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Venezia. Ciminiere Ammainate
Venezia. Ciminiere Ammainate

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Le condizioni per un ruolo rilevante di Venezia nel sistema della logistica di Venezia esistono concretamente, tuttavia non va dimenticato che Venezia è una città metropolitana. L’aggettivo “metropolitana” non è assegnato tanto per la dimensione territoriale o per il numero di abitanti, quanto perché vi sono presenti, contemporaneamente, più servizi di eccellenza. E Venezia questi servizi di eccellenza li detiene nelle attività culturali e monumentali, nelle sue due sedi universitarie, nelle più volte citate infrastrutture, nei centri di ricerca. La città metropolitana non è una costruzione artificiale quanto il frutto di decenni di lavoro, di esperienze via via consolidate e costruite con fatica. È questa la “buona miscela” che bisogna salvaguardare per dare prospettive più solide all’economia veneziana. E nella miscela non possono mancare le attività produttive di Porto Marghera, certamente risanate e rese compatibili con l’ecosistema lagunare. Ormai la crisi degli insediamenti industriali storici di Porto Marghera e delle attività portuali, estesa e profonda negli anni Ottanta e Novanta, ha cambiato il volto dell’economia veneziana, imponendo un nuovo equilibrio tra attività industriali e attività economiche nei servizi e nel turismo. Il rilievo delle attività industriali ha contribuito significativamente a definire il nuovo mix produttivo e il mantenimento di attività industriali risanate e rinnovate appare essere ancora un obiettivo irrinunciabile.

4. Qualche considerazione finale

Il territorio veneziano si trova dinanzi a problemi assai caratterizzati e particolarmente intensi. Pensiamo solo alle questioni sollevate dalla problematica ambientale a Porto Marghera, con il loro crescente peso nella politica della città, cioè nelle scelte che la collettività assume e a cui si vincola. In tale complessità assume un’importanza rilevante la costruzione di regole comunemente condivise, e tra queste la responsabilità. L’etica della responsabilità ha lo scopo fondamentale di impedire la ricerca di scorciatoie mentre si tenta di affrontare problemi complessi. È, come dire, un freno non alla demagogia (di cui la politica nel suo rapporto con le masse non può fare a meno) ma alla demagogia senza null’altro. È sicuramente un argomento difficile, ma quanto positivo potrebbe essere premiare colui o coloro che nelle scelte collettive determinano quelle che si dimostrano giuste e viceversa sanzionare chi compie quelle sbagliate? Ne risulterebbe un criterio di selezione della classe dirigente politica trasparente e di grande efficacia. Non che oggi ciò non accada, ma si tratterebbe, nell’ambito della politica, di tramutare l’eccezione in regola. Una vicenda che può ricondursi a questa problematica è quella del caso Galileo.

Il caso Galileo: errori senza responsabilità

La Galileo Industrie Ottiche Riunite (da ora in poi Galileo), azienda storica di Porto Marghera, dieci anni dopo essere divenuta interamente di proprietà dello Stato (al 50% nel 1969 e al 100% nel 1976) viene nuovamente venduta a un imprenditore privato. La privatizzazione è resa inevitabile dalle continue perdite, che per il solo 1986 toccano la cifra, stratosferica, di 14 miliardi di lire (in quegli anni le aziende a partecipazioni statali sono tutte nell’occhio del ciclone per il loro andamento negativo, quasi generalizzato). La Galileo viene ceduta a una società dell’Iri, la Sofin, che ha il compito di dismettere le attività industriali che le vengono conferite. Il che vuol dire o trovare un acquirente o chiudere. La Galileo trova un acquirente che si impegna a rilanciare l’azienda in campo nazionale ed estero e a rioccupare tutti i dipendenti rimasti. Alle parole seguono i fatti. A Marghera riprendono il lavoro quasi 400 dipendenti, un centinaio in più dei previsti, e ciò grazie a nuove assunzioni. Si aprono nuovi stabilimenti in Usa, Irlanda, Russia e nuovi centri di produzione in Belgio e Spagna. Si tenta di costruire un ulteriore stabilimento a Longarone, nel cuore del distretto dell’occhialeria del Bellunese (un investimento di alcune decine di miliardi di lire, tra fine anni Ottanta e primi anni Novanta). Questi fatti portano a considerare errata la tesi di Roverato, secondo cui ciò che è avvenuto alla Galileo è

«... un’improvvida privatizzazione, che “regala” a terzi (come, perché?) il patrimonio immateriale, ma tuttavia economicamente pesante, di un marchio giunto a livello di eccellenza nella sua specifica tipologia produttiva» (61. Cfr. Roverato G., “Postfazione”, in Romanato M., La memoria del lavoro. Le carte del Consiglio di fabbrica della Galileo Industrie Ottiche (1947-2000), Annali 4, Centro studi Ettore Luccini, Padova 2003).

