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Le Regole Del Paradiso
âAlzati, pezzo di merda!â gridò il bullo mentre pensava a cosa avrebbe potuto fare per rendere unico il suo spettacolo. Tim ancora era a terra.
âNon... non respiro... smettila ti prego!â supplicò affannosamente mentre cercava almeno di mettersi in ginocchio. Tossiva e schizzi di sangue coloravano il pavimento.
âChe cosa cazzo sentono le mie orecchie? Era un comando o sbaglio?â disse mentre gli sferrava un pugno dietro la schiena. La faccia di Tim era incollata al pavimento.
Jane rimase immobile e fissava senza parole Adrian; non riusciva a capire perché quel senso di inadeguatezza verso la vita riuscisse a trasformare un semplice ragazzo in una furia che si scatenava contro uno degli studenti più calmi e intelligenti. Rimasta impietrita con i pensieri congelati su quelle domande senza risposta, Jane pregò per Hallen: pregò vivamente che non morisse.
A un certo punto qualcuno si accorse che lui stava per intervenire: la persona che mai nessuno si sarebbe augurato di far arrabbiare, uno dei criminali più giovani del quartiere e, senza ombra di dubbio, il più violento: Steven Taylor. Arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, occasionale traffico di armi, era conosciuto per le atroci gesta grazie a cui si era guadagnato il primo posto tra tutti i teppisti e i bulli della zona. Occhi scavati, denti stretti, sguardo pesante, quasi due metri di altezza per 120 chili di peso, braccia massacrate da cicatrici e niente da perdere.
Non appena si avvicinò alla cerchia di persone, alcuni ragazzi si spostarono per farlo passare.
Quando Steven entrò nel ring improvvisato dai due ragazzi, Adrian lo guardò con stupore rendendosi conto che aveva conciato per le feste il secchione di turno convincendosi che non câera nulla da temere e che il boss si sarebbe complimentato. Sarebbero diventati amici o magari, proprio se si voleva fantasticare, Steven avrebbe iniziato a temerlo sul serio, vista la violenza con cui aveva massacrato di botte Tim.
âCiao, Steven!â disse il bullo facendogli un cenno con la mano.
âAdesso ci penso ioâ avvertì lui. Dopo quelle parole, si ruppe il silenzio che si era creato e non câera una singola persona che non urlasse o che non fosse fuori di sé: finalmente lo avrebbero visto allâopera.
Jane si mise le mani nei capelli, esterrefatta e preoccupatissima per Tim. Era sicura che, con lâintervento di Steven, la sua fine sarebbe stata assicurata.
Le persone intente a godersi lo spettacolo sembravano moltiplicarsi senza sosta. Nessuno badava alla campanella, che suonò per la seconda volta avvertendo tutti che era arrivato il momento di tornare nelle aule perché stava succedendo qualcosa di irripetibile: neppure Jane, bloccata dalla paura e dalla preoccupazione, si accorse che il break mattutino era terminato e che le lezioni stavano per riprendere.
âTe lo lascio con piacere questo stronzetto!â gridò entusiasta.
Steven si avvicinò a Tim mentre alcuni ragazzi erano in delirio. A un certo punto si accovacciò, girò il ragazzo facendogli assumere una posizione supina e, con la mano sinistra, cercò di alzargli un poâ la testa mentre con la destra iniziò a schiaffeggiarlo delicatamente per svegliarlo dallo stato di semincoscienza.
âChe⦠Che succedeâ¦â disse finalmente Tim aprendo con fatica gli occhi.
Quando si ritrovò Steven davanti constatò che sarebbe stato meglio rimanere a terra a perdere sangue fino a morire del tutto.
âIoâ¦â gli mancava la fatica anche per giustificarsi.
âNon parlare, hai preso botte ovunque e devi andare immediatamente in ospedaleâ sentenziò Steven. Alzò la testa e si rivolse a una ragazza con i capelli verdi.
âRazza di imbecille, chiama immediatamente unâambulanzaâ ordinò. La ragazza interruppe il video che stava facendo e obbedì allâistante.
Steven si rivolse a un altro ragazzo e gli disse di togliersi la felpa e lanciargliela per metterla dietro la testa di Tim, come fosse un cuscino.
Nessuno urlava più. Nessuno stava capendo. Quello era davvero Steven Taylor?
