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Venezia. Ciminiere Ammainate
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Obiettivi della vertenza sono: la costruzione di un sindacato aziendale all’interno delle attività produttive, l’acquisizione di diritti per uniformare le condizioni normative a quelle dei dipendenti delle grandi aziende committenti e, infine, la contrattazione e il controllo dell’organizzazione del lavoro, del salario e delle condizioni di vita nei luoghi di lavoro. Da aprile fino al 2 agosto del 1970 la vertenza porta a un progressivo inasprimento nelle relazioni industriali. I circa 10.000 addetti del settore rappresentano una particolarissima realtà nel panorama sindacale veneziano. Si tratta, infatti, di forza lavoro per buona parte molto professionalizzata ma portata, per le condizioni di mobilità, a un rapporto poco disciplinato con l’organizzazione sindacale. Ma le condizioni di relativa stabilità del ruolo degli appalti nell’area chimica – grandi manutenzioni e costruzioni determinano fra questi lavoratori una condizione “unitaria” che li avvicina alla classe operaia della fabbrica tradiziona le, con in più un regime di divisioni e discriminazioni insopportabili. Sono elementi sufficienti a produrre una brusca e conflittuale sindacalizzazione (19 Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 478).

La vertenza delle imprese di appalto si concluderà dopo oltre 200 ore di sciopero e dopo quella giornata del 2 agosto ricordata nell’intervista di Ghisini, quando i picchetti operai bloccheranno le portinerie della Montedison e le strade, producendo l’isolamento del polo industriale dal territorio circostante, e la polizia, presente massicciamente, “caricherà” gli operai. Gli scontri sono aspri e vedono accorrere anche la popolazione di quella zona estrema di Marghera: Ca’ Emiliani. Subito arrivano anche gli operai della Sava a dare man forte, mentre quelli dell’Italsider, della Chatillon e degli Azotati entrano in sciopero più tardi.

Gli scontri, questa volta, sono durissimi. Chinello e Golinelli, parlamentari, vengono picchiati dagli agenti e uno di questi viene fatto “prigioniero” dopo aver investito un dimostrante e condotto, semisvenuto, dai suoi colleghi. Per tutta risposta un graduato e alcuni agenti estraggono le pistole e sparano numerosi colpi. Due operai saranno feriti, ma poi la polizia viene travolta. A mezzogiorno la “battaglia” è finita. Il giorno dopo interviene l’accordo che non soddisfa le richieste di garanzie occupazionali, ma sancisce il riconoscimento, di fatto, di un’unica condizione contrattuale per questi lavoratori, poi rafforzata anche a livello sindacale con il “Coordinamento imprese”, una sorta di consiglio di fabbrica interaziendale. (20. Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 479).

La prima vertenza delle imprese si concluderà acquisendo anche miglioramenti salariali. La vertenza Sava ha tutt’altri contenuti: vuole affermare un diritto fondamentale, quello che la Costituzione repubblicana assume programmaticamente, cioè il diritto al lavoro. Nel gennaio del 1971 la direzione aziendale della Sava annuncia la chiusura dello stabilimento di Allumina. A giugno i lavoratori della Sava sono in lotta contro i 270 licenziamenti annunciati dall’azienda, e il giorno 22 dello stesso mese, assieme ai lavoratori della Sava contro i licenziamenti, sciopereranno i metalmeccanici veneziani. Gli scioperi dei lavoratori della Sava continueranno anche dopo l’accordo del mese successivo al Ministero del Lavoro a Roma, che tramuta i licenziamenti in cassa integrazione e consente la chiusura dei primi forni all’Allumina.

La lotta dei lavoratori continuerà ancora a lungo. Si rivendica la continuità produttiva per la fabbrica di Allumina, ma si accentua anche la pressione verso un livello di contrattazione che dovrebbe essere istituito per gli investimenti e la gestione degli assetti produttivi dell’intero territorio. Si cerca, in sostanza, di contrattare “lo sviluppo”, con una logica che di lì a poco sarà codificata nelle piattaforme territoriali (21 Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 482). L’accordo arriverà nel gennaio del 1972, con la mediazione del Governo nazionale, che “offre” un centinaio di licenziamenti, il blocco del turnover per due anni, la cassa integrazione per 600 lavoratori e un’attività sostitutiva delle Partecipazioni Statali per riassorbirli (22. Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 483).

