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Il Quadriregio
Il Quadriregio

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CAPITOLO IX

Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire.

        Letto ch'io ebbi ciò che nel sasso era,        io mi partii e dentro uno spineto        mi posi a stare ascoso insino a sera,        acciò che il nostro amor fosse segreto.    5 Presso all'occaso ed io scendea la costa        e per veder Lippea andava lieto.        Ed una driada disse: – Fa', fa' sosta —        forte gridando, ond'io maravigliai        e 'nsin che giunse a me, non fei risposta.   10 Quando fu a me, ed io la domandai.        – Non sai – rispose – ciò ch'è intervenuto,        e Lippea quanti per te sostien guai?        L'amor tra te e lei stato è saputo,        e conven che si parta: oh sé infelice,   15 ché contra questo nullo trova aiuto!        Io son sua driada e giá fui sua nutrice:        l'amor, che porta a te, m'ha rivelato,        ed ogni suo segreto ella mi dice.        Se saper vuoi il fatto come è stato,   20 la Invidia, che sempre il mal rapporta,        che mille ha orecchie ed occhi in ogni lato,        disse a Iunone: – Or non ti se' tu accorta        che Lippea ama il vago giovinetto,        che venne qui e tanto amor gli porta? —   25 Poscia sparío, quando questo ebbe detto        la rea, che ha mille occhi e tutto vede        e mille orecchie e tosco ha dentro al petto.        Ah Invidia iniqua, quanto a te si crede!        e perciò volentier tu se' udita,   30 perché troppo al mal dir si dona fede.        A Lippea detto fu che ammannita        stesse ad andarne nel seguente giorno,        quando Iunon volea far sua partita.        Pel gran dolor e per lo grave scorno   35 d'amaro pianto si bagnò le gote,        e smorto diventò suo viso adorno.        E per non far di fuor le fiamme note,        che Amor le aveva acceso dentro al core        coll'arco dur, che mai invan percote,   40 pigliava scusa pianger per l'amore,        ch'ella portava alla Diana dea        e alle sue ninfe come a care suore.        – Sorelle mie – dicea, – perché credea        rimanermi con voi, però 'l cuor piagne   45 che dipartir mi fa la 'Nvidia rea.        E non sará che mai 'l mio pianto stagne:        tanto è l'amor, oh lassa me tapina,        ch'io conceputo ho qui, o mie compagne. —        Poscia andò a Iuno e disse: – O mia regina,   50 per darmi infamia e darmi vitupero,        l'Invidia con sua lingua serpentina        detto ha cosí; ma s'ella dice il vero,        io cada morta, o s'io assento all'arme        di dio Cupido o mai n'ebbi pensiero.   55 Quando deliberasti, o dea, lassarme,        concepii amore a tutte, ed or mi dole        se io le lascio e altrove puoi menarme. —        Iunon rispose a lei brevi parole:        – Voglio che vegni e, quando il carro parte   60 crai, sii la prima sul levar del sole. —        Poscia che mille lacrime ebbe sparte,        dicea fra sé dolente ed angosciosa:        – Come farò? oimè! 'l cor mio si sparte. —        Come va 'l cervio, a cui giá venenosa   65 è giunta la saetta, e move il corso        or qua or lá, e insin che muor non posa:        cosí ed ella per aver soccorso        giva ad ognuna, e poscia        lacrimando deliberò a Diana aver ricorso.   70 E disse: – O dea, tu facesti il domando        ch'io rimanessi, e Iuno fu contenta;        ed io anche assentii per suo comando.        Ed ora pare a me ch'ella si penta,        non so perché: e se fia mia partenza,   75 convien che gran dolor mio cor ne senta,        perché tu, dea, a me benivoglienza        hai dimostrata, e Pallia e Lisbena        e l'altre, con ch'i' ho fatto permanenza.        Però partir da loro a me è gran pena,   80 ch'io amo ognuna come mia sorella,        e sopra tutte te, o dea serena.        