Lâenergumeno si alzò lasciando Tim e si girò con uno sguardo assassino verso Adrian.
âLo sai quando divento veramente cattivo?â tuonò lui avvicinandosi.
Adrian pregò di morire, ma il suo desiderio non venne esaudito.
âIo nonâ¦â ogni risposta sarebbe stata infinitamente inutile.
âLa violenza, quella vera, si usa contro quelli che fanno violenza gratuitaâ sussurrò Steven, come se nessuno dovesse sentire.
Allargò le palpebre fino a rendere chiaramente visibile il colore bianco che faceva da sfondo ai suoi occhi scuri.
âPagherai per essere stato violento contro chi non ti aveva fatto niente e a fartela pagare sarò io stessoâ dichiarò Steven.
Il bullo cercò di fuggire, ma Steven gli corse dietro fino a raggiungerlo. Con un solo pugno sul cranio riuscì ad atterrarlo e, non appena lo vide sul pavimento, ci si buttò sopra con tutto il peso iniziando a strozzarlo; rese la sua stretta così forte da non far respirare più Adrian, il quale cercava di dimenarsi. Poi, come preso da un attacco di follia, Steven gli staccò una mano dal collo e iniziò a prenderlo ripetutamente a pugni ai lati del volto, allâaltezza dei due orecchini. Le urla dei ragazzi si triplicarono e il sangue iniziò a schizzare sulla maglietta del teppista. Lâincontro terminò con una tremenda gomitata che Steven sferrò sul volto del suo avversario. Alcune ragazze scapparono.
Adrian era immobile a terra.
Tim si era ripreso.
Steven aveva fatto giustizia.
Polizia e ambulanza irruppero poco dopo nel liceo.
Jane stava piangendo.
* * *
Alla fine Jane aveva sbirciato e visto la micidiale gomitata che Steven aveva sferrato al bullo di turno. Mentre tornava a casa pensò a quanto sarebbe stato più semplice se ognuno di loro avesse cercato di risolvere i problemi con serenità cercando di chiarire ogni cosa con il dialogo, invece sembrava che fosse la violenza a dover essere utilizzata per regolare i conti. Quando però arrivò davanti al suo cancello, guardò un attimo casa sua e si ricordò che certi problemi erano più grandi di mille soluzioni messe insieme e che a volte sperare era davvero una perdita di tempo. Tutto poteva cambiare, tranne la vita che era costretta a vivere ogni giorno; guardava i bulli e credeva fermamente che sarebbero potuti diventare persone degne di camminare a testa alta, con lo studio e lâimpegno avrebbero raggiunto ottimi risultati. Aveva speranze persino per tipi come Adrian e Steven. Quando invece la figura del padre le si materializzava come un mostro nella mente, crollavano i grattacieli di ottimismo che si creava, ogni forma di illusione rivelava la propria faccia falsa e gridava la realtà : più giù di così non si poteva scendere.
Appena entrata, si fiondò in camera sua e sistemò lo zaino nellâarmadio, si cambiò indossando una tuta grigia e si mise la sua felpa preferita. Passò davanti alla porta dâingresso per andare in cucina quando comparve la colf che adorava e che considerava la sua unica vera amica: Jolie.
âCiao, Jane!â disse lei chiudendosi la porta alle spalle.
âBuonasera, Jolie. Come stai?â domandò lei sorridendole. La colf guardando il salone in disordine ironizzò: âPer ora beneâ.
Jane sorrise, ma sapeva che il lavoro in quella casa era veramente duro. Di solito a regnare era sempre il disordine; Ginger non si scomodava facilmente per sistemare la casa o per lo meno la sua stanza, i panni di Gary o addirittura quelli della figlia. Tanto câè Jolie, diceva.
âSe vuoi ti aiuto volentieriâ si offrì la ragazza. Jolie era piccolina di costituzione, il suo fisico non reggeva grandi sforzi e non poteva certo sottoporsi a fatiche prolungate; purtroppo il suo turno partiva dallâora di pranzo fino allâora di cena. Oltretutto per una misera paga. Jane sapeva molte cose su di lei perché ogni sabato, quando rimanevano sole in casa davanti a un buon film o sedute sul divano a chiacchierare, Jolie si lasciava andare a confidenze intime e si sfogava di tutti i problemi che lâassillavano.