La dialettica sindacato-partito

Ancora Giuliano Ghisini dall’intervista di Chiara Puppini:

AIELLO. Poi nel ’70, dopo le imprese inizia la lotta della Sava.

GHISINI. Si era a cavallo tra il ’69 e il ’70. L’Alusuisse, la multinazionale svizzera proprietaria degli stabilimenti Sava, voleva chiudere tutto, sbaraccare e andare via...

AIELLO. Com’era Germano in quella fase?

GHISINI. Allora vediamo Germano. Nel ’70 sono iniziati i lavori di costruzione del Petrolchimico 2. A Marghera gli addetti erano già più di 35.000. Poi avviene questa storia della Sava. L’Alusuisse voleva chiudere la sua attività e qui inizia un ruolo importante di Germano, insieme a Mattiussi, a Vianello... Lui si inserisce nel gruppo del sindacato che apparteneva alla componente comunista. Affermava che noi eravamo allergici al Pci...

PUPPINI. Come mai?

GHISINI. Perché eravamo “allergici” ai dirigenti del Pci? Perché loro volevano comandare. Non c’interessava molto questo loro comandare. Volevano dare ordini e noi dovevamo “fare”. Il Pci, però, tra noi non aveva molto spazio. Noi non eravamo contro il Pci, ma non ci piaceva la concezione del suo gruppo dirigente. E Germano condivideva questo pensiero... assolutamente... loro volevano gestire, ma non capivano un tubo di com e gestir e. (23. Puppini C., Intervista a Giuliano Ghisini e Alfredo Aiello, cit.).

Anche Giosuè Orlando, nella sua intervista, sottolinea come il Pci fosse ancora rimasto alle “commissioni interne” ed era scettico sul nuovo ruolo del sindacato – non più vincolato al rapporto con il partito – che rispondeva direttamente e prima di tutto all’insieme dei lavoratori. Piero Ignazi fa risalire tutto ciò all’idea stessa della costruzione di un grande partito di massa nel periodo post-bellico. Il Pci «adotta una strategia di penetrazione ed egemonizzazione negli organismi di massa unitari – dai sindacati alle cooperative, dal movimento per la pace agli organismi studenteschi... L’organizzazione del Pci è sempre stata fonte di orgoglio all’interno, e di ammirazione mista a timore reverenziale per i partiti concorrenti. Il Pci è stato giustamente definito un sistema organizzativo complesso... con vari livelli organizzativi gerarchicamente ordinati; con strutture di base territoriali e funzionali... Il Pci dispone anche di un’ideologia organizzativa, il “centralismo democratico” di derivazione leniniana. Questa concezione prevede che il processo decisionale proceda dall’alto in basso e che ogni iscritto, dopo aver eventualmente manifestato critiche e proposte solo all’interno degli organi del partito, debba adeguarsi ai deliberati ufficiali» (24 Ignazi P., I partiti italiani, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 84-85). Il Pci aspira – per definizione e legittimamente – al potere politico e cioè ad avere la capacità di «controllare in maniera privilegiata i processi della decisione politica; di prendere decisioni normative in nome della società globale; di far applicare queste decisioni, anche con strumenti coercitivi» (25. Melucci A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1977, p. 73). Legittimamente in quanto un sistema politico è obbligato a selezionare tra molteplici domande che provengono dalla società, addirittura escludendo quelle che «metterebbero in questione il vantaggio strutturale (l’egemonia) degli interessi dominanti» (26. Melucci A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1977, p. 73). Il modello organizzativo che Ignazi ha richiamato è indispensabile per un’organizzazione come il Pci? Si può rispondere che è stato un modello organizzativo utile ed efficace durante il periodo del fascismo per gestire la condizione di clandestinità innanzitutto del suo gruppo dirigente. Chiedersi, però, quali effetti provochi in una società che vede lo sviluppo e l’estensione della democrazia e con essa la democrazia politica, è lecito e utile. «Il compito degli attori politici, e principalmente dei partiti, è proprio quello di intervenire nel processo decisionale rendendo “trattabili” le domande che essi rappresentano, cioè proponendo soluzioni... di una domanda che si forma al di fuori del sistema, e di cui i partiti devono tener conto» (27. Melucci A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1977, p. 78). Questa competizione tra domande si sviluppa tra i partiti e nei singoli partiti. Con quali “armi”? Trattare questo argomento richiede uno spazio non disponibile in questa sede. Citerò comunque, a questo riguardo e a titolo di esempio, un’esperienza diretta nel Pci.