La crisi aziendale sopraggiunge circa otto anni dopo, quando si registra una «... crisi delle vendite in Europa e in particolare in Italia...» (62. Cfr. Roverato G., “Postfazione”, in Romanato M., La memoria del lavoro. Le carte del Consiglio di fabbrica della Galileo Industrie Ottiche (1947-2000 ), Annali 4, Centro studi Ettore Luccini, Padova 2003, p.190).

La lotta per “cacciare” il proprietario durò due anni, un periodo di tempo lunghissimo per un settore che ancora oggi si basa su una forte politica commerciale in un mercato altamente concorrenziale. Dopo due anni, non era facile rimettere la Galileo sul mercato, né trovare un imprenditore disposto a rilevare l’azienda. Del resto, come ha ricordato Roverato, il bene più prezioso era il prestigioso marchio e i concorrenti a quello, e solo a quello, aspiravano. Iniziò così, dopo l’uscita di scena del vecchio proprietario, un ulteriore periodo difficile e, nel marzo del 1998, 170 lavoratori sui 253 rimasti si videro recapitare la lettera di licenziamento. Fu allora che i lavoratori occuparono l’azienda (non era la prima volta) e la conclusione fu l’acquisizione della Galileo da parte di un’azienda del Bellunese, la Ital-Lenti, che si impegnò a riassumere un centinaio di lavoratori. Successe tutt’altro e l’attività non ha più ripreso a Marghera, mentre si è mantenuto in funzione il Centro servizi di Milano, con diverse decine di addetti. La Ita Lenti ha, di fatto, comprato il solo marchio, rivelando in tal modo il suo vero disegno. Non esiste la prova certa che la linea sindacale finita in minoranza fosse quella giusta, ma esiste la prova che la linea prevalsa è risultata sbagliata, proprio come sosteneva chi non la condivideva. Sbagliare è certamente possibile, resta da stabilire se gli errori hanno un costo. Un costo vi è stato per l’imprenditore, estromesso dalla proprietà; per le banche, che non sono riuscite a recuperare alcune centinaia di miliardi; per i lavoratori, che hanno perso il posto di lavoro (ma hanno scelto consapevolmente una linea sindacale risultata incapace di rispondere ai problemi della loro azienda). E i sindacalisti che hanno portato avanti quella linea? Risultano gli unici a non aver pagato il costo di un proprio errore. Un quesito si pone: è credibile un sindacato che non affronta un tema come quello della responsabilità? La Fiom nazionale, dopo la sconfitta alla Fiat, nel 1980, produsse cambiamenti radicali nel proprio gruppo dirigente, ma non sempre si è seguita questa strada. Nel caso Galileo questo dibattito, purtroppo, è mancato.

La sfida di una nuova cultura del lavoro

La complessità attuale richiede un approccio prudente, ma non per questo deve venir meno il principio della responsabilità prima soggettiva e poi collettiva. Qui si gioca la credibilità di una classe dirigente che dovrebbe essere in “formazione permanente”. La personalizzazione della politica e il sistema elettorale maggioritario accentuano la dicotomia partitica e producono atteggiamenti di contrapposizione. Forse bisognerebbe non solo dare centralità ai programmi politici ma anche introdurre nei programmi temi più audaci, che potrebbero essere forieri di freschezza nel dibattito. Pensiamo al tema del lavoro. Possiamo chiederci con Rozzi: «Davvero il lavoro è sempre un’espressione costruttiva dell’uomo?» (63 Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, Il Mulino, Bologna 1997, p. 7).

In certe culture primitive è così presente la consapevolezza della distruttività del lavoro da trasformarsi religiosamente in rito, per esempio quello che ripara la terra “ferita” dall’aratro.