âTi ringrazio Jane, ma tu devi studiare, non perdere tempo qui con me!â esclamò lei.
âHo già fatto, davveroâ.
Jolie sorrise accettando il suo gentile aiuto; le ore del pomeriggio passarono più velocemente rispetto al consueto turno solitario perché mentre si occupavano delle faccende domestiche, le due amiche chiacchieravano del più e del meno, anche se Jane si limitava a rispondere alla grande quantità di cose che Jolie non si stancava di dire o di domandare.
âE così ho deciso di tagliarmi i capelliâ raccontò la colf mentre ricordava il felice periodo degli anni â80.
âPoi mi sono fidanzata con Guillaume e sotto la torre Eiffel mi promise che saremmo stati per sempre insieme, cosa che poi non si rivelò vera. Maledetti uomini. Fatta eccezione per Alexandreâ quando pronunciò il nome del figlio smise un attimo di lavare i piatti e rimase a pensare a qualcosa che Jane intuì subito: se câera ancora un motivo che la legava a quel lavoro, alla misera paga e a quegli sforzi immani era Alexandre. Aveva ormai otto anni e spesso Jolie non riusciva a comprargli i suoi giocattoli preferiti perché doveva usare quasi tutti i soldi che le dava Gary per pagare lâaffitto. La guerra di ogni giorno consisteva nel dover andare avanti con le proprie forze, con pochissimi soldi e con nessun altro tipo di aiuto.
âSpesso quando lo porto al parco con gli altri bambiniâ proseguì, âho paura che mi chieda un gelato, o peggio ancora le bustine di figurine che collezionano i suoi compagniâ disse Jolie con le lacrime agli occhi. Si era lasciata andare tempo prima, ma mai fino a quel punto.
âPasserà questo brutto periodo, ne sono sicura. Abbi fedeâ rispose Jane cercando di farla sentire meglio, ma non funzionò.
âIeriâ¦â a Jolie morirono le parole in gola. Fece un bel respiro e guardò negli occhi Jane.
âIeri mi ha chiesto perché solo lui in classe ha i libri fotocopiatiâ strinse i denti.
âI libri fotocopiatiâ¦â ripeté. La colf si asciugò gli occhi lucidi e sorrise.
âOra basta con i pensieri tristi però, parliamo di cose belle!â disse alzando un poâ il tono della voce. âCosa vogliamo mangiarci questa sera?â
Jane capì che era decisamente meglio cambiare discorso.
âNon lo so, ma qualsiasi cosa andrà bene!â rispose imitando il suo tono.
Finito il pomeriggio di pulizie, apparecchiarono e per cena decisero di mangiare carne di manzo ben cotta e patatine fritte.
âQuesto non farà bene al nostro fegatoâ scherzò Jane guardando il suo piatto pieno di roba.
âStasera non badiamo a nessuna dietaâ informò Jolie non appena mangiò la prima patatina. Il discorso che venne affrontato fu senzâaltro più leggero e più facile da gestire rispetto a quello preso di petto poco prima. Quando Jane si trovava con Jolie le sembrava tutto diverso; la bestia di sabato non câera mai e questo significava che potevano godersi la serata, chiacchierare dopo aver cenato, guardarsi un film per poi andare a dormire anche se era più tardi del solito. Con Gary non era possibile rimanere in una stanza con la luce accesa una volta scoccate le ventitré: persino Cenerentola aveva a disposizione unâora in più nella quale fare baldoria.
Il film era appena finito e quando Jane stava per alzarsi dal divano si accorse che Jolie aveva poggiato la testa sul bracciolo e stava dormendo mentre la luce del televisore, che in quel momento proiettava stupide pubblicità , le inondava il volto: finalmente poteva agire indisturbata. Sorridendo prese la piccola radiosveglia che stava su una delle mensole del salone e la impostò perché suonasse un quarto dâora dopo. Andò in camera sua e, allâultimo piano, iniziò a cercare tutti i suoi vecchi libri di scuola; ce nâera uno di geografia, un altro di aritmetica, un altro ancora di scienze. Si munì di una busta e ci mise dentro i volumi scolastici che portò giù in cucina. Sul foglietto bianco disegnò una freccia, lo girò dallâaltra parte e scrisse: âQuesti sono per Alexandre, un mio piccolo regaloâ.