Però, ti prego, alquanto tu favella        a dea Iunon ch'io stia sino alla festa,        che ogni anno, come sai, si rinovella. —   85 Rispose a lei Diana: – Manifesta        tu fai te stessa: or sappi che colei,        di cui è sospetto, non è ben onesta.        Vanne con la signora delli dèi;        ché s'ella mi dicesse ch'io v'andassi,   90 sí come a Iove, a lei ubbidirei. —        Per la vergogna tenne gli occhi bassi        la misera e pensava tutt'i modi        per rimanere e che nessun ne lassi.        O Amor folle, che sí forte annodi   95 l'amante con l'amato e sí li leghi,        che dentro consumando li corrodi!        Quando si vide non valer li prieghi,        giva ansiando come fa la cagna,        a cui veder li suoi figliuol si neghi.  100 E lasciò tutte e sol me per compagna        seco menòe; e salse tanto ad erto,        ch'ella pervenne in una gran montagna.        Alquanto andammo lí per un deserto:        alfin venimmo in quel prato fiorito,  105 ov'ella te di fiori avea coperto.        Ella gittossi dov'eri dormito;        e cominciò a dir con pianto amaro:        – O dolce sposo mio, dove se' ito?        dove se' ora, o mio amico caro?  110 Oh ti vedessi 'nanti ch'io mi parta,        da che contra il partir non ho riparo! —        Poi ch'ebbe pianto lí ben una quarta        d'una gross'ora, su in un sasso scrisse        col dardo suo, come chi scrive in carta.  115 E lí lo pose e poi indi partisse;        e per veder te, credo, mille volte        giú per la piaggia mirando s'affisse.        Iunon le ninfe sue avea raccolte,        e perché Lippea sola v'era manco,  120 mandat'avea a trovarla ninfe molte.        La piaggia tutta non avea scesa anco,        che fu trovata e menata a Iunone        coll'animo ansioso e tanto stanco.        Non valse a dir che sdegno era cagione  125 del suo assentarsi, che creso era piúe        a Invidia il falso, ch'a lei 'l ver sermone,        che non la fêsse dalle ninfe sue        battere prima, e poscia l'ha mandata        stretta e legata al monte Olimpo in súe.  130 Nel suo partir m'impose esta ambasciata,        la qual t'ho detta; e disse:        – Dilli quanto da lui mi parto afflitta e sconsolata. —        Tanto negli occhi m'abbondava il pianto,        quando la driada questo mi proferse,  135 che non risposi per lo pianger tanto.        Ma per le vie tant'aspere e perverse        con lei andai insino alla pianura,        ove Lippea di be' fior mi coperse.        E ratto corsi a legger la scrittura,  140 la quale avea scolpita su nel sasso,        quand'ella fece la partenza dura.        Ella dicea: «Perduto ho il bello spasso,        ch'io avea, vedendo te, o dolce drudo:        partir conviemmi, ed io il mio cor ti lasso.  145 Troppo Cupido a me è stato crudo:        egli, ch'io non ti veggia, t'ha nascoso,        e di te m'ha ferito a petto nudo.        Fátti con Dio, o mio primaio sposo        ed ultimo anco: oimè, che non ho spene  150 di rivederti mai, né aver riposo!        Ché quel reame, che Iunon si tiene,        è alto tanto e posto sí lontano,        che mai nessun mortal tanto su vene».        Letto ch'io ebbi quel tra me pian piano,  155 volsi alla driada il lacrimoso volto,        il qual io mi percossi con la mano,        dicendo: – Il mio conforto chi l'ha tolto?        Or dove se', Lippea ninfa mia?        O dolce amore, in quanto duol se' vòlto!  160 Driada, dimmi se c'è modo o via        o che io la giunga, o s'egli c'è speranza        ch'io venga ove Iunone ha signoria.        – Il correr delle ninfe ogni altro avanza        – rispose quella; – e 'l regno di dea Iuno  165 è tanto ad alto ed ha sí gran distanza,        che non vi puote andar mortale alcuno. —        Cosí mi disse e poi si mosse a corsa,        d'ogni sperar lasciandomi digiuno,e se n'andò correndo piú che un'orsa.