“Questo elemento di violazione e di violenza è presente in ogni fabbricazione, e homo faber, il creatore del mondo dell’artificio umano, è sempre stato un distruttore della natura. L’ animal laborans, che con il suo corpo e con l’aiuto di animali addomesticati alimenta la vita, può essere il signore e padrone di tutte le creature viventi, ma rimane ancora il servo della natura e della terra; solo homo faber si comporta come signore e padrone di tutta la terra” (64. Arendt H., Vita activa: la condizione umana, Bompiani, Milano 1989, pp. 99-100).

Oggi vi è la consapevolezza sempre più diffusa che la natura non è inesauribile: distruzione di risorse, inquinamento, spreco sono il prezzo pagato alla nostra opulenza. Nel futuro del mondo capitalistico avanzato, e quindi anche di Porto Marghera, il lavoro tenderà a essere un luogo di convivenza e di scambi anche per la diminuita necessità del lavoro come tradIzionalmente inteso e realizzato. Forse sta in questo passaggio quello che a volte appare come un vero e proprio smarrimento della classe dirigente veneziana, un passaggio che vede aumentare le possibilità di sostituire il lavoro tradizionale, centrato sulla performance, con l’attività. È drasticamente diminuito, direbbe Marx, il lavoro vivo, grazie ai considerevoli progressi tecnologici. E, nello stesso tempo, è aumentato il lavoro rivolto alle persone. Sono cresciute, nello stesso settore industriale, attività non produttive di beni materiali: comunicare, vendere, organizzare, formare professionalmente. Sono tutte attività che hanno al centro la cura dell’uomo e sono caratterizzate dal rapporto non invasivo, non distruttivo con la natura. Ciò rappresenta un netto cambio di direzione e può darsi che per questo «imprenditori, sindacalisti, politici, abbiano paura di una perdita di potere sul lavoro» (65. Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, p. 52).

O forse il sistema economico è impossibilitato ad accogliere un simile cambiamento. Dahrendorf si chiede e si risponde:

«Esiste un punto di aggancio nel campo dell’istruzione, che può contribuire a spianare la strada dalla frantumante società del lavoro all’attraente società dell’attività? A questa domanda non ho risposta» (66. Dahrendorf R., Per un nuovo liberalismo, Laterza, Bari 1988, p. 159).

Si è impreparati dinanzi alle aumentate possibilità di cominciare a sostituire il lavoro tradizionale con l’attività, verosimilmente perché viviamo sotto la spinta di un modello di economia capitalistica con il suo problema che «non è in primo luogo produrre ancora più merci, ma produrre sempre di più gli uomini destinati a consumare queste merci» (67. Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, p. 86).

Anche a Porto Marghera la cultura dell’industrialismo non ha tenuto conto a sufficienza di quanto

«il lavoro che investe la natura sia diverso da quello rivolto all’uomo... fare il poliziotto, l’infermiere, l’insegnante non è un semplice e positivo produrre, ma è innanzitutto far sì che non accada nell’uomo qualcosa di negativo» (68. Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, cit., p. 87).

Forse ciò è avvenuto perché la cultura del lavoro è troppo riduttiva e finisce per non considerare la complessità dell’uomo e dei suoi bisogni. Su questo terreno esiste uno spazio politico che può segnare in profondità la prospettiva di un vecchio polo industriale che può e dovrebbe rimanere un degno attore della vita economica di Venezia.

Parte seconda

SEDICI INTERVISTE SU PORTO MARGHERA 1999-2006

La libertà riservata ai soli fautori del governo... non è libertà.

La libertà è sempre la libertà di chi pensa diversamente.

Rosa Luxemburg

SEDICI INTERVISTE SU PORTO MARGHERA 1999-2006

Gastone Angelin, Porto Marghera e le lotte operaie

Dal 1957 al 1962 segretario della Fiom di Venezia. Dal 1962 al 1972 nella segreteria del Pci di Venezia, prima con l’incarico di responsabile per il territorio di Mestre e poi come responsabile per la zona industriale di Porto Marghera. Dal 1972 al 1975 segretario della Federazione del Pci di Venezia. Dal 1979 al 1987 senatore della Repubblica.

