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Il Quadriregio
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CAPITOLO XIII

Come l'autore trova una ninfa chiamata Taura, la quale gli rende ragione di molti fenomeni.

        Appena eravamo iti un miglio e mezzo,        ch'io vidi in una valle una donzella        sotto una quercia, che si stava al rezzo.        Io andai a lei e dissi: – O ninfa bella,    5 di qual reame se'? O dolce dama,        deh, fammi cortesia di tua favella,        e dimmi il nome tuo come si chiama.        Cosí soletta senza compagnia        aspetti tu alcun, che forse t'ama? —   10 Ella si volse e riverenzia pria        fece alla dea; e poi cosí rispose        alle parol della domanda mia.        – Del van Cupido saette amorose        giammai sentii; ed egli mi dispiace   15 e suoi costumi e sue caduche cose.        Dall'alto regno, che a Vulcan soggiace,        son io venuta all'ombra a mio diletto,        ché starsi al fresco alle sue ninfe piace.        Se vuoi saper come il mio nome è detto,   20 Taura son chiamata e qui dimoro        a questo orezzo e nullo amante aspetto.        E spesso l'altre ninfe del mio coro        vengono qui e vanno quinci a spasso        con vestimenti e con corone d'oro.   25 Ma tu chi se' e dove movi il passo? —        Ed io risposi: – L'amor m'ha condutto        per questo loco faticoso e lasso.        Chi sono e donde vengo a dirti il tutto        sarebbe lungo: io gusto ora l'amaro,   30 sperando di fatica dolce frutto.        Se la dea assente, io prego, fammi chiaro:        o ninfa bella, volentier domando,        perché io so poco e domandando imparo.        Però, mentr'io sto teco dimorando,   35 dimmi del regno, che Vulcan nutríca        sotto il suo freno e sotto il suo comando.        Il tuo dolce parlare anche mi dica        del loco ov'egli sta, s'egli ti done        che piú dell'altre ninfe a lui sie amica.   4 °Cupido giá del regno di Iunone        assai mi disse con suo parlar breve,        e della grandin disse la cagione        e delle nubi e pioggia e della neve        e delli tuoni, e disse del baleno,   45 ch'anco a' giganti è timoroso e greve.        Ma non mi disse ben espresso e appieno        come si fa la sube e la cometa        e la stella che corre e poi vien meno. —        Allor la ninfa con la vista lieta   50 rispose: – In pria conven che le parole,        le qua' disse Cupido, io ti ripeta.        Ciò, che non scalda il foco ovvero il sole,        conven che da sé venga in gran freddezza,        come natura e filosòfia vuole.   55 Però nell'aer sopra a tanta altezza,        dove non scalda il raggio che 'nsú riede,        e ove il foco non scalda a piú bassezza,        sta 'l regno freddo che Iunon possede:        li duo vapori, acquatico e terrestro,   60 lí si fan nube, sí come si vede.        E 'l vapor terreo e secco è da sé presto        ad accendersi ratto, purché senta        l'umido intorno, a sé opposto e molesto.        Sí come la calcina, che diventa   65 focosa all'acqua e fuor manda il calore,        che prima parea fredda e quasi spenta;        cosí levato 'nsú il doppio vapore,        l'acquatico si stringe e quindi piove,        perché quivi è compresso dal freddore.   70 Il terreo allor si aduna e si commove        dentro alla nube, e quel moto l'accende:        è la fiamma rinchiusa in stretto, dove        con grave tuon la densa nube fende,        e spesse volte la saetta scaccia   75 col balenar, che subito risplende;        il balenar vien subito alla faccia;        ché presto l'occhio può veder la luce,        se opaco o grande spazio non l'impaccia.        Ma 'l tuon, che seco il balenar produce,   80 l'orecchia dalla lunga nol può udire,        se l'aer seco a lui non lo conduce.        