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Le Regole Del Paradiso
Le Regole Del Paradiso

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Le Regole Del Paradiso

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Frenny si sfilò lentamente il top e lo lanciò alla folla che cercò di prenderlo al volo. Mancava solo lei. Solo lei doveva compiere un gesto così semplice, così breve. L’aveva fatto centinaia di volte prima di entrare nella doccia. Lo faceva ogni giorno, togliersi il reggiseno per lavarsi o per indossare il pigiama, ogni sera, eppure le mani sembravano essersi trasformate in due statue d’ottone. Era ferma in preda a sensazioni mai provate prima di allora; era sicura che non sarebbe mai più uscita da quel locale. Per un attimo credette che sarebbe rimasta per sempre sopra quel cubo in balia di tutti quei maiali, compresi i signori in giacca e cravatta che aspettavano, impazienti, il suo top.

* * *

Suo padre prima le diede uno schiaffo con una tale forza da farla cadere a terra, poi iniziò a prenderla a calci. Lei voleva gridare, ma dalla bocca non uscì alcun tipo di suono, solo agghiaccianti gemiti. Versi di dolore.

“Come ti sei permessa di scendere da quel cazzo di cubo!”

Gli occhi di Jane osservavano impotenti la gamba del padre che, finito un insulto, si caricava all’indietro fino a scagliarsi contro la pancia, sul petto, sulle braccia. Dopo ogni colpo che riceveva, c’era un flash bianco. Poi nient’altro. I calci erano terminati. Il dolore però era atroce e attraversava violentemente ogni singola parte del corpo.

Suo padre uscì lasciando aperta la porta e chiunque, passando lì davanti, avrebbe potuto vedere la splendida ragazza mezza nuda per terra, con il sangue che le colava a piccoli rivoli dalla bocca. Se solo avesse fatto volare via quel maledetto top tra le mani di quegli uomini si sarebbe risparmiata la sfuriata di Gary. Dopo alcuni minuti però tornò la bestia in compagnia: insieme a lui c’erano due ragazze e un signore. Forse uno dei bastardi.

“Ho visto che c’è stato qualche imprevisto” affermò infastidito l’uomo. Dall’accento tedesco la ragazza capì subito che si trattava di Rütger Hoffmann.

Gary lasciò intravedere un velo di sorpresa e di sgomento, ma riuscì a rimediare.

“Sì, non sta bene mia figlia, ha avuto un calo di pressione”.

L’uomo guardò Jane con una strana espressione.

“Nonostante il sangue che le esce dal naso e dalla bocca noto che è un succoso bocconcino” affermò facendo intravedere un enigmatico sorriso sulle labbra fini e sottili.

“Rütger” Gary lo guardò di sottecchi come se stesse per fargli qualche proposta. Poi glielo disse chiaramente.

“Se vuoi favorire, non c’è alcun problema” disse indicando con un gesto della mano la figlia.

Hoffmann continuò a tenere gli occhi inchiodati su Jane; notava anche lui quel bel corpo riverso a terra, quei biondi capelli disordinati, la carnagione chiara, l’esplosione della sua giovinezza. Intravide il volto e si accorse dell’estrema delicatezza di quei magnifici tratti naturali.

“Hai fatto un grande errore, non avresti dovuto ridurla così” tuonò il capo con ancora gli occhi sulla ragazza. Poi li buttò su di lui.

“Adesso come passerò la serata?”

Gary si trovò spiazzato e maledisse quella peste di sua figlia. Era convinto che non ci fosse un’occasione importante in cui non lo avrebbe messo nei guai.

“Aspetta qui un momento”. Gary si precipitò immediatamente in cucina. Doveva assolutamente accontentare, almeno temporaneamente, quell’uomo; se tutto quel posto ancora funzionava, se potevano essere comprate e vendute intere partite di droga all’interno del locale e se Gary poteva permettersi di picchiare, maltrattare o violentare le ragazze all’interno di quelle mura, era solo ed esclusivamente merito di Hoffmann. Attorno a sé aveva un incredibile potere che riusciva a gestire ed esercitare tramite i suoi uomini più fidati; pagava profumatamente chi avrebbe potuto interferire negativamente sui suoi preziosi affari. Il locale di Gary fruttava moltissimo non tanto per il sesso che poteva essere tranquillamente praticato nello studio e nelle altre stanze che avrebbero costruito di lì a pochi mesi, ma piuttosto per tutti i traffici di stupefacenti che scorrevano nel night. Era senza ombra di dubbio il quartier generale nel quale Hoffmann e la bestia concludevano i loschi affari.

