte su questi temi avevano spesso avviato momenti di sperimentazione, stravolti e superati con il sopraggiungere delle crisi aziendali. La mancanza di lavoro finisce inevitabilmente per mutare i rapporti di forza nei luoghi di lavoro a danno dei lavoratori. L’esempio dello stabilimento di Porto Marghera, del gruppo Fincantieri, è illuminante (44. Aiello A., La Fincantieri e la crisi della cantieristica italiana, in «Economia e società regionale», 2, 2004). A metà degli anni Ottanta il cantiere veneziano passa dal gruppo Efim all’Iri, proprio mentre vive una delle crisi più difficili della sua storia. La mancanza di lavoro investe tutti i cantieri di costruzione in Italia. Il sindacato, per rispondere a questa difficile situazione, chiede e ottiene l’apertura di un negoziato a livello nazionale, con Governo e Fincantieri, per acquisire provvedimenti idonei al superamento delle difficoltà. L’iniziativa sindacale finirà per concentrarsi, però, quasi esclusivamente sull’emergenza occupazionale. Del resto le preoccupazioni nei cantieri, da Palermo a Monfalcone, vedono tutti coinvolti: operai, impiegati, tecnici, dirigenti. Una fase, questa, che sarà superata grazie alle “leggi di sostegno” al settore navalmeccanico emanate dal Governo. Ma si imporranno, anche, massicce ristrutturazioni che porte ranno a una forte riduzione dell’occupazione. Nei cantieri navali della Fincantieri era estesa e radicata la pratica della contrattazione articolata, ma la crisi produttiva imporrà, nei fatti, il suo accantonamento per un periodo non breve. È, nella sua chiarezza, un processo dirompente che evidenzia una stretta correlazione tra lo sviluppo economico e industriale e la capacità di acquisizione di nuove conquiste sindacali. Durante le crisi produttive si finisce per rinunciare – volenti o nolenti – anche a conquiste consolidate. La priorità per il lavoratore è riuscire a mantenere il proprio posto di lavoro e il reddito. Non è, però, un processo indolore. Dove, come nella grande azienda, i lavoratori sono solidamente organizzati, il prevalere della priorità “occupazione” sulle condizioni di lavoro crea una diffusa insoddisfazione, spesso rabbia, per l’enorme difficoltà a fornire risposte alle negative conseguenze della crisi nell’attività quotidiana dei lavoratori. Per questo, non solo alla Fincantieri, le ristrutturazioni hanno letteralmente “frantumato” lavoratori e Consigli di fabbrica, indebolito i sindacati e fortemente ridimensionato la capacità di elaborare risposte sul peggioramento delle condizioni di lavoro, con l’effetto di una vera e propria crisi della contrattazione. Sta forse in questo processo uno dei fattori determinanti della crisi della partecipazione all’attività sindacale. È un dato “oggettivo”, tuttavia l’elemento “soggettivo” ha anch’esso una sua importanza: là dove i Consigli di fabbrica hanno visto la presenza di delegati esperti, autorevoli, determinati si è riusciti a portare avanti con minori difficoltà la contrattazione collettiva sulle condizioni di lavoro e sul salario.