Incontro Gastone proprio mentre è in corso l’intervento militare della Nato in Serbia. Ed è il primo argomento di cui parla. Mi appare sofferente per il dramma umano che si consuma («pagano sempre i più deboli»). Lui che ha conosciuto la guerra e militato da ragazzo nella Resistenza, noto a Venezia per la sua determinazione e coraggio negli anni difficili per la vita democratica del nostro Paese. Nell’analisi politica, però, è molto lucido e chiaro («Le posizioni di Milosevic sono insostenibili, ma 19 paesi con 500 milioni di abitanti non possono usare armi tanto distruttive contro qualche milione di serbi. C’erano altre strade per indurre Milosevic alla ragione»). Veniamo all’intervista.

C’è qualche fatto particolare che segna il 1970 a Porto Marghera?

C’è un punto fondamentale che, parlando della Porto Marghera degli anni Settanta, bisogna tenere presente: in quegli anni il Pci e il sindacato erano il bersaglio giornaliero di Potere Operaio. Il Pci si muoveva su una linea politica volta all’unità dei lavoratori, della sinistra e con l’obiettivo di realizzare alleanze con i “ceti medi”. Potere Operaio si autodefiniva un’avanguardia che trascinava le masse e che rompeva volontaristicamente le compatibilità del sistema capitalistico, che “ingabbiavano” la classe operaia. Potere Operaio riteneva partito e sindacato soggetti di una politica “deviata”.

Come rispondevano Pci e sindacati a questi attacchi?

Senza concedere nulla. Poi i militanti di Potere Operaio “scoprono” il “nemico” che detiene per davvero il potere e ostacola l’avanzamento della classe operaia: la Democrazia Cristiana e la Confindustria. E parecchi di questi militanti, quando Potere Operaio si scioglie, entrano nel Pci. Si avvia così una nuova fase del dibattito politico, a volte anche aspro, nel partito e nella sinistra sulle prospettive del movimento dei lavoratori e sulla linea politica da seguire per la trasformazione del Paese.

C’è qualcosa che può segnare e caratterizzare la fase che si apre nel 1970 a Porto Marghera?

Bisogna, per forza di cose, andare per un momento al periodo precedente e cioè guardare a come si è sviluppata Porto Marghera. Ed è fondamentale, guardando a questo processo, analizzare e capire la questione dei “Poteri”. È opportuno iniziare proprio dalla questione del potere, guardando al periodo antecedente al 1970. Noi, parlo del Pci, ritenevamo decisiva la partecipazione dei nostri militanti, e più in generale dei cittadini, alle scelte che riguardavano la vita collettiva e i processi economici; ciò induceva il gruppo dirigente, a partire dal Comitato Federale, a lunghe e appassionate discussioni. Mentre noi discutevamo, però, gli altri, intendo ad esempio la Democrazia Cristiana e la Confindustria veneziana, decidevano e procedevano nel realizzare le loro decisioni, come l’insediamento in Porto Marghera di industrie come quella, molto pesante, della chimica di base, manifestamente incompatibile con la fragilità dell’ambiente lagunare, al centro di un’area abitata da centinaia di migliaia di persone e a ridosso del centro storico di Venezia.

Erano incontrastati?

Potevano farlo soprattutto perché avevano dalla loro parte i soldi, gli strumenti e il potere politico. Ricordo lo scontro politico agli inizi degli anni Sessanta contro il Consorzio per la Zona Industriale, perché funzionava come strumento di un potere privatistico totalizzante in ordine alle scelte di sviluppo nell’area dettate da convenienze esclusivamente capitalistiche. Va ricordato a questo proposito il Piano regolatore di Porto Marghera, strumento urbanistico per lungo tempo “autogestito” dall’imprenditoria privata. Questo ha indotto altri interventi nel territorio, come quelli gestiti dalla Dc che amministrava il Comune, con cui si è favorita la crescita urbana di Mestre, allora fortemente criticata da sinistra per essere diventata la “città dormitorio” cresciuta in gran parte in funzione di Porto Marghera e favorita dalla speculazione edilizia e sulle aree.

Puoi fare qualche esempio più concreto di utilizzo di questo potere che ha condizionato l’esercizio di quello pubblico?