CAPITOLO X

Nel quale l'Amore discorre delle varie impressioni dell'aere con l'autore, a cui da Venere vien promessa la ninfa Ilbina.

        Oh Speranza vivace e sempre verde!        Se ogni cosa all'uom toglie fortuna,        ella sempre rimane e mai si perde.        Questa soletto al lume della luna    5 mi mise tra li boschi e tra li rovi        con gran fatica e senza posa alcuna.        Dicea fra me: – Ben converrá ch'io provi        ogni mio ingegno e cerchi ogni paese,        che Lippea bella mia ninfa ritrovi. —   10 E giá cercando er'ito ben un mese        per l'aspro bosco e per la selva amara,        quando Cupido a me si fe' palese.        E come quando Febo si rischiara,        perché la nube grossa s'assuttiglia,   15 che prima ostava alla sua faccia chiara;        cosí una luce splendida e vermiglia        mi die' nel volto; e, mentre l'occhio innalzo,        per veder meglio aguzzando le ciglia,        io vidi lui, che stava su in un balzo   20 e disse a me: – Ricòrdati che tue        giá tante volte m'hai chiamato falzo.        Però t'ho tolto l'allegrezze tue;        ma io prometto a te di ristorarte,        se falso e traditor non mi di' piúe.   25 Ma sappi prima che forza né arte        al regno di Iunon giammai perviene:        tant'ello dalla terra si disparte;        ché 'l regno, il quale Saturnia mantiene,        è posto in aere su nel freddo loco,   30 onde la pioggia e la grandine viene.        Lí non riscalda la spera del foco,        che non riscalda in giú tanto da cesso,        né anco il sol niente o molto poco;        ché 'l raggio del gran Febo in giú riflesso   35 non riscalda da lungi o molto oblico,        ma ben dappresso è riflesso in se stesso.        E quando a questo loco, ch'io ti dico,        il vapor di quaggiú salendo giugne,        ratto che sente il freddo a sé nemico,   40 in sé si strigne ed in sé si congiugne        e fassi nube; e, quand'egli è costretto,        si fa la pioggia, perché l'acqua smugne.        Ma nella state quel vapor, che ho detto,        ha molto in sé del terrestro vapore   45 sulfureo e secco e d'ogni umido netto.        E questo, quando sente l'umidore,        sí come fa all'acqua la calcina,        s'accende, e con gran rabbia n'esce fuore        quindi il baleno e 'l tuon con gran ruina.   50 E di questo vapor Vulcano a Iove        fa tre saette nella sua fucina.        Che se ben miri quanto è piú forte ove        sta sulfurea fiamma inclusa ed arda,        tanto piú furiosa ella si move,   55 sí come apparir può nella bombarda,        ché poca fiamma accesa tanto vale,        che tuona e rompe ed esce fuor gagliarda;        perché la state vieppiú alto sale        del chiaro Febo il suo riflesso raggio,   60 e risal meno obliquo e piú eguale.        Però questo vapor, che pria dett'aggio,        conven che 'l sole il lieve in piú altura        a farlo nube in piú alto viaggio.        Ov'ei trova adunata piú freddura,   65 ivi si stringe, e l'acqua da lui scossa        grandine fassi: sí 'l ghiaccio la 'ndura.        Ma, perché nell'inverno non ha possa        il sol, che tanto insú il vapor lieve,        'nanti ch'assai insú faccia sua mossa,   70 ancor non fatto nube si fa neve;        e raro e sperso fatto ghiaccio cade,        come bambace in terra, lieve lieve.        A cosí alte e sí fredde contrade        da che salir non puoi, qui a te venni,   75 ché di tanta fatica io t'ho pietade. —        E, detto questo, con parole e cenni        mi fece scender giú per una scheggia;        e, quando in un bel prato giú pervenni,        io vidi ninfe; e ciò, ch'occhio vagheggia   80 mai di bellezza, risplendeva in loro:        tanto ognuna era bella e tanto egreggia.        