Gary tornò da Rütger con una delle ragazze che lavoravano segregate in cucina come aiutanti cuoche da ormai due anni. Era sui venticinque anni mora, bassa, occhi scuri.

“Vuoi intrattenere questo mio caro amico? Purtroppo mia figlia non può farlo, date le sue pessime condizioni” spiegò lui.

“Signor Madison, io…”

L’indecisione della ragazza costrinse Gary a fare qualche passo per incollare la sua faccia infuriata a quella della giovane dipendente.

“Se non fai scopare subito questo stronzo come si deve giuro che stanotte ti taglio la gola” le sussurrò.

La ragazza sembrò ipnotizzata da Gary e dalle condizioni di Jane, che notò non appena uscì dalla cucina. L’uomo la guardò e sorrise.

“Non è certo bella come tua figlia” puntualizzò il tedesco.

Gary sentì vorticare la testa.

“Ti prego, Rütger. Lei è quella che si salva, se vuoi ti chiamo la ball…”

“Non voglio quella puttana!” gridò lui stringendo il pugno destro.

Guardò la ragazza dalla testa ai piedi.

“Per stasera ti salvi solo se questa gentile ragazza farà tutto quello che chiederò”.

Visibilmente agitata, la ragazza era sul punto di piangere, ma riuscì a trattenere le lacrime.

“Sicuro che lo farà” Gary si voltò verso l’aiuto cuoca.

“Non è forse così?”

Lei annuì.

“Avanti, non essere tesa” Hoffmann si fece avanti toccandola. Nonostante l’età avanzata dava l’idea di un uomo arzillo.

“Come se fossi a casa tua” gli disse Gary indicandogli il letto.

Rütger lo guardò un’ultima volta.

“Gary, lo faccio solo perché tua figlia è ridotta veramente male” Gli si avvicinò a qualche centimetro. “Dovrai rimediare all’errore commesso” ordinò. Poteva sbagliare in qualsiasi campo, sarebbe stato addirittura più clemente se fossero mancati dei soldi che Gary, ogni tre mesi, doveva dargli. Avrebbe fatto qualche storia, ma non poteva accadere una cosa del genere; quando Hoffmann s’invaghiva di qualche ragazza doveva essere accontentato. E Jane rimase una preda che, per quella sera e solo per quella sera, gli era sfuggita.

Il signor Hoffmann si sdraiò sopra al letto poggiando la testa sul cuscino e invitò la ragazza a fare altrettanto; Gary invece convocò Frenny, l’altra cubista, e la buttò a terra con una spinta. Si slacciò i pantaloni e lei iniziò subito a prenderglielo in bocca. Il tedesco aveva ormai quasi finito di spogliare la ragazza che, fortunatamente per la bestia, si lasciava domare senza difficoltà. Era un pezzo di ghiaccio, ma l’importante era soddisfare il bastardo.

Jane cercò di parlare, ma il dolore la strozzava. Poggiò la testa a terra e cercò di allontanare mentalmente quel fortissimo dolore alla pancia. Suo padre tirò fuori dal cassetto un po’ di cocaina, la sniffò e chiese all’uomo se voleva favorire, ma lui era troppo occupato a leccare ogni centimetro quadrato di quella povera ragazza che con incredibile sangue freddo riusciva a non gridare e a non dimenarsi.

Una settimana dopo la realtà che le si srotolava davanti non era più la stessa.