Nel 1928 è varata la “Prima legge speciale per Venezia e Porto Marghera” e riguarda l’area Bottenighi. In questa legge vi sono dei punti importanti. Uno di questi riguarda le cosiddette “autonomie funzionali” ovvero la possibilità per le imprese di usare in proprio le banchine portuali della zona industriale, per lo scarico delle materie prime e per la spedizione dei manufatti prodotti. Questa possibilità era nettamente alternativa all’uso delle strutture pubbliche del porto e degli addetti della Compagnia Lavoratori Portuali, che operavano in porto. Di fatto si è affermata una logica di monopolio privato supportata da una legge dello Stato.

Un altro punto importante?

È l’affermazione che strumenti di programmazione territoriale vengono sottratti ai poteri pubblici e gestiti direttamente dagli imprenditori privati. Ciò vuol dire che sull’area dove è previsto l’insediamento di aziende loro hanno piena libertà di fare e disfare, senza alcun controllo pubblico. Immaginiamo quanti guasti ha creato questa condizione? Senza questa gestione del potere privato sarebbe stato possibile costruire un’altra Porto Marghera? Trovo legittimo porsi questa domanda.

Come si è agito per contrastare questo “strapotere” dell’imprenditoria privata?

Il nostro dibattito non ha avuto un andamento sempre lineare, influenzato, come è ovvio, da altri soggetti. Vi erano in campo diverse proposte: per esempio quella di Italia Nostra che, fino al 1964-65, sosteneva una linea di sostanziale conservazione dell’esistente, comprensibile se volta a ostacolare un pesante processo di manomissione dell’ambiente, ma che non poteva essere condivisa in quanto appariva contraria a ogni ipotesi di sviluppo industriale, anche se compatibile. Poi vi erano le posizioni degli industriali sostenute da parte della Dc, che volevano lo sviluppo del polo industriale. Un’altra parte della Dc sosteneva l’idea di realizzare “una fabbrica per ogni campanile”, una logica, cioè, di sviluppo diffuso che finiva per produrre un’eccessiva polverizzazione e quindi un indebolimento del tessuto industriale.

E la sinistra?

Infine vi eravamo noi del Pci che, con parti importanti del Psi (escluso De Michelis, sensibile allo sviluppo della chimica) e il sindacato, proponevamo un decentramento degli insediamenti industriali in varie località della provincia, compresa naturalmente Porto Marghera, considerate le condizioni economiche e sociali e le compatibilità ambientali delle diverse aree. Una simile linea di sviluppo chiamava in causa la necessità di una “programmazione democratica” dello sviluppo economico della provincia di Venezia e di un’area ancora più vasta.

Cosa è successo nel 1966?

Incominciano a farsi sentire gli obiettivi sociali. Fino ad allora i comunisti erano contro le leggi speciali, perché, come abbiamo visto dal 1928, finivano per essere strumenti nelle mani dei padroni, usati a loro esclusivo vantaggio. L’acqua alta del ’66 a Venezia ci spinge a uscire dallo schema legge speciale sì-legge speciale no. Il dibattito si apre sul tema: quale legge speciale? Non solo questioni economiche ma anche sociali. Ciò significa, per Venezia, ad esempio, quale politica per la casa? Quale risanamento conservativo? Come stimolare processi di rivitalizzazione sociale ed economica? Come intervenire per assicurare in futuro l’esistenza fisica di Venezia? E quale politica per le attività produttive? E mentre per Venezia si apre questo tipo di discussione, si incominciano a sentire gli effetti della “rivoluzione agricola”.

Puoi entrare nel merito di quest’ultimo argomento e, soprattutto, che rapporto vi è tra agricoltura e Porto Marghera?

Si può affrontare questo argomento dal punto di vista della manodopera. L’agricoltura negli anni Sessanta è stata oggetto di un processo spinto di meccanizzazione. Le macchine hanno provocato l’espulsione di braccianti e mezzadri dall’agricoltura. Si è resa, così, disponibile una notevole quantità di manodopera a basso costo. Per le stesse famiglie contadine l’impiego di mariti e figli a Porto Marghera ha significato più soldi disponibili e in più il fatto che il reddito familiare proveniva da fonti diversificate e non più dal solo lavoro nelle campagne. Cambiavano così in meglio le condizioni di vita. Vi era quindi una spinta dei lavoratori prima occupati in agricoltura per lavorare a Marghera, vedevano in ciò un miglioramento delle loro condizioni. Questo era utilizzato dalle forze che operavano per lo sviluppo del polo industriale.

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