Anno 1982. Giuliano Ghisini era il segretario della Cgil veneziana, nei fatti il sindacalista comunista nella posizione gerarchica più elevata. Erano cambiati da qualche anno i dirigenti dei sindacati di categoria e anche il segretario della Federazione del Pci veneziano: Cesare De Piccoli aveva sostituito Enrico Marrucci. Fui convocato, come altri, dalla Commissione Federale di Controllo, una sorta di tribunale interno al partito. Non ne conoscevo i motivi. Mi fu chiesto se avessi mai sentito a proposito di Ghisini e di De Piccoli di loro presunti rapporti non leciti con qualche padrone. Mi si chiedeva, insomma, se Ghisini e De Piccoli avessero preso dei soldi e per quale motivo. (Ricordo che si parlava di dentisti dell’allora Iugoslavia che avrebbero fatto interventi odontoiatrici sui due imputati e che la parcella sarebbe stata pagata da qualcun altro). Non conoscevo molto De Piccoli, ma conoscevo Ghisini dal 1975, un compagno formatosi nel sindacato nell’immediato dopoguerra, che proveniva dalla provincia di Ferrara, autorevole e molto stimato dagli attivisti sindacali anche di Cisl e Uil. Devo dire che avevo già sentito chiacchiere di questo tipo, ma mai su Ghisini e sul segretario del partito. Soprattutto non avevo mai saputo di un intervento diretto della Commissione Federale di Controllo del Pci in una vicenda simile. Risposi che mi sembrava una grande sciocchezza e, ingenuamente, chiesi chi diceva queste cose e se era in grado di dimostrarle. Non ebbi risposta. Capivo che era in corso un’azione calunniosa ma non riuscivo a comprenderne la finalità. Mi fu tutto più chiaro qualche mese dopo, quando Ghisini mi chiamò per mostrarmi una lettera sottoscritta da un cospicuo gruppo di segretari generali dei sindacati veneziani di categoria nella quale si chiedeva, alla componente comunista e al Pci, di «aprire una fase di rinnovamento nella segreteria della Cgil veneziana». Si chiedeva un intervento diretto del Pci. Allora era normale e da tutti accettato che le nomine dei comunisti sia nel sindacato che nel partito, come nelle cariche istituzionali, fossero discusse da tutti coloro che avevano una funzione dirigente fino a quando Bruno Trentin non sciolse, negli anni Novanta, la componente comunista ( 28. Trentin B., Convegno dei dirigenti Cgil della componente “Unità sindacale, Ariccia, 18-19 ottobre 1990). Quella iniziativa della Commissione Federale di Controllo, in cui non si capiva chi aveva accusato, di cosa e con quali prove, che si era rivelata poi una bolla di sapone, aveva finito per aprire una fase di delegittimazione di una figura spesso additata come troppo favorevole a un sindacato autonomo e unitario e capace di iniziative di rilievo (vedi la costruzione della Vertenza Venezia e soprattutto la battaglia della Sava). Ghisini fu sostituito e mandato per dodici mesi in Cgil regionale e poi in pensione. De Piccoli restò al suo posto. Fu, per quello che ricordo, l’inizio della conclusione di una fase di dialettica politica molto forte tra sindacato e partito.

Gli obiettivi della lotta tra “riformatori” e “rivoluzionari”

Lo scontro sulla linea politica da adottare e sul l uogo del conflitto per fare avanzare una società socialista e difendere e migliorare le condizioni dei lavoratori e in generale delle masse popolari, si intensifica con chiarezza, sulla scia del ’68, sin dai primi anni Settanta e proseguirà fino alle grandi ristrutturazioni degli anni Ottanta. Uno scontro che era già stato vissuto all’interno dello stesso Pci sin dagli anni Cinquanta.(29. Pagnin F., Portomarghera. Sindacato e partito comunista negli anni ’50, Centro internazionale della grafica, Venezia 2006). Per cogliere il clima politico è utile richiamare le posizioni di Toni Negri, uno dei fondatori di Potere Operaio.