3. Le caratteristiche e i tempi del cambiamento

Il mutamento produttivo ed economico

L’andamento della produzione e dell’occupazione è la diretta conseguenza di tre risposte date alla crisi del polo industriale. La prima, a lungo prevalente, è la scelta di razionalizzare le attività produttive con l’obiettivo di migliorare l’efficienza del processo lavorativo e la produttività finale, cioè la capacità competitiva aziendale. Razionalizzare significa intervenire sull’organizzazione aziendale, sui ritmi di lavoro e sulla riduzione degli addetti. Il fine è produrre la stessa quantità, se non di più, sovraccaricando i lavoratori rimasti. Per Porto Marghera la semplice lettura dei dati occupazionali, collegata alle quantità di prodotti movimentati, come precedentemente esposto, dice quanto intenso ed esteso sia stato il processo di razionalizzazione. La seconda risposta è la riconversione industriale, cioè la sostituzione di vecchie attività con nuove, rimanendo nella stessa area industriale e rioccupando – tutti o in parte – gli stessi lavoratori impegnati nella precedente attività e all’uopo riconvertiti professionalmente, modificando o introducendo ex novo gli impianti produttivi. È il caso dell’Alutekna, nata nel 1987 dalla chiusura dell’Alluminia Italia (1984). È il caso del Centro Intermodale Adriatico, nato nel 1993 a seguito della chiusura dell’Alucentro nello stesso anno. I casi di riconversione industriale sono stati, tutto sommato, limitati. La terza risposta arriva dall’insediamento di nuove attività, che pur rioccupando complessivamente solo qualche centinaio di addetti, danno il senso della nuova direzione di marcia del polo industriale: da area industriale verso attività di terziario avanzato. Lo dimostrano – in una certa fase – la creazione di attività nei servizi di comunicazione della Montedison (Datamont) o i centri di ricerca e sviluppo come quello della Evc-European Vinili Corporation, o il centro di ricerca applicata nel settore dei metalli non ferrosi (il Cerive della Samim). Un punto di interesse particolare riguarda l’avvio di attività nel settore dello smaltimento dei rifiuti industriali tossici e nocivi sia in riferimento agli stabilimenti Montedison, con la costituzione della Monteco, sia per un mercato più vasto, con la costituzione della Pei (Piattaforma Ecologica Industriale). Ma, nello stesso tempo, l’ abbandono di alcune storiche produzioni è stato ampio, intenso e veloce. Nel polo industriale sono cessate le produzioni di allumina, di zinco metallo, di azotati e fertilizzanti, sono stati chiusi interi impianti del Petrolchimico, hanno cessato di esistere le produzioni oftalmiche del gruppo Galileo, l’azienda siderurgica Preo, l’Agip petroli, la Vetrocoke, i reparti Las e meccanica e un treno di laminazione dell’ex Italsider, la Vidal, l’Alucentro, l’Alutekna, la Sartori, le produzioni di idrocarburi della San Marco, una moltitudine di imprese di servizi (Cite, Miorin, Fochi, Delfino, Omac, Cmcv, Soimi...) senza contare i pesanti ridimensionamenti delle attività ancora in corso (valga per tutti il caso dell’ex Metallotecnica). Nella Porto Marghera di oggi si vedono aree recuperate e dedicate a nuove attività, ma anche vaste aree dismesse e (apparentemente) abbandonate, poiché necessitano di bonifiche e solo dopo queste ultime i numerosi appetiti presenti potranno trovare risposte.

Le trasformazioni qualitative dell’assetto industriale

È cambiata e sta cambiando la struttura di Porto Marghera.

Il primo cambiamento strutturale riguarda l’assetto dimensionale delle aziende: una trasformazione caratterizzata dal passaggio da grandi complessi industriali a piccole e medie aziende. Abbiamo già visto, numeri alla mano, il forte ridimensionamento delle grandi aziende. Questo primo aspetto può indicare in qualche caso un decentramento produttivo finalizzato ad allentare il controllo delle organizzazioni sindacali sulle condizioni di lavoro.

Il secondo cambiamento strutturale è stato dato dall’uscita di scena delle Partecipazioni Statali con l’abolizione dell’omonimo ministero che gestiva le numerose aziende e gruppi facenti capo alla proprietà pubblica. Con l’uscita di scena dello Stato, queste aziende o sono riuscite a privatizzarsi (settore alluminio, Metallotecnica, Alutekna, ecc.) o hanno chiuso i battenti (Sava di Fusina). Si veda l’intervista a Pio Galli, sul ruolo in Italia delle Partecipazioni Statali. Ancora di proprietà dello Stato è la Fincantieri, il cui stabilimento di Porto Marghera, con i suoi 1.328 dipendenti, fa però parte di un gruppo nazionale che oggi conta 8 siti con 7.874 addetti (45. Dati tratti da www.fincantieri.com). In questo settore, che oggi opera nella costruzione di navi da crociera, sono necessari flussi finanziari ingentissimi con margini di profitti modesti se rapportati all’entità del rischio, perciò cedere a qualche singolo imprenditore o gruppo industriale le attività appare non realistico. La privatizzazione in questo caso significherà sempre più appalti a ditte esterne private e collocazione in Borsa della società per autofinanziarsi.

[ n.d.a., agosto 2017. Otto anni dopo l'uscita di questo testo, nel giugno 2014, la Fincantieri è stata quotata in borsa e attualmente il gruppo ha, complessivamente, oltre 9.250 addetti e utilizza come dipendenti delle ditte di appalto almeno altri 15-18 mila lavoratori].