Dopo la terribile esperienza al night, Jane sentì che qualcosa al suo interno era cambiato e tutto quello che avrebbe fatto, visto o detto, non sarebbe mai stato più spontaneo o genuino, ma avrebbe patito i postumi di quel trauma così violento; ogni frase sarebbe stata macchiata dalla paura che le aleggiava in corpo come un demonio impazzito che cercava di tapparle la bocca; ogni discorso sostenuto sarebbe stato percepito solo come un argomento da trattare per non andare a finire a parlare di quello che aveva fatto al night, sul cubo, conciata in una maniera talmente disdicevole da considerarla blasfema. Gli occhi che le strusciavano addosso, le bocche di alcuni vecchi che sbavavano al solo pensiero erotico di passare qualche ora in compagnia della giovane dal viso angelico, gli occhi chiari e la pelle liscia profumata di una giovinezza che, per loro, non era altro che un irraggiungibile ricordo lontano a cui facevano riferimento quando volevano rivivere l’epoca in cui era il loro turno: il turno per conquistare obiettivi e donne, l’epoca in cui si era in diritto di aspettare qualsiasi treno perché, effettivamente, era la loro epoca. Stare seduti sulle comode poltrone del locale di Gary e fantasticare di baciare Jane, toccarla e sentirsela addosso sarebbe stato il loro viaggio nel tempo ormai andato, ormai scaduto: non sarebbe esistito più il dislivello mozzafiato di età che galoppava tra di loro, ma l’avrebbero interpretato solo come un’indimenticabile nottata al night, un sabato sera alternativo, privo di monotonia, da ricordare per quello che gli rimaneva da vivere come l’ultimo grande colpo da maestri del piacere sensuale, nonostante le rughe, nonostante le ossa e i muscoli fradici, l’artrite, la dentiera.

Non sembrava esistere nessun comportamento mentale, fisico o spirituale che avrebbe potuto alleviare quel marcio che la ragazza sentiva crescere da dentro, che colava dalle pareti della sua dignità e che tutti, solo guardandola negli occhi, avrebbero notato nitidamente. Abbassare la testa facendo correre lo sguardo all’oscuro del mondo non sarebbe servito se non ad accentuare un disagio che nascondeva, in sé, il terribile segreto. Ascoltando i professori spiegare alcuni concetti, o interagire con una commessa di un negozio, stando in silenzio, non riusciva ad abbassare il volume mentale di quella musica che, il sabato precedente, aveva fatto da colonna sonora al suo primo spogliarello pubblico. Non riuscì a concludere niente nemmeno l’amico psicologo di Jolie, al quale venne presentata dalla colf stessa: ebbero una conversazione di mezz’ora, ma la giovane non disse nemmeno una parola. Vedeva ancora un fiume di mani in aria che applaudivano, i fischi acuti, gli occhi spalancati quando Frenny aveva lanciato alla folla imbizzarrita il suo top, le mani dei vecchi che entravano nei pantaloni e si agitavano. Gli spiriti eccitati sembravano concreti, visibili: li indossavano come terrificanti maschere di carnevale.

Entrare in casa o a scuola rappresentava la grande sfida giornaliera dalla quale si aspettava il peggio: tra i banchi del liceo c’era Ashley che ogni mattina, puntuale come un ghepardo nell’ora in cui la famiglia di gazzelle si riunisce amorevolmente, si materializzava con la mano protesa e l’aria di chi dice: non stai forse dimenticando qualcosa?

A casa c’era la causa di ogni suo problema: la bestia. Pranzare, cenare, condividere la propria vita con la persona che le aveva causato quei danni psicologici non era una cosa da niente. Non poteva che ricordarlo mentre faceva irruzione nel magazzino dove l’operaio di colore stava consumando lo stupro: la sua indifferenza, gli ordini di sbrigarsi a svolgere le “semplici faccende” il cubo, la musica a tutto volume, le botte nello studio, il sangue, il vecchio tedesco con cui parlava di lei e del suo corpo mercificato.

“Presto sarai di Hoffmann e non ti opporrai” era solito dire durante una delle tante liti scoppiate per un nonnulla. Poi aggiungeva: “Ovviamente appena il tuo bel visino tornerà a essere splendido e lucente!”

Effettivamente in volto aveva ancora lividi evidenti, l’occhio pesto, lo zigomo arrossato e la guancia gonfia.

Quel pomeriggio si rannicchiò sul letto e tirò a sé le ginocchia, stringendole al petto. Si girò dalla parte sinistra e, una volta incrociato lo sguardo della madre, s’impietrì. La donna era stata fotografata molti anni prima di quel pomeriggio malinconico e, ogni volta che Jane incastrava gli occhi nei suoi, assaporava la struggente sensazione di essere in balia di angeli e demoni in eterna lotta tra loro, senza nessun arbitro che decretasse una vittoria, un pareggio, una sconfitta.