Parean venute dal superno coro        quaggiú nel mondo, creatur celeste        use con Iove in l'alto concistoro.   85 Quando mi viddon, fuggîr ratte e preste        alquanto a lungi e poi voltôn lor volti,        me risguardando tacite e modeste.        – Io prego – dissi – che da voi si ascolti        di questa mia venuta la cagione,   90 che m'ha condutto in questi boschi incolti.        Cercando vo il regno di Iunone:        da che fortuna m'ha condutto a voi,        prego vostra pietá non m'abbandone.        – Al regno di Iunone andar non puoi   95 – mi rispose una, – ché sí in alto è posto,        che montar non potresti insino a loi. —        E quando questo a me ebbon risposto,        passâro un monte e sí ratto fuggîro,        che appena il vento si movea sí tosto.  100 Ed io dirieto a lor, con gran suspiro,        presi la costa e salsi il monte ratto;        e quando giú nell'altra valle miro,        io vidi l'arco di Iunon lí fatto        ed alto in aere, il qual per segno diede  105 Dio a Noè, con lui facendo il Patto.        E come re ovver regina siede        nell'alto tron, cosí su quel si pose        Venus vestita d'òr da capo a piede,        con la corona di mirto e di rose,  110 con lieta faccia ed aspetto sí bello,        piú che mai dèe ovver novelle spose.        Cupido allor volar come un uccello        vidi per l'aere; e credo sí veloce        Cillen non corse mai, né tanto snello.  115 Venus mi disse in questo ad alta voce:        – O giovin, c'hai montata insú la costa,        spronato dall'amor caldo e feroce,        la bella ninfa, che a te fe' risposta,        da me e dal mio figlio a te è sortita,  120 che l'abbi a tuo voler ed a tua posta.        Fa' che tu passi qua, dov'è fuggita        nell'altra valle, e tanto lí rimagne,        che da Cupido per te sia ferita. —        Per questo io trapassai l'aspre montagne,  125 tanto ch'io la trovai nell'altro piano,        che stava a coglier fior con le compagne.        Cupido lí non molto da lontano        di quella bella ninfa mi ferío        d'una saetta d'oro, ch'avea in mano.  130 Però io con ingegno e con desio        m'appressa' a loro e dissi: – O ninfe belle,        in questo loco sí silvestre e rio        per consigliarmi alcuna mi favelle:        deh! non v'incresca che alquanto qui stia,  135 stancato tra le selve amare e felle. —        La ninfa, che risposto m'avea pria:        – O giovin – disse, – non abbiam temenza,        né anco incresce a noi tua compagnia.        Ma noi Minerva, dea di sapienza,  140 aspettiam qui; e da noi qui s'aspetta        con lo gran carro della sua eccellenza;        ché qui tra noi è una giovinetta,        che vuoi menare al suo regno felice,        la qual tra le sue ninfe ha per sé eletta;  145 e non sappiam di qual di noi si dice.        Noi non voramo, quando ella discende,        che alcun uomo con noi trovasse quice.        Per quella cortesia, che 'n te risplende,        ti prego che di qui ti parti alquanto,  150 ché tua presenza sospette ne rende.        – O ninfa, veder te m'è grato tanto        – risposi a lei – e tanto a te mi lego,        che io non posso andar in alcun canto.        Ma io a me stesso la mia voglia niego  155 contra mia voglia ed al partire assento,        da che ti piace: tanto può 'l tuo priego.        E, da che io mi parto con tormento,        dimmi chi se'; e quando qui ritorno,        prego, del tuo parlar fammi contento. —  160 Per la vergogna arrosciò il viso adorno,        e ch'io non fossi udito ella temea:        però ella mirava intorno intorno.        Poscia rispose: – Io nacqui giá 'n Alfea,        Ilbina ho nome e tra li duri scogli  165 vo seguitando la selvaggia dea.Piú non ti dico: omai partir ti vogli. —

CAPITOLO XI

Come la dea Minerva discese e seco menò Ilbina ninfa.