Il terzo cambiamento strutturale è la trasformazione delle produzioni: il passaggio da materiali di base a semilavorati e prodotti finiti. Il polo industriale perde quasi tutte le aziende che operavano su produzioni primarie, che ora si importano, e quindi si completa il ciclo della lavorazione.

La quarta trasformazione strutturale è il combinato disposto delle tre precedenti: il passaggio da polo industriale ad area industriale. Il “polo” di Porto Marghera si basava su una modalità produttiva che prevedeva un’integrazione delle lavorazioni tra diverse aziende, da quelle che realizzavano il prodotto primario a quelle che lo rendevano un semilavorato fino a quelle che trasformavano il semilavorato in prodotto finito. Spesso il ciclo finiva con il semilavorato, ma anche in questo caso si trattava di produzione integrata. Oggi una parte relativa di produzione integrata rimane al Petrolchimico, ma il dibattito aperto sulle prospettive della chimica a Porto Marghera appare foriero di ulteriori ridimensionamenti che possono finire per rendere del tutto marginali le produzioni integrate.

L’ultimo cambiamento strutturale riguarda la crescita delle attività economiche nel settore del terziario.

Il peso crescente del terziario: il caso della chimica

Terziario è un termine eccessivamente generico. Si possono collocare in questo settore quelle attività che erogano servizi che non hanno come oggetto una produzione. Servizi personalizzati, continuativi e misurabili con tecniche contabili. È, questa, una descrizione e non una definizione, in quanto persiste il limite di considerare “terziarie” tipologie di servizi non omogenee. Nel nostro caso parliamo di servizi alla produzione ( business service) e non di servizi al consumo. Le attività terziarie sono sorte grazie alla nascita di nuove professionalità all’interno del più generale processo di ristrutturazione industriale avvenuto nel Paese. Si è assistito allo sviluppo di una produzione immateriale che va dall’ideazione alla progettazione alle indagini di mercato. A Porto Marghera il rimodellamento strutturale dell’organizzazione produttiva ha contribuito a espandere queste attività: formazione professionale, servizi finanziari, software house, servizi nel campo della comunicazione, certificazione di bilanci, servizi di logistica alle imprese, ecc. Sono tutte attività scorporate dalle “aziende madri” e affidate a imprese esterne che si sono progressivamente specializzate. Chi ha governato questo processo? Nella prima metà degli anni Novanta il sindacato, ma anche i partiti politici veneziani, hanno tentato di incidere sullo svolgimento di questo processo. Gli interventi di sindacalisti e delegati al seminario della Filcea-Cgil di Venezia del 4-5 aprile 1989 (46. Filcea-Cgil Venezia, Ipotesi di costituzione della società dei servizi nell’area chimica di Porto Marghera, aprile, 1989, dattiloscritto.) mostrano un approccio ancora articolato e contraddittorio, nella fase in cui, per la prima volta, il sindacato tentava di elaborare una proposta sistematizzata. Da un lato si coglieva l’importanza strategica dell’argomento ma, nello stesso tempo, dal dibattito emergeva una ancora imprecisa cognizione della natura del processo, con ovvie conseguenze sulla linea rivendicativa. Si legge dalla relazione introduttiva al seminario:

“... non vogliamo sostituirci alle aziende cui spetta il compito di presentare un progetto di politica industriale anche sui servizi”.

E oltre si denuncia

“una sottovalutazione del problema servizi, in riferimento ai quali si parla solo in termini di “riduzione dei costi fissi”... è stata fatta [dal sindacato] una riunione a Bologna che ha tentato di discutere del problema dei servizi a dimensione di area padana... la sensazione... ricavata... è che un’integrazione dei servizi in un’area così vasta richiede un tempo di attuazione più lungo, ma che tuttavia tale dimensione possa essere più efficace dal punto di vista delle economie di scala. Da qui l’esigenza di cominciare a discutere e disegnare un progetto per un’area omogenea più piccola come Porto Marghera”.

In uno degli interventi si sostiene che

“il Petrolchimico ha una meta ambiziosa: quella di proporre i propri servizi per la manutenzione di tutta Marghera”.

E un altro degli intervenuti:

“Siamo partiti dal ragionamento sulla società dei servizi perché volevamo controllare un processo di esodo strisciante con interessi anche di vari partiti e di varie componenti sindacali... realizzare la struttura della società dei servizi che deve fondamentalmente servire, oltre che all’azienda, per l’autotutela e per la garanzia delle condizioni di sicurezza di salario e di potere contrattuale in fabbrica...”.

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