* * *

Quella mattina, quando Jane aprì gli occhi, già sapeva che sarebbe stata una pessima giornata; una data del genere doveva essere festeggiata felicemente in famiglia, con la voglia irrefrenabile di aprire i regali che tuttavia avrebbe dovuto essere controllata fino allo scoccare della mezzanotte, così da farlo tutti insieme, intorno a un grande tavolo pieno di dolci. Si sarebbe dovuta respirare un’aria speciale, la si doveva vivere con il sorriso. Quando si svegliò poté solo accorgersi che in casa non c’era nessuno. Non sapeva dove fossero andati fino a che lesse il biglietto scritto frettolosamente dal padre: ‘Torniamo il 26’.

Non c’era nessun motivo per cui rimanere stupiti. Era il minimo che potevano fare. Dentro sentì solo aumentare il gelo che copriva il suo cuore; ancora con il bigliettino in mano non poté far a meno di fissarlo e accertarsi di aver letto bene. Non c’era nessun dubbio, la calligrafia parlava chiaro: quel giorno sarebbe rimasta da sola.

Immersa completamente nella vasca da bagno piena d’acqua bollente, cercò di rilassarsi e pensare sempre meno a tutti quei problemi.

Jane trascorse tutta la giornata a ripassare capitoli che aveva imparato già alla perfezione. Non sapeva che altro fare visto che, di solito, la Vigilia di Natale, non si ripete assiduamente l’etica di Platone. Invece, quell’anno, andò così: invece di telefonare ai parenti per augurargli buone feste, spiegava a voce alta ogni passaggio e ogni concetto proprio con la scioltezza che avrebbero avuto due amiche nel parlare di shopping. Amiche. Quel giorno lo avrebbe dovuto passare a casa di qualcuno che le voleva bene, che la considerava più che la secchiona di turno. Si era arresa davanti a quel fatto: la sua bravura le si rivoltava contro ogni volta. Non l’avrebbe chiamata nessuno per farsi una passeggiata per le strade di una meravigliosa Seattle addobbata di luminarie natalizie. Dalla finestra della sua camera vedeva brillare la città come un gioiellino nella più lussuosa delle collane.

L’ora di cena era passata da un pezzo, aveva mangiato solo un po’ d’insalata. Fuori iniziò a nevicare.

Il grande orologio in soggiorno la avvertiva che mancavano dieci minuti a mezzanotte. Corse in camera sua, prese dall’armadio un grande piumone, una coperta, un cuscino e la fotografia. Tornò di nuovo in soggiorno, stese il piumone ai piedi del grande albero di Natale che aveva fatto la colf qualche giorno prima, ci si distese sopra poggiando la testa sul cuscino e si infilò sotto la coperta. Tra le mani aveva la fotografia della madre.

Mancavano cinque minuti a mezzanotte.

Con la manica del pigiama lucidò accuratamente la foto per osservare meglio il soggetto; quel soggetto ormai che sognava la notte, desiderava di giorno e si immaginava di continuo. Quel soggetto che sapeva che non avrebbe mai conosciuto. Quel soggetto che diventò tutto a un tratto appannato a causa delle lacrime che prendevano il pieno controllo degli occhi di Jane. Lacrime che non perdonavano, ma scendevano, inesorabili, per urlare una realtà troppo dura ma vera come il suo senso d’infelicità, della voglia che aveva di scappare da tutto e vera quanto la voglia di avere sua madre vicino, in quel momento.

Mancava un minuto a mezzanotte.

Jane si addormentò sotto l’albero pieno di luci colorate con l’immagine nella mente di lei e sua madre abbracciate.

Era mezzanotte.

Il mondo finalmente scartava i regali tanto attesi.

* * *

Più che l’essere rimasta a casa da sola, in ore che avrebbero dovuto essere spensierate ed esenti da qualsiasi problema legato alla solitudine, a rattristare Jane erano le scene che si svolgevano sotto casa sua, nel parco che, oltre a essere il più grande della città, era considerato anche il più bello.