E ben che 'l foco sia atto a salire,        niente meno ingiú la nube spande,        che 'l freddo denso insú non lassa ire.   85 Or, se saper tu vuoi quel che domande,        dirò pria della stella, che nel cielo        permuta loco e par correndo ell'ande.        Se 'l vapor terreo passa l'aer gielo,        sottile e secco è ad ardere disposto   90 piú che la stoppa a lume di candelo.        Quand'egli vien lassú, dove sta posto        il regno di Vulcan, l'accende il foco        nel primo capo, e la fiamma tantosto        per lui trascorre e non a poco a poco,   95 ma ratto e presto; e la fiamma corrente        pare una stella che tramuti loco.        E fa un fregio sú chiaro e lucente        per la via che trascorre, ed in un tratto        poscia vien meno e non appar niente.  100 E se 'l vapor è di materia fatto        che sia grossa e viscosa e sulfuresca,        non atta a consumarsi molto ratto,        quando ha passata la contrada fresca,        va su infin che l'aer caldo trova,  105 e lá s'accende come a fiamma l'ésca.        E pare un trave acceso che si mova:        questo è la sube, e spesso ha la figura        o di colonna o di altra cosa nova.        E se 'l vapor, che 'l sol lieva in altura,  110 è grosso e secco e molto denso e spesso        e di materia a consumarsi dura,        quando egli giunge sú al foco appresso,        s'accende quella parte che 'n pria monta,        e quella fiamma scende giú per esso  115 in quella parte che non è ancor gionta,        ma sta giú verso l'aere distesa        lunga e nelle sue parti ben congionta.        Allor la parte ch'è nel foco accesa,        pare una stella, e l'altra la sua chioma,  120 cioè la parte nell'aer distesa.        E però questa «cometa» si noma,        quasi «comata», e chi ben questo mira,        dato fu a lei il suo proprio idioma.        Se saper vuoi perché il sol non tira  125 piú 'nsú 'l detto vapor, poiché è focoso,        ma secondando il primo moto gira,        sappi che ogni cosa ha 'l suo riposo        nel proprio loco, come hai giá udito,        e, se si parte quindi, va a ritroso.  130 E però quel vapor, quando è ignito,        sta dentro fermo presso a quella spera,la quale è d'ogni lieve il proprio sito.        E sappi ancor che tanto la lumiera        dura della cometa e tanto è vista,  135 quanto dura il vapor e sua matèra;        ché mai la fiamma può veder la vista        o la luce del foco per se sola,        s'ella non è con altro corpo mista. —        Tacette poscia dopo esta parola;  140 ond'io a lei risposi: – Ammiro alquanto        come s'accende il vapor che 'nsú vola.        Ed anco ammiro come può esser tanto,        che se ne faccia vento e pioggia ancora        e l'altre cose dette nel tuo canto. —  145 Sub brevitá questo rispose allora:        – Pensa del cibo dentro al corpo umano,        quando è indigesto e quando egli evapóra:        il qual, quando è cacciato fuor dell'ano,        s'infiammeria come trita vernice,  150 se si scontrasse in acceso vulcano.        Cosí il vapor, che sú 'l mio canto dice,        s'infiamma giunto nell'aere acceso        e d'ogni impressione è la radice. —        Cupido, quando a questo io stava atteso,  155 venía per l'aere quasi uccel veloce        colle saette in mano e l'arco teso.        – O Taura – chiamò ad alta voce, —        tu proverai che piú 'l mio foco infiamma        che quel del tuo Vulcano, e che piú coce.  160 Ei l'ha provato, e sallo la mia mamma. —        Cosí dicendo, un colpo tal gli porse        col dardo acceso di sacrata fiamma,        che trapassolla e insino a me trascorse;        e tanto m'infiammò quella saetta,  165 ch'io grida' aiuto, e l'Amor non soccorse.        Taura bella, di dolor costretta,        gridò al ciel: – Vulcano, ora m'aita,        e del crudele Amor fammi vendetta. —E, detto questo, cadé tramortita.

CAPITOLO XIV

Come Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego di Venere Giove discese dal cielo e pose pace fra loro.