“Riconquistare dunque la teoria di Marx per praticarla in maniera sempre più adeguata alle esigenze determinate e diverse della lotta di classe – sia come critica dell’economia politica che come teoria del partito: questo è il compito che ci è dato”. ( 30. Negri A., Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 5-6).

E ancora:

“Ma il progetto capitalistico oggi non interpreta solo la forza dell’impatto operaio sulla struttura dello Stato pianificato: tenta di interpretarne anche la forma, la figura cioè in cui esso si è sviluppato, la figura dell’operaio massa. Interpretarla per assumerla e distorcerla. La fluidificazione di tutti i momenti del ciclo produttivo rappresenta la faccia positiva del progetto capitalistico, la ristrutturazione vera e propria – con contemporaneo aumento della produttività delle forze del lavoro singolo e del lavoro sociale... “. (31. Negri A., Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974, p. 34).

E in un testo di qualche anno dopo:

“... torniamo al significato fondamentale di questo libretto e alla proposta che in esso si contiene. Essa consiste nella convinzione che la crisi dell’operaio-massa determina un allargamento dell’esistenza cosciente e delle rivolte proletarie e che è in riferimento a questa nuova dimensione della proletarizzazione che il progetto di organizzazione deve essere messo in atto. Consiste inoltre nella convinzione che su questa nuova dimensione la richiesta proletaria di comunismo, subito, è più larga e pressante che mai”. ( 32. Negri A., Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 8-9).

Sono posizioni politiche che mirano ad “attaccare” e “demolire” il modello di sviluppo capitalistico e a conquistare, su quelle basi politiche, la classe operaia. Ma la presenza organizzata di sindacati e Pci fa da barriera. I comunisti, anche a Porto Marghera, erano abituati a due tipi di anticomunismo: quello di destra, che si manifestava con la pregiudiziale verso ogni forma di partecipazione del Pci al governo del Paese, e quello di sinistra che si esprimeva tradizionalmente, come evidenziato da Angelin, in una contestazione ai vertici del Pci (e del sindacato) in quanto partito riformista, accusato di aver abbandonato la prospettiva rivoluzionaria. Era, quest’ultima, una critica che mirava a creare una frattura tra base e vertici sia nel Pci che nel sindacato, per spingere verso lotte “rivoluzionarie” ampie masse di lavoratori.

Non a caso molti, o quasi tutti, i leader della contestazione studentesca del ’68 uscivano dal Pci e passando dall’organizzazione dei gruppi avevano in mente proprio un disegno del genere. (33. Cfr. l’intervento di Asor Rosa A., in Bianchi S., Caminiti L. (a cura di), Settantasette. La rivoluzione che viene, DeriveApprodi, Roma 2004, p. 149).

Sempre Angelin ci ricorda che a questi attacchi il Pci rispondeva «senza concedere nulla. Poi i militanti di Potere Operaio “scoprono” il “nemico” che detiene per davvero il potere e ostacola l’avanzamento della classe operaia: la Democrazia Cristiana e la Confindustria. E parecchi di questi militanti, quando Potere Operaio si scioglie, entrano nel Pci». Ma non sarà un passaggio breve, né senza contraddizioni. In quei giovani vi era un nuovo modo di concepire e praticare la lotta al Pci. È un’evoluzione, prodotta da un gruppo di intellettuali che consideravano la loro capacità di analisi politica superiore e che perciò erano convinti che avrebbero sconfitto il gruppo dirigente del Pci. Non tutti puntavano a questo obiettivo. L’intervista a Gianni Pellicani mette in rilievo la scelta consapevole di alcuni intellettuali, dirigenti del movimento studentesco e di Potere Operaio, Massimo Cacciari in particolare, che partivano dalla premessa che il Pci era entrato in crisi di fronte a una ristrutturazione capitalistica conseguente a una ristrutturazione delle lotte. Affermava Cacciari nel 1985:

“... La nostra presenza [di Potere Operaio, a Porto Marghera] rimane limitata alle “nuove” fabbriche. È insieme un “segno dei tempi” e la dimostrazione che l’organizzazione complessiva della classe operaia non si “inventa” fuori della storia del movimento operaio. Anche su questi motivi matura la rottura tra Negri e me, nell’estate del 1968... Alcuni idioti hanno recentemente lasciato trasparire l’ipotesi che sia avvenuta sui problemi della “militarizzazione”. Mi spiace deluderli nella loro ricerca di arretrare il più possibile l’origine del terrorismo rosso. Ma la rottura con Negri avviene essenzialmente sul problema del partito”. (34. Calimani R., Pierobon V. (a cura di), Le radici del futuro, Regione del Veneto e Marsilio Editori, 2005, pp. 28-29).

Nei contestatori del Pci vi era anche un’idea precisa sulle disuguaglianze sociali, sempre più percepite come elementi di esclusione dalle opportunità di vita. Valevano, insomma, più le norme e i valori esterni ai luoghi di lavoro che le condizioni di lavoro in sé. Ecco perché Toni Negri saluta con piacere da un lato la scomparsa dell’operaio-massa e dall’altro le nuove forme di emarginazione che vedono la luce. In ciò Negri, proprio come André Gorz quasi un decennio dopo, ha colto spazi di manovra politica per i movimenti sociali radicali. In Addio al proletariato, Gorz sostiene, in straordinaria similitudine con Negri, che una « non classe di non operai», che non si identifica né con l’idea dell’«operaio» né con quella del «disoccupato» ma che si inserisce nel settore dell’«occupazione aleatoria, a termine, occasionale, provvisoria e a tempo parziale», è salutata come la forza nuova di una radicale trasformazione sociale (35. Gorz A., Addio al proletariato. Oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, Roma 1982, p. 69).

Con questo retroterra politico emersero anche movimenti di estrema sinistra come Avanguardia Operaia e Lotta Continua che puntavano a rivendicazioni “massimaliste” in aperto antagonismo al Pci e ai sindacati.

Difesa dell’esistente o nuove iniziative industriali? La vertenza Alucentro

Nelle crisi aziendali si sono quasi sempre misurate due linee sindacali e politiche nettamente contrastanti. La prima mirava alla difesa dell’esistente ed era rappresentata dallo slogan «Nessun posto di lavoro si tocca». Era una linea che dichiarava l’irreversibilità della crisi qualora, nel polo industriale, si arrivasse sotto una data soglia occupazionale. Praticamente, una chiusura totale a ogni trattativa che presupponesse la riduzione degli occupati. La seconda, invece, era una linea disponibile alla contrattazione, nella convinzione che un’ ideologica “difesa dell’esistente” portasse a un logoramento dei lavoratori e del sindacato senza evitare i contraccolpi negativi sull’occupazione. Si può dire che la prima tendeva ad affrontare la questione politicamente: gli accordi cartacei con le alternative ai licenziamenti non bastano, esse vanno costruite effettivamente e solo dopo si accetterà non i licenziamenti, ma il passaggio da un lavoro a un altro. La seconda, più “morbida”, considerava più efficace mettere le mani nel “piatto” per non correre il pericolo di limitarsi ad affermazioni di principio che non avrebbero né fermato i licenziamenti, né creato nuovi posti di lavoro. Chi può essere costretto a insediare nuove attività produttive? Difficilmente si può costringere un imprenditore privato, più facilmente ciò può essere frutto di un’iniziativa (“assistenziale”) statale. Possiamo osservare queste due linee politiche richiamando la vertenza Alucentro. È anche l’occasione per puntualizzare alcune inesattezze che su questa vicenda sono state scritte. Utilizzerò, a tale proposito, un testo in cui, come dice lo stesso autore nell’Avvertenza,

"i personaggi – a partire dal protagonista – che compaiono nel libro sono perlopiù inventati; e inventate sono molte scene che tra essi si svolgono... [per poi specificare ciò n.d.a. ] che ai curatori del volume sta più a cuore: la pubblicazione della vertenza che ha permesso all’ex Cdf [Consiglio di fabbrica, n.d.a.] Alucentro di opporsi all’ennesimo scambio di posti di lavoro con ammortizzatori sociali". (36. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994).