Passò parte del pomeriggio in piedi, con una tazza di cioccolato bollente tra le mani infreddolite e con gli occhi che scrutavano varie zone del parco come avrebbe fatto qualcuno troppo curioso con un binocolo dalla sua camera, con le due lenti nascoste tra le pieghe della tenda per non essere scoperto.

Nessun film, nessuna rimpatriata a casa di amici e parenti per passare insieme il pomeriggio o fare una qualsiasi cosa divertente.

In quel momento un bambino cadde violentemente a terra durante una partita a calcio e Jane ebbe un sussulto.

Spostò gli occhi poi su un altro gruppetto di bambini che giocava a quello che sembrava essere il classico guardie e ladri: ce n’era uno tra questi che teneva un cappello da sceriffo in testa e teneva in mano un ciocco di legno un po’ arcuato in avanti come fosse una pistola. Si aggirava per le viuzze del parco con fare vigile e diffidente, passi decisi e felpati, lanciava occhiate veloci e fuggevoli in ogni angolo pronto a scovare i suoi coetanei, improvvisamente trasformati in famosi ladri pericolosi per l’umanità. Il bambino si infiltrava tra gruppi di mamme, tra gli altri bambini che non erano stati inclusi nella missione, si arrampicava sulle giostre e li cercava all’interno degli scivoli a tubo, magari qualcuno si era nascosto lì dentro e non sarebbe uscito fino a rimanere l’ultimo ladro in circolazione, vincendo così il turno. Quando poi qualcuno usciva allo scoperto, il bambino poliziotto lo rincorreva a perdifiato puntandogli la fantomatica pistola e fingendo di sparare colpi a raffica, necessari per bloccare la corsa fuggiasca del nemico. L’altro bambino però, il piccolo ladruncolo, fu così rapido nel correre che fu il più veloce tra i due a raggiungere la base scelta o come zona d’arrivo per il poliziotto che aveva arrestato il ladro o come meta da raggiungere dai ladri per essere immuni alla giustizia.

Un altro gruppo di bambine giocava con alcune bambole e questo le ricordò che non aveva mai partecipato a un divertimento simile.

Andare avanti con quel vuoto incolmabile dentro che si portava ormai da anni rappresentava la sua guerra più dura. Non aveva conosciuto le emozioni più semplici, non aveva acquisito la mente di una ragazza cresciuta, maturata, ma aveva una specie di grande rimpianto che voleva in ogni modo, senza riuscirci, far sparire cancellando di conseguenza alcuni tratti, più tristi che dolorosi, della sua infanzia ormai perduta.

Spingersi oltre fino a sfiorare il pensiero di ricevere un gesto di affetto era una specie di visione irraggiungibile, una fantasia malata, un’immaginazione drogata. Da che aveva memoria, Jane non ricordava nessun gesto di affetto nei suoi confronti da parte della bestia. I rari discorsi che si consumavano a pranzo o a cena non andavano spaziando in certe tematiche interessanti che avrebbero potuto raccogliere le osservazioni di tutti, confrontandole, elogiandole, criticandole, così come non venivano mai trattate certe problematiche che potevano andare dalla giornata al liceo, fino a parlare di qualcosa di più intimo, addirittura.

Non aveva capacità di relazionarsi all’interno di qualsiasi gruppo e non aveva il cuore pieno di motivi per vivere, per andare avanti, per reagire e combattere: si batteva semplicemente per cause naturali.

Del cuore sapeva che nell’arco di ventiquattro ore ci passavano quattromila litri di sangue, che in settant’anni di vita, in media, un cuore si contraeva e si rilassava due miliardi e mezzo di volte pompando cinque litri di sangue attraverso circa novantasei mila chilometri di vasi sanguigni, ma non sapeva cosa fosse un tuffo al cuore; poteva spiegare nei minimi dettagli medici un infarto, dato che lo aveva approfondito a seguito di alcune ricerche, ma non aveva mai avvertito il batticuore davanti a una persona di cui era innamorata.