Tornò in salone e coprì Jolie senza svegliarla; infine prese la radiosveglia e la mise accanto al foglietto in maniera tale che Jolie avrebbe visto il messaggio. Sapeva che non avrebbe frainteso quel gesto e sapeva anche che il suo aiuto le avrebbe fatto piacere; sperava che in questo modo la loro amicizia sarebbe stata più forte e immaginava anche che Jolie sarebbe stata contentissima di poter portare i libri al figlio. Libri veri.
* * *
Jane uscì dal liceo pensando a come poteva essere andato il test di matematica. Cercò di ripercorrere tutti i passaggi che aveva fatto e i risultati che erano usciti alla fine degli esercizi e non le sembrò di aver commesso gravi errori. Si sforzò di focalizzare lâattenzione sul terzo esercizio, quello più difficile, ma non fece in tempo a terminare la sua analisi che Ashley le sbarrò la strada; le braccia conserte e lâaria infuriata fecero capire a Jane che ce lâaveva con lei: il sangue divenne lava.
Cercò di evitarla, ma si era già capito cosa stava per succedere. Ashley avanzò impaziente verso di lei.
âAllora brutta troia, cosa hai da dire a tua discolpa?â la voce era troppo calma, troppo sicura. I suoi occhi flagellavano quelli della povera ragazza. Dentro, quella lava, diventava sempre più densa e incandescente.
âAshley, non è stata colpa miaâ disse Jane con un filo di voce.
Durante il test, dopo vari tentativi della reginetta di chiedere a Jane i risultati degli esercizi, la professoressa Fitcher aveva spostato di banco Ashley allontanandola dallâunica persona che lâavrebbe potuta aiutare.
âNon mi hai aiutata quando te lâho chiesto, la devi pagare!â
Lâultima parola della frase fu pronunciata talmente forte che riuscì a rapire lâattenzione di molti ragazzi. Si formò il solito cerchio. Stessa scena, stesse facce.
âMa era senza voto, e poi io....â non ci fu il tempo materiale per finire la frase. Partì uno schiaffo talmente forte che la faccia di Jane si girò di scatto verso destra a una velocità incredibile. Gli studenti intorno esultarono gridando come forsennati. La ragazza più sexy in azione mentre ne dava di santa ragione alla più secchiona dellâistituto.
Jane, a testa bassa, mise la sua mano sulla guancia colpita come per ridurre il dolore.
âQuesto è solo lâinizioâ gridò Ashley con tutto il fiato che aveva in gola. Le sue amiche, appena capirono che con Jane avrebbero vinto di sicuro, decisero di aiutarla immobilizzando la sua avversaria. Ashley le si avvicinò e iniziò a schiaffeggiarla ripetutamente. Era esagerata la violenza che metteva in quei colpi. Le amiche che la tenevano non potevano non ridere. Dagli schiaffi e dai pugni, Ashley passò ai calci. Gliene diede uno in pancia talmente forte che Jane cadde a terra liberandosi dalla stretta delle ragazze. Nessuno interveniva. Jane era a terra intimorita. Sentiva dolore ovunque. Ashley si avvicinò e le assestò lâultimo calcio su una gamba, poi le sputò addosso.
âSei una perdente!â
Si sistemò i capelli scompigliati e si allontanò con le amiche.
Jane rimase qualche minuto sullâasfalto dolorante e sola.
* * *
Era passata una settimana da quel traumatico scontro fuori dalla scuola.
Per sette giorni Jane rimase a letto con dolori acuti e martellanti che partivano dalla pancia fino ad arrivarle in testa e nonostante le condizioni della figlia, il signor Gary non se ne preoccupò più di tanto: era sempre fuori casa e durante quei giorni non degnò Jane di un minimo di attenzione. Stranamente però, quella sera, il capofamiglia si accorse di qualcosa.
âChe cazzo hai fatto allâocchio destro?â lei abbassò lo sguardo verso la minestra fumante davanti a sé. Non aveva il coraggio di dirgli la verità .
âSono cadutaâ rispose.
Il signor Gary, non appena sentì quella bugia, assestò un colpo fortissimo al tavolo facendo fuoriuscire qualche goccia di minestra dai piatti.