        Parve che quella voce andasse al cielo,        ché venne con un tuon un gran baleno        a lei sopra la faccia e 'l petto anelo.        E nel dir «miserere» ed anche in meno    5 l'aere si turbò e féssi fosco,        il quale pria era chiaro e sereno.        E ben mille ciclopi fuor d'un bosco        io vidi uscir e fuor delli gran monti,        alti, che tanto abeti io non conosco.   10 Questi hanno sol un occhio in le lor fronti,        fabbri di Iove e duri nelle braccia,        crudel, nelle battaglie arditi e pronti.        Poi tra le nubi con irata faccia        e con tempesta apparve il gran Vulcano   15 co' tuon, co' quali a' giganti minaccia.        E tre saette avea nella sua mano;        cosí discese giú con sí gran grido,        ch'egli facea tremar tutto quel piano.        – Dov'è – dicea, – dov'è 'l crudel Cupido?   20 Dove se' ito, traditor bugiardo?        Vieni, ché alla battaglia io ti disfido.        Ahi, gran prodezze mostrarsi gagliardo        contra una ninfa, a cu' il petto hai ferito        sí crudelmente col tuo crudo dardo!   25 Ma, se tu se' sí grande e sí ardito,        perché non vieni, o nato d'adultèro,        in campo alla battaglia, ov'io t'invito? —        Cupido, in questo, superbo ed altèro        vidi venir volando, e mai uccello   30 corse alla preda sí ratto e leggero.        Ed a Vulcan: – Ritorna a Mongibello,        sciancato, storto e dal ciel messo in bando:        ritorna alla fucina ed al martello.        Il dardo orato mio, il qual io mando,   35 tu proverai; e, se ti giunge addosso,        tu griderai a me: – Mercé domando. —        Poi scoccò 'l dardo, ed arebbel percosso,        se non ch'e' si gittò alla supina:        per questo il colpo andò da lui rimosso.   40 Su ratto si levò e con ruina        il folgore gittò, il qual la spada        corrode e nulla fa alla vagina,        ch'ello è fiamma sottile e fa che vada        dentro alli pori e ciò che non ha poro,   45 cosí disfá, come il sol la rugiada.        Questo di piombo le saette e d'oro        fuse nella faretra, e smunse e róse        ciò che v'avea di metallin lavoro.        Quando Cupido le polse penose   50 volle trar fuor per trarre un'altra volta,        nulla trovò, mentre sú la man pose.        Onde ei, scornato e con furia molta:        – Io ho l'altr'arme – disse – e 'l foco sacro:        quest'arme a me da te mai non fia tolta. —   55 Cosí dicendo, furibondo ed acro        corse in Vulcano e sí gl'incese il mento,        che 'l volto d'ogni barba li fe' macro.        E, di questa vendetta non contento,        col foco s'avventò nelli ciclopi;   60 e, poi che 'l capo incese a piú di cento:        – Tornate alle caverne come topi        – diceva a lor, – tornate, o turba inerte,        o falsi e vili e neri quanto etiòpi. —        Vulcano, in questo, sú a braccia aperte,   65 fuggendo, salse al regno di Iunone,        ove il vapore in saette converte.        Ma dietro a lui, leggier come un falcone,        andò Cupido, e mai corse sí ratto        dall'arco suo scoccato verrettone.   70 E disse a lui: – Vulcan, non verrá fatto        l'avviso tuo: farò che le saette        far non potrai per me a questo tratto. —        Cosí dicendo, tutte nubi umette        'sciuccòe col foco e tanto consumolle,   75 che 'ntorno al caldo l'umido non stette;        ché, quando è consumato l'umor molle,        accendersi non può 'l secco vapore,        sí che Vulcan non fece quel ch'e' volle.        Per questo cominciò con gran rumore   80 a gridar forte, chiamando difese        contra Cupido, stimol dell'amore.        Allora Venus sue braccia distese        al cielo e disse con parol divote        al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:   85 – Guarda il vecchio marito, che non puote        piú difensarsi contro il mio figliuolo:        vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.        Tu sai che, quando il giganteo stuolo        volle pigliar il cielo e discacciarte,   90 piú che null'altro t'aiutò ei solo.        E fece le saette con sua arte:        con quelle, o Iove, tu gettasti a terra        li gran giganti con le membra sparte. —        In men che alcun non apre gli occhi o serra,   95 vidi Iove discender giú 'n quel loco,        ove Cupido a Vulcan facea guerra.        – Cessa – disse al fanciullo – il sacro foco;        Amor, se pensi quanto l'hai feruto,        tu dirai ch'egli è troppo, e non è poco.  100 E s'egli avesse a te ferir voluto,        come potea, nella tua persona,        nullo al suo colpo aver potevi aiuto. —        A questa voce del signor che tona,        cessò il foco Cupido e reverente  105 disse al padrigno: – O padre, a me perdona. —        Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente        che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora        si placa e torna piú leggeramente.        Posta la pace, si partí allora  110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,        de' quali il regno suo in ciel s'onora.        Ma pria la vita a Taura, ed i capelli        rendé a Vulcano, che parea un menno,        ed a Cupido i dardi orati e snelli.  115 Poiché i duo guerreggianti pace fenno,        Vulcan disse all'Amor: – Perché sí rio        ver' me se' stato e con sí poco senno?        Se non che, quando a te saetta' io,        trassi come a figliuol, non a figliastro:  120 tu non scampavi mai dal colpo mio.        E provato averesti ch'io so' il mastro        di saettar e che non si può opporre        a me mai scudo, unguento ovver impiastro.        Io son che getto a terra le gran torre  125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,        quando i giganti vòlsonli 'l ciel tôrre.        Della saetta mia, quando si move,        i grandi effetti e le varie ferite,        nulla è filosofia che le ritrove. —  130 Rise Cupido alle parole udite        e fe' come fa alcun, che par ch'assenta        a quel che non è ver, per non far lite.        E, come aquila fa, quando s'avventa        alla sua preda rapace e feroce,  135 ch'ali non batte, perché non si senta;        cosí ciascuno ingiú venne veloce        alla dea Venus. Benigna l'accolse        e poi a Vulcan proferse questa voce:        – Assai, marito mio, il cor mi dolse,  140 quando tu fulminasti il dolce figlio        e che guastasti le su' orate polse.        Ma piú mi dolse che la barba e 'l ciglio        egli arse a te e che con tanta asprezza        nell'aer su ti pose a tal periglio.  145 Or della doglia io sento gran dolcezza,        da che tra voi è la concordia posta,        la qual prego che duri con fermezza. —        Vulcan non fece a lei altra risposta        se non che con l'Amor volea la pace;  150 ché la sua sposa, che gli stava a costa,        piú 'l riscaldò che 'l foco, ov'egli giace,        e, se non pel figliastro, facea forse        cosa ch'è turpe e con beltá si tace.        Per questo si partí e su ricorse  155 al regno suo; e Taura sua partita        fece una seco, onde gran duol mi morse.        Però a Cupido: – Amore, ora m'aita:        tu sai che 'l colpo insino a me pervenne,        allor che Taura fu da te ferita. —  160 Egli ridendo mosse le sue penne,        e fuggí via l'Amor senza leanza        ed alla piaga mia non mi sovvenne.        Venus a me: – Assai piú bella 'manza,        – disse – nel regno mio ti doneraggio. —  165 Però, al conforto di tanta speranza,la seguitai per l'aspero viaggio.

CAPITOLO XV

Come l'autore trova una ninfa di Cerere, chiamata Panfia, la quale gli conta il reame di Eolo, dio delli venti.

        L'amor con la speranza è sí soave,        che fa parer altrui dolce e leggera        la cosa faticosa e da sé grave;        ché sempre mai, quando l'animo spera    5 aver il premio della sua fatica,        piglia l'impresa con la lieta ciera.        Questa tra spine e tra pungente ortica        menava lieto me per duro calle:        tanto quella promessa a me fu amica;   10 quando vidi una ninfa in una valle,        che cogliea fiori, e suoi biondi capelli        di color d'oro avea sparsi alle spalle.        – A quella che lí coglie i fiori belli        – diss'io a Venus – volentieri irei,   15 se piace a te che alquanto gli favelli. —        La dea consentí ai desii miei;        ond'io andai, e, quando gli fui appresso,        queste parole dirizzai a lei:        – O ninfa bella, mentre a me è concesso   20 ch'io parli teco, prego, a me rispondi:        chi se' e questo loco a chi è commesso? —        Allor, rispersa de' capelli biondi,        inver' di me alzò la lieta testa,        e poi rispose con gli occhi giocondi:   25 25 – Eolo regna qui 'n questa foresta,        che regge i venti ed halli tutti quanti        sotto il suo freno e sotto sua potèsta;        ché, quando contra il ciel funno i giganti,        seguîro il padre, e le colpe paterne   30 spesso tornano a' figli in duri pianti.        