        Io me n'andai in un boschetto alpestro,        distante a quelle ninfe, a mio parere,        ben quasi una gettata di balestro,        sí ch'io poteva udire e ben vedere    5 tutti lor atti e tutte lor parole,        ed aspettando mi stava a sedere.        Ed ecco, come quando il chiaro sole        tra le men folte nubi sparge il raggio,        che quasi strada in cielo apparir sòle,   10 cosí da cielo ingiú si fe' un viaggio;        e la via lattea, che pel caldo s'arse,        piú che quella in splendor non ha vantaggio.        Le ninfe tutte alla strada voltârse;        e come quando rischiara l'aurora,   15 cosí lucente in cielo un carro apparse.        E poco stando io vidi una signora        splendente quanto il sol su la mattina,        quando dell'orizzonte egli esce fòra,        incoronata come la regina,   20 che venne a Salomon dal loco d'Austro        per udire e saper la sua dottrina.        Quando piú presso ingiú si fece il plaustro,        lo scudo cristallin gli vidi in mano,        lucente quanto al sol nullo alabastro.   25 Ed era sí scolpito e sí sovrano,        che tanto adorno nol fece ad Achille,        per preghi della madre, dio Vulcano.        Appresso al carro stavan le sue ancille,        inclite ninfe, intorno a coro a coro,   30 ed ogni coro in sé n'ha piú di mille.        Non ebbe piú splendor, né piú lavoro        il carro, a cui Fetòn lasciò lo freno,        quando trasse i corsier dal cammin loro.        Vedendo lo splendor tanto sereno,   35 l'alpestre ninfe stavan ginocchioni        con reverenza sul basso terreno.        Quando discesa fu con canti e suoni        la dea Minerva e che fu posto fine        a tanti balli ed a tante canzoni,   40 le ninfe alpestre riverenti e chine        dissono: – O dea, qual vorrai che vegna        di noi e che al tuo regno al ciel cammine? —        Rispose ella: – Di voi ognuna è degna;        ma ora eleggo Ilbina e voglio questa,   45 che venga meco ove da me si regna. —        E, detto questo, con canti e con festa        la coronò d'alloro e poi d'uliva,        e di fin òr gli fe' vestir la vesta.        Poi per la strada, che da ciel deriva,   50 la menò seco pel cammin ad erto,        forte a salire ad uom mortal, che viva.        Io, che m'era occultato in quel deserto        tra dure spine e pungenti cespogli,        il viso alzai di lacrime coperto.   55 – Perché, o Palla, Ilbina mia mi togli?        – dissi piangendo; – e perché a questa volta        d'Ilbina, o dio Cupido, ancor m'addogli? —        E fuora uscii e con fatica molta        per la celeste strada insú mi mossi   60 dietro alla ninfa, la qual m'era tolta.        E ben un miglio cred'io andato fossi,        che la dea Venus si chinò a pietade:        tanto con li miei preghi io la commossi.        Nell'aere apparse con grande beltade;   65 poi scese al carro con faccia proterva,        il qual saliva le splendenti strade.        – Non senza gran cagione, o dea Minerva        – disse Venus, – io vengo tra la schiera,        che segue te e tuo comando osserva,   70 ché insino al cielo, ove il gran Iove impera,        d'un vago giovinetto è giunto il grido,        che sempre ha 'n me sperato e sempre spera.        Ed io ed anche il mio figliuol Cupido        una ninfa, ch'è qui, gli abbiam promessa,   75 sí come a nostro caro amico e fido.        E se tu vuoi sapere quale è essa,        Ilbina ha nome, che la dea Diana        la mandò a te ed halla a te concessa.        E perché la mia spen non fosse vana,   80 Iunon la confermò e fe' che scese        Iris, sua nuncia, presso una fontana.        