Ginger mangiava tranquillamente, come se fosse una normalissima chiacchierata tra padre e figlia.
âAscoltami brutta troiettaâ disse lui con voce calma e fredda, âa me non devi raccontare le stronzate, quello è un pugno e se te lo hanno dato significa che te le sei meritatoâ.
Era inutile ribattere o cercare il modo di farlo ragionare. Era pazzo.
Jane se ne rimase lì, a testa bassa, con le sue âcolpeâ e la sua ingiusta sgridata giornaliera. Lei non poteva mettersi contro il padrone di casa, il padrone della sua vita e della sua libertà ; ogni sua decisione era legge, ogni suo ordine non poteva essere discusso in alcun modo. Quando Gary assumeva atteggiamenti fortemente aggressivi, Jane si ripeteva in continuazione che quellâagitazione, quella rabbia che sembrava non finire mai e quella cattiveria, erano i risultati della morte di sua madre; non avendo più una moglie amorevole, servizievole e meravigliosa come lo era sempre stata lei, la bestia, secondo Jane, avrebbe perso completamente il lume della ragione, cercando quindi di crearsi un personaggio cattivo e temibile solo per farsi scudo davanti al mondo che lo guardava con aria di sfida, come se tutti lo volessero mettere sotto esame, per valutare giorno dopo giorno la sua resistenza ad una quotidianità difficile da vivere. Forse riusciva anche a capirlo; doveva essere dura scivolare tra le lenzuola di un letto vuoto e addormentarsi senza tenere la mano di nessuno, senza abbracciare la propria donna. Jane, prima che arrivasse Ginger, notava che la solitudine di Gary era presente in ogni momento della sua giornata. Ogni volta che veniva sgridata, senza farsi notare, cercava di annullare le sue parole e abbassare al minimo il volume dei suoi insulti e delle parolacce che avrebbe voluto lanciargli contro per concentrarsi solo nella lettura dei suoi occhi e cercare di capirne tutti i segreti. In tutti i modi affondava per brevi attimi il suo sguardo nel suo, ma quello che riusciva a vedere non era altro che la costituzione dellâocchio umano che conosceva già alla perfezione: la superficie esterna dellâocchio formata per il 93% dalla sclera, lâiride, la membrana vascolare, la pupilla, la quale permetteva alla bestia, come a qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra esente da tutti i tipi di malattie allâapparato visivo, di vedere grazie allâentrata della luce che essa lasciava passare allâinterno del bulbo oculare. Si sarebbe dilatata in assenza di luce e si sarebbe ristretta se la luce fosse stata troppa: sapeva benissimo che quel processo si chiamava miosi e sapeva altre cose, altri nomi tecnici, altre informazioni, sapeva tutto tranne che leggere con lâanima queglâocchi così interessanti. Cercava in ogni modo di chiamare con un nome specifico quella strana luce che le veniva mentre la sgridava, ma proprio non ci riusciva: voleva aggettivare il processo di metamorfosi che subiva il suo volto quando iniziava a sbraitare, ma non era capace; non sapeva neppure se lui fosse in grado di assumere altre espressioni facciali, come la più semplice che la natura avesse mai potuto inventare, ma anche la più complessa e difficile da compiere per lâuomo: il sorriso.
Era per questo che cercava di giustificare i suoi atteggiamenti isterici, dai modi bruschi che aveva di trattarla, anche se poi, per come si comportava, di giustificazioni proprio non ce nâerano.
* * *
Jane indossò un pesante cappotto, il cappello e i guanti di lana. Mentre raggiungeva la scuola, pensava che avrebbe preferito unâimminente disgrazia piuttosto che un altro incontro con Ashley; quando arrivò davanti al liceo la sua mente le proiettò i terribili attimi che le aveva fatto passare la reginetta della scuola insieme alle sue amiche. Sperava con tutta se stessa di non incontrarla mai più, sperava che si fosse trasferita per sempre in unâaltra città , ma sapeva benissimo che le sue speranze infondate non sarebbero mai potute diventare realtà , così sperò solo nella sua assenza. Le faceva male ancora la parte destra del torace e se quella mattina Ashley lâavesse picchiata di nuovo, sarebbero arrivati altri dolori atroci da sopportare.