Però gl'inchiuse Dio tra le caverne,        ed Eolo diede a lor, che gli apre e serra        e che sotto suo impero li governe.        Se ciò non fosse, l'aere e la terra   35 subbissarieno ed in ogni contrada        farian grande ruina e grande guerra.        Panfia ho nome, e la dea della biada        alla figlia Proserpina mi manda;        e spesse volte vuol che a lei io vada.   40 E coglio questi fior, ch'una grillanda        gli vo' portar, ché delli fior che colse        gli sovvien anco, e però me 'n domanda,        quando Cupido con sue fiere polse        ferí 'l disamorato infernal Pluto,   45 allor ch'a Ceres la figliola tolse.        Ma tu chi se' e come se' venuto        cosí soletto in questa valle alpestra?        Vai vagabondo o hai 'l cammin perduto? —        Ed io a lei: – Venus è mia maestra;   50 seco mi guida al loco, ov'ella regna,        e per darmi conforto ella mi addestra.        Ed ha concesso a me ch'io a te vegna;        o ninfa bella, prego mi contenti;        e quel che ti domando, ora m'insegna.   55 Dimmi ove stanno e donde son li venti,        ché, quando scendi all'infernal regina,        io credo che li veghi e che li senti. —        Ed ella a me: – Perché ratta e festina        Ceres mi manda, per fretta non posso   60 appien de' venti darti la dottrina.        Ma sappi che la terra dentro al dosso        ha gran caverne, meati e gran grotte,        ove li venti stanno in vapor grosso.        Tra quei meati e quelle rupi rotte   65 diventa quel vapor sottile e raro,        quando di sopra al dí cresce la notte;        ché, quando un loco a sé prende un contraro,        l'altro contraro prende un loco opposto,        e quanto posson tengon loco varo.   70 E però, quando è ito il fin d'agosto,        e che 'l dí manca e fassi qui il verno,        allor che il sole in bassi segni è posto,        nelle caverne, ch'Eolo ha 'n governo,        s'inchiude il caldo. E di ciò dán certezza   75 l'acque che stanno nell'alvo materno,        che hanno il verno alquanto di caldezza,        come si vede e come appare al senso;        la state hanno sotterra piú freddezza.        Sí che 'l vapor, in prima grosso e denso,   80 convien che s'assuttigli e sparso cresca        il verno, riscaldato ovvero accenso.        Però dall'arto loco cerca ond'esca:        cosí per le fissure e pori esala,        e 'l sole il tira insino all'aura fresca.   85 Lí ripercosso, poscia all'ingiú cala        e fassi vento, e, dove luna il tira        ovver Saturno, quivi move l'ala.        Il vapor che rimane e che si aggira        nel ventre della terra, perché appieno   90 non può uscir del loco, ond'egli spira,        ritorna addietro in fondo giú nel seno        dell'alma terra; e però innanzi alquanto        che sia il tremoto, ogni vento vien meno.        E poi ritorna e con impeto tanto,   95 venendo insieme, la terra percote,        che la fa almen tremare in alcun canto.        Questo è 'l tremoto, e voglio ch'ancor note        che 'l vapor caldo inchiuso ha tal valore,        che nulla cosa ritener il puote.  100 Se fusse un monte qual tu vuoi maggiore,        tutto d'acciaio dentro alla montagna,        per mille parti ne uscirebbe fore.        Cosí il vapor inchiuso in la castagna        o in altra cosa, quando è riscaldato,  105 convien che n'esca e quel che 'l tiene infragna.        Io ho veduto giá ch'egli ha levato        del loco un monte e fatta un'apertura        sopra la terra con sí grande iato,        che 'l re d'inferno avuta ha gran paura  110 che non discenda insin laggiú il raggio        e non illustri la sua patria oscura.        E dico a te che anco veduto aggio        Eolo re temere alcuna volta,        quand'apre i monti e dá a' venti il viaggio.  115 Egli escono con furia ed ira molta,        quasi lioni o Cerbero feroce,        quando si vide la catena sciolta.        E discorrendo van per ogni foce;        e, se si scontran due venti inimici,  120 il turbo fanno, il qual cotanto nòce.        Quest'è che gitta a terra li edifici        con gran ruina e percuote li tetti,        e svelle gli arbor dalle lor radici. —        E giá poneva fine alli suoi detti,  125 se non ch'io dissi: – Deh! di' se la luce        del sol fa nell'inferno alcuni effetti. —        Allor rispose: – Il sol, ch'è primo duce        di ciò che nasce, pietre preziose,        oro ed argento di laggiú produce.  