C’è da chiedersi, visto l’importante obiettivo dei curatori, per quale ragione si fa ricorso a personaggi inventati, quando si poteva ricorrere ai protagonisti reali. Personaggi inventati possono facilmente portare a storie inventate, che mirano a imporre un punto di vista. Non si può mettere in discussione (si dovrebbe farlo?) la buona fede, ma la verità che può emergere dal testo di Cerasi non rende giustizia alle capacità del giovane e promettente scrittore. La mia analisi critica si fonda su alcuni assunti. Il primo: non è affatto vero che la storia sindacale di Porto Marghera sia la storia dello “scambio di posti di lavoro con ammortizzatori sociali” come è detto nel romanzo. È un giudizio ingeneroso, ad esempio, contro la storica lotta dei lavoratori della Sava, che con oltre 800 ore di sciopero seppero conquistare, già oltre vent’anni prima della vertenza Alucentro, alternative produttive alla chiusura della fabbrica, con la costruzione di nuove aziende. Lo stesso può dirsi per la lotta, a metà anni Ottanta, dell’Alluminio Italia di Marghera. È ingeneroso verso le lotte che migliaia di lavoratori per lunghi anni hanno sostenuto per la creazione di nuove attività e non certo per l’estensione degli ammortizzatori sociali. È ingeneroso verso coloro che in cassa integrazione hanno accettato di dedicarsi, come ripiego estremo e non certo come occasione festosa, ai “lavori socialmente utili”, per non perdere la dignità e l’identità di lavoratore. A meno che Cerasi non voglia, invece, sostenere che i lavoratori volevano “battersi” per il lavoro e il sindacato si “accordava” per ottenere ammortizzatori sociali. In realtà, quando le vertenze per la difesa dell’occupazione minacciata si sono concluse senza l’acquisizione di alternative produttive e con il solo ricorso agli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, prepensionamento, mobilità), questo è dipeso soprattutto dalla indisponibilità (e dalla mancanza di un interesse) di gruppi imprenditoriali privati, come dimostra – ma in senso opposto – la stessa vertenza Alucentro. Non si dimentichi, poi, che dove è passata la logica dei soli ammortizzatori sociali (comunque una difesa di certe condizioni) si trattava quasi sempre di aziende sindacalizzate, prevalentemente di maggiori dimensioni e con capitale interamente o parzialmente statale e non di quelle piccole e private, dove la crisi aziendale portava semplicemente ai licenziamenti, lasciando ai lavoratori la sola possibilità di autotutelarsi. Ma cosa è successo all’Alucentro? L’azienda di Porto Marghera, di proprietà dell’Alusuisse (la stessa multinazionale svizzera della vertenza Sava del 1972) produceva anodi per le celle elettrolitiche per la produzione di alluminio della Tlm, un’azienda dell’allora Iugoslavia collocata a Sebenico. Nel settembre del 1991 la guerra etnica in Iugoslavia fa cadere la Tlm sotto i bombardamenti. L’Alucentro perde il principale cliente e l’apertura della cassa integrazione diventa la prima conseguenza per i lavoratori di Porto Marghera. Per una fase non breve l’azienda funziona a regime ridotto nell’attesa di un’auspicabile ripresa produttiva della Tlm. Il conflitto in una Iugoslavia che si frantuma in più Stati non lascia ben sperare. È a questo punto che si pone il “che fare”? L’Alusuisse intende chiudere completamente l’attività, i lavoratori e il Cdf si oppongono e chiedono di trasferire alcune commesse di lavoro dallo stabilimento del gruppo Alusuisse di Rotterdam a Porto Marghera. Il sindacato territoriale, invece, apre sul fronte delle alternative produttive, mettendo in risalto i pericoli di logoramento conseguenti a una lotta che aspirava a salvare impianti che non si sapeva se, quando e per chi avrebbero poi dovuto riprendere a produrre. Dice il protagonista inventato da Cerasi nel suo libro, come se fosse non inventato:

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