Non appena la campanella suonò, Jane varcò la soglia dellâaula, intenzionata a mettersi subito seduta al suo posto per ripassare, sfuggendo così al possibile incontro con Ashley, ma con sua grande sorpresa, appena entrata nellâaula, trovò lâultima persona che avrebbe voluto vedere seduta al suo banco, allâultima fila. Fu presa da una morsa di paura e non riuscì a pensare a cosa fare, a cosa dirle.
Ashley rimase ancora alcuni attimi al posto di Jane.
âHai cambiato il modo di truccarti?â disse guardandole lâocchio ancora un poâ violaceo. âO è la nuova moda delle puttane come te?â socchiuse gli occhi, come per osservare ogni reazione della sua vittima. Non voleva perdersi neanche un attimo del terrore che Jane stava provando.
La classe era ancora vuota e i fasci di luce che entravano dalla finestra erano gli unici spettatori di quella conversazione.
âAscoltami bene, te lo dirò con molta calma perché non ho nessuna voglia di alterarmiâ¦â iniziò lei alzando il dito in aria.
Jane si sentì fortunata: qualsiasi cosa stesse dicendo, non sarebbe ricorsa alla violenza.
âSperando che tu abbia capito la mia superiorità rispetto a te che non vali assolutamente niente, mi sembra giusto che tu abbia degli obblighi nei miei confrontiâ continuò Ashley.
âNon credo diâ¦â
âNon fiatare. Non devi parlare con me. Mi dovrai portare sempre dei soldi, questo deve essere chiaro e devi ficcarti nel cervello che non dovrai mai saltare un giorno. Se avessi voglia di non venire a scuola per chissà quale cazzo di motivo, tu sei obbligata a venire lo stesso a darmi i soldi che mi devi e andartene di nuovo da dove sei venuta. Câè qualcosa che devo ripetere o hai afferrato il concetto?â domandò retoricamente.
Jane rimase sconcertata di fronte a quelle parole e non riuscì a controbattere. Moriva dalla voglia di darle uno schiaffo in piena faccia, ma il suo corpo risultava immobile come una statua di bronzo.
âQuanto hai dietro?â domandò di punto in bianco la reginetta. Jane mise una mano in tasca e tirò fuori tremante il suo portafogli.
âDue dollariâ rispose con voce incerta.
âNon ci credo! Hai una villa, tuo padre è pieno di soldi e giri con due miseri dollari?â
âNon ho altroâ¦â
âSei pateticaâ rispose Ashley strappandole dalle mani le due banconote da un dollaro ciascuna.
âSpero che domani non farai la stessa figuracciaâ.
Dopo le minacce, Ashley le diede un colpo sulle costole: Jane si piegò in avanti e strinse i denti per il dolore riuscendo a non gridare; respirava affannosamente e pregò il cielo che tutto finisse con quellâunico colpo.
La reginetta si mise al suo posto e aspettò, come se niente fosse, lâarrivo di Flores.
* * *
Sapeva benissimo che Ashley non scherzava.
Jane si chiese quante persone nel mondo avessero problemi di quel genere; quanti ragazzi si immischiassero in affari loschi, in giri di soldi sporchi e quanti di loro, come lei, dovessero del denaro a qualcuno. Il problema però era che Jane non aveva fatto niente per meritare quella punizione: il suo era un insensato obbligo imposto da una ragazzina prepotente e strafottente che riusciva nel più brillante dei modi a far valere le sue regole alle persone giuste. Jane era unâottima preda. Pur di non avere guai era disposta a subire e Ashley questo lo aveva capito fin dallâinizio.
Appena entrò in casa salì al piano di sopra e meditò sul da farsi: doveva procurarsi ogni giorno un poâ di soldi; aprì con foga il tappo bianco del suo salvadanaio e di colpo volarono in aria solo alcuni spicci. Caddero rumorosamente sulla scrivania bianca e altri a terra; li contò tutti, ma non arrivavano nemmeno a tre dollari. Per un giorno si sarebbe salvata, ma il resto delle volte? Un pensiero le suggerì di provare a parlarci, magari se le avesse detto che il padre non le dava un soldo forse avrebbe capito e annullato la richiesta, ma era naturale che quella sarebbe rimasta una fantasia lontana e irrealizzabile.