130 Ver è che Pluto tutte queste cose        dona alla sposa sua, la quale è figlia        di quella che l'andata a me impose.        Io dirò a te una gran maraviglia:        che d'oro mi mostrò un sí gran monte,  135 che'ntorno gira piú di diece miglia. —        E disse: – Io prego, quando lassú monte,        che tu nol dichi agli uomini del mondo        e d'esta mia ricchezza non racconte;        ché son sí avari, che 'nsin quaggiú al fondo  140 ei cavarieno a rubbar il tesoro,        il qual m'è dato in sorte e qui nascondo;        e son sí ghiotti e cupidi dell'oro,        che giá han cavato ingiú trecento braccia:        che non vengan quaggiú temo di loro. —  145 E, detto questo, con la lieta faccia,        ridendo, inchinò alquanto e disse: – Addio; —        e poi n'andò come chi fretta avaccia.        Alla mia scorta allora torna' io;        e seguitaila insin all'oceáno  150 per un viaggio molto aspero e rio.        Nettuno a noi col suo tridente in mano        venne risperso di marine schiume,        sí che sua barba e 'l capo parea cano.        Con lui vennon le ninfe d'ogni fiume,  155 delle quali al presente non ne narro,        ché 'n altra parte il contará il volume.        Nettuno poi ne pose sul suo carro        e solcòe 'l mar; e li mostri marini        facean, mirando noi, al plaustro sbarro.  160 Triton sonava, e li lieti delfini        givan saltando sopra l'onde chiare,        che soglion di fortuna esser divini.        Poiché mostrato m'ebbe tutto il mare        e che dell'acque la cagion mi disse,  165 perché sotto son dolci e sopra amare,        in terra ne posò e lí s'affisse,        e fe' ballar per festa le sue dame:        e poi dicendo: – Addio, – da noi partisse.Allor Venus andò al suo reame.

CAPITOLO XVI

Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all'autore, perché usavano atti disonesti d'amore; onde Venere il menò a ninfe piú oneste, ma piú piene d'inganno.

        Chi di Venus ben vuol saper il regno        com'è disposto, sguardi pure agli atti;        ché ogni balla si conosce al segno.        Come gli uomini sonno dentro fatti,    5 nell'opera di fuor si manifesta:        quella è che mostra i saggi ed anco i matti.        Poiché passata avemmo una foresta,        io vidi il regno suo piú oltra un poco        e gente vidi quivi in gioia e festa.   10 Ed in quel regno quasi in ogni loco        eran distinte ninfe a sorte a sorte        in balli e canti ed in solazzi e gioco.        Quando si funno di Ciprigna accorte:        – Ecco la nostra dea – dissono alquante, —   15 che torna a suo reame ed a sua corte. —        Ben mille ninfe allor venneno avante,        di rose coronate e fior vermigli,        vestite a bianco dal collo alle piante.        E de' loro occhi e dell'alzar de' cigli   2 °Cupido fatto avea le sue saette        e l'ésca, con la qual gli amanti pigli;        ché quelle vaghe e belle giovinette        con que' sembianti moveano lo sguardo,        che fa la 'manza che assentir promette.   25 Non era lí mestier pregar che 'l dardo        traesse dio Cupido a far ferita        o ch'egli al suo venir non fosse tardo;        ch'ognuna mi parea che senza invita,        solo al mirar e ad un picciol cenno,   30 che nella vista sua mi dicesse: – Ita. —        Poiché diversi balli quivi fenno        'nanti a Ciprigna con canti esquisiti        e misurati suon con arte e senno,        io vidi dame e vidi ermafroditi,   35 uomini e donne insieme, venir nudi,        ove natura vuol che sien vestiti.        Al viso con le man mi feci scudi        per non vedergli; ond'ella: – Perché gli occhi        – mi disse – colle man cosí ti chiudi? —   40 Risposi a lei che gli atti turpi e sciocchi        e ciò che vuol natura che sia occolto,        enorme par che 'n pubblico s'adocchi.        Ed ella a me: – Un luoco dista molto,        ove tengo mie ninfe tanto oneste,   45 che, solo udendo amor, le arroscia il volto;        talché, quando Diana fa sue feste        o va alla caccia tra luochi selvaggi,        spesso vuole che alcuna io gli ne preste.        Li sta la ninfa, la qual voglio ch'aggi,   50 la qual, perché non gissi, io ti mostrai        a lato a me tra gli splendenti raggi. —        Partissi allora, ed io la seguitai        insino a quelle, e di tant'eccellenza        Natura ninfe non formò giammai.   