Non sapeva che quell’organo così complesso quanto indispensabile potesse contenere infinite emozioni e che, oltre a tenerci vivi, avesse anche il potere di essere la cassaforte più sicura del mondo, impossibile da violare: ci si potevano riporre ricordi indimenticabili, frasi e parole pronunciate da certe persone, gioie conquistate, l’immagine del primo bacio, la prima volta che ci siamo spogliati davanti a qualcuno che amavamo. Jane Madison non aveva mai usato quel muscolo involontario per amare, aveva imparato a usare solo la fredda ragione che, con le sue indiscutibili risposte, riusciva a risolvere brillantemente ogni tipo di problema. Il cervello riusciva a rassicurarla, a tenerla al sicuro grazie alle teorie, ai ragionamenti, a un’indistruttibile logica che spesso non aveva solide basi, ma serviva giusto per una serenità mentale forte abbastanza da farle accantonare la tristezza gridata dal cuore. Per ogni domanda che si poneva aveva trovato risposte che, fino a quel periodo, le erano sempre andate bene, ma crescendo le cose stavano cambiando repentinamente e non era più tanto semplice accontentare l’organo che, fino ad allora, era rimasto puramente anatomico.

* * *

Aprire gli occhi quella mattina sarebbe stato completamente diverso dalle altre volte.

Jane rimase qualche minuto sdraiata nel letto con un gran vortice di pensieri che le turbinò a gran velocità, senza sosta.

Ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina prima di iniziare la giornata, aveva l’abitudine, o meglio, l’estrema necessità di incrociare lo sguardo di sua madre che era stata immortalata in quella che pareva una delle sue migliori espressioni. Era la stessa fotografia che, il giorno della vigilia di Natale, tenne stretta al petto, come se avesse voluto abbracciarla davvero.

Quella mattina, come se lo sguardo della madre avesse avuto lo strabiliante potere di leggere qualsiasi segreto della figlia attraverso il consueto e abitudinario sguardo mattutino, la ragazza decise di fare un’eccezione, la sola della sua vita, e non fissare a lungo gli occhi che all’improvviso sembravano cambiati: parevano strillare di non realizzare nella maniera più assoluta l’unico e ultimo programma della giornata.

Per non sentire più l’incombente pesantezza di quell’impressione, Jane si alzò di scatto dal letto e si fiondò in bagno per farsi una doccia. Con lo scrosciare dell’acqua che puntò al centro della sua schiena, nel premere il flacone del bagnoschiuma, si accorse che la mano che ne avrebbe dovuto ricevere il contenuto per poi spalmarlo velocemente sul corpo stava tremando.

Una volta pronta si diresse verso il ripostiglio in cui Jolie era solita tenere tutti gli attrezzi che le servivano per la pulizia della casa.

Accese la luce, si accucciò fino a raggiungere, di fianco alla lunga scarpiera, la cassetta di acciaio nella quale Gary aveva riposto decine di cacciaviti, un trapano, centinaia di chiodi. La ragazza frugò tra i vari scompartimenti della cassetta e trovò quello che stava cercando.

Infilò l’oggetto in tasca e uscì di casa senza prendere le chiavi: non sarebbero servite.

* * *

Il parco era semideserto ma, se avesse aspettato anche solo un’altra ora, lo avrebbe visto popolato da decine di bambini che, correndo a destra e sinistra, le avrebbero fatto saltare il piano, o meglio, la soluzione finale.

Jane si addentrò nel cuore del parco cercando il luogo più isolato, per avere la certezza che nessuno l’avrebbe vista, così, nel giro di pochissimi minuti, raggiunse l’angolo più remoto.

Come sotto la doccia, anche in quel momento le mani presero a tremare, soprattutto la destra, quella che avrebbe dovuto operare con una lucidità e una freddezza impeccabili.

Era arrivato il momento.

Tutti quei giorni bui, in fila, come peccatori nella più vergognosa delle processioni, le si erano presentati alla mente e le stavano dando la forza necessaria per compiere l’ultimo atto, la grande uscita dalla scena miserevole e insopportabile che viveva da sempre. Diede un ultimo sguardo in giro, posò gli occhi sulla strada trafficata, su alcuni passanti che sfrecciavano sulle strisce pedonali, poi portò lo sguardo all’interno del parco e vide gli alberi, le foglie. Era quel blocco immenso nel petto che non le consentiva di apprezzare la bellezza di ciò che la circondava, così come gli occhi spenti, il cervello attanagliato da una routine durata anni, lo spirito atterrito, la vergogna e l’umiliazione che avevano preso il totale controllo della coscienza e del rispetto che aveva di se stessa.

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