55 Né Fiandra, né Roma, ovver Fiorenza,        né leggiadria giammai che di Francia esca,        mostrâro ninfe di tant'apparenza.        D'una di quelle Amor mi fece l'ésca        ad ingannarmi, e fui preso sí come   60 uccello o all'amo pesce che si pesca.        Venere Ionia la chiamò per nome.        Allor dall'altre venne la donzella        con la grillanda su le bionde chiome.        E, come va per via sposa novella   65 a passi rari e porta gli occhi bassi        con faccia vergognosa e non favella,        cosí la falsa moveva li passi        per ingannarmi e, quando mi fu appresso,        mi riguardò; ond'io gran sospir trassi.   70 Venere disse a lei: – Io ho promesso        a questo giovinetto che ti guide:        a lui ti diedi ed or ti dono ad esso. —        Sí come putta che piangendo ride        per ingannar, cosí bagnò la faccia,   75 dicendo: – O sacra dea, a cui mi fide?        In prima, o Iove, occidermi ti piaccia;        in prima, o Citarea, voglio morire,        che alcun uomo mi tenga tra le braccia. —        E per podermi ancor meglio tradire,   80 'sciuccava gli occhi a sé con li suoi panni,        nel cor mostrando doglia e gran martire.        Chi creso arebbe che cotanti inganni        e tanta falsitá adoperasse        ninfa, che non parea di quindici anni?   85 Io pregava Cupido che tirasse        contro di lei omai il suo fiero arco        e che al mio voler la soggiogasse.        Ed io il vidi col balestro carco        nell'aer suso in uno splendor chiaro,   90 e ferirla mostrò con gran rammarco.        Non fe' all'Amor la ninfa piú riparo,        ma il capo biondo sul mio petto pose        e che io l'abbracciassi mostrò caro.        Allor Venus di rosse e bianche rose   95 a lei ed anco a me risperse il petto;        e poi sparí come ombra e si nascose.        Quand'ella vide me seco soletto,        cosí mirava intorno con sospiri        come persona, quand'ella ha sospetto.  100 – Perché, o ninfa mia, intorno miri?        – diss'io a lei. – Deh! alza gli occhi belli,        che hai nel viso, quasi duo zaffiri.        Perché stai timorosa e non favelli? —        Allor alzò la faccia a me e parlommi,  105 'sciuccando gli occhi a sé co' suoi capelli.        – Pel sommo Iove e per li dèi piú sommi        per l'aere e 'l cielo, il qual nostr'amor vede,        pel duro dardo il qual gittato fommi,        ti prego, amante, che mi dia la fede  110 che non m'inganni e che vogli esser mio,        da ch'io son tua e Venus mi ti diede.        Or ti dirò perché ho sospetto io:        qui stan centauri e fauni incestuosi,        turpi in ogni atto scostumato e rio.  115 E stanno tra le selve qui nascosi,        e qui la 'Nvidia maledetta anco usa        con sue tre lingue e denti venenosi.        Ed io temo lor biasmo e loro accusa;        però pavento, e sai che colpa occolta  120 innante ai numi e al mondo ha mezza scusa.        Però, acciò che teco non sia còlta,        prego che la partenza non sia dura        a te, né anco a me per questa volta. —        Un monte mi mostrò e: – Su l'altura  125 – mi disse sta un boschetto; io lí verraggio        a te, quando la notte sará oscura. —        E, perché 'l suo consiglio parve saggio,        io me partii; ma prima li die' il giuro        d'amarla sempremai con buon coraggio.  130 Ed ella del venir mi fe' sicuro.        Cosí n'andai; e, quando al loco fui        colla speranza del venir futuro,        dissi pregando: – O Febo, i corsier tui        movi veloci verso l'occidente,  135 perché piú ratto questo dí s'abbui.        E tu, Atlante, il ciel piú prestamente        movi coll'alte braccia e grandi e forti,        perché la notte giunga all'oriente.        O cerchio obliquo, che i pianeti porti,  140 fa' sí che entri il sole in Capricorno,        che sia la notte lunga e il dí raccorti,        acciò che tosto passi questo giorno        e venga Ionia, che venire aspetta,        quando sia notte, meco a far soggiorno.  145 Io benedico il foco e la saetta,        o dio Cupido, col qual m'hai ferito;        e la tua madre ancor sia benedetta,        che, quando con Minerva insú er' ito,        per me avvocò ed ella mi ritorse;  150 ed ella ha fatto ch'ancor t'ho seguíto.        E qui al suo reame ella mi scorse        ed hammi data Ionia, e che a me vegna        n'aggio speranza senza nessun forse,e spero in te e 'n lei che mi sovvegna. —
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