Acciò che mie parol sien meglio intese,        mira colui che sal su per la via:        il mio figliuol colui d'Ilbina accese.   85 Costui è quel, di cui prego che sia        la detta ninfa; ed egli è quel che fue        dato da Iuno a lei per compagnia.        Vedi che move ratto i passi insúe        e per la costa omai è tanto stanco,   90 che a pena dietro a te può seguir piúe. —        Minerva, vòlta verso il destro fianco,        mi rimirò; ed io era da lunge        tre gettar di balestro o poco manco.        Come che 'l servo se medesmo punge,   95 che è visto ed aspettato dal signorso,        che affretta i passi insin che a lui aggiunge;        cosí fec'io insin ch'io ebbi corso        al carro, ove Ciprigna s'era posta,        che mi aspettava per darmi soccorso.  10 °Come persona a compiacer disposta        a chi la prega, cosí Palla fece        a Citarea benigna risposta:        – Se a Iunone, a cui imperar lece,        io ho rispetto ed a te che 'l domandi,  105 che puoi dir: «Voglio», e fai cotanta prece,        io mi contento far ciò che comandi;        ma chiama Ilbina e vedi se consente        innanti che 'l mio carro piú su andi. —        Come donzella, che tra molta gente  110 si dé' sposar, ed ègli detto: – Vuoi        per tuo marito costui qui presente? —        che, vergognando, abbassa gli occhi suoi;        cosí Ilbina si fe' vergognosa,        parlando questo le dèe amendoi.  115 Però gli disse Venere amorosa:        – O ninfa, che tra l'altre piú elette        piú bella se' e piú pari graziosa,        perché della vergogna sottomette        il tuo bel volto? perché hai temenza  120 del mio parlar, che gran ben ti promette?        Vien' su nel carro di tanta eccellenza:        io ti voglio parlar quassú da presso:        vien' su avanti alla nostra presenza. —        Come la zita col volto sommesso  125 va per la via e move il passo raro,        tal andò al carro e poi montò su in esso.        Mentre salea, io vidi un foco chiaro,        che gli abbruciò l'estremitá del panno,        ond'ella mise un gran suspiro amaro.  130 Quando s'avvide Palla dello 'nganno        e che conobbe il foco, il fumo e 'l segno        del sospirar, che fe' con tanto affanno,        si volse a Citarea con grande sdegno:        – Come se' tanto ardita, o rea e falza,  135 tradir le ninfe, che son del mio regno?        Nata nel mare giú tra l'acqua salza,        de li membri pudendi, e tra le schiume,        qual è quella superbia, che t'innalza?        Madre e maestra d'ogni rio costume,  140 pártite e vanne al regno tuo, lá dove        ogni tuo atto è vano e torna in fume.        Tu lodi il tuo figliuol, che ferí Iove;        ma non fu il vero: Iove anche è diverso        da quel che il cielo ed ogni effetto move.  145 Quel sommo re, che regge l'universo,        porta odio a te e 'l tuo figliuol descaccia,        sí come falso amor, rio e perverso. —        Come chi scorna, ch'abbassa la faccia        e mormorando seco il capo scuote,  150 mostrando irato e con segni minaccia;        cosí Ciprigna con le rosse gote        partíssi quindi ed al figliuol ricorse,        come chi sé vendicar ben non puote.        E giá ad Ilbina sarebbon trascorse  155 le fiamme e 'l sacro foco insino al core,        se non che Palla il suo scudo gli porse,        che ha tanta virtú, tanto valore,        che ogni fiamma di Cupido ammorta,        ogni atto turpe ed ogni folle amore.  160 E questo scudo, che Minerva porta,        è di cristallo e 'l capo gorgoneo        ha sú scolpito di Medusa morta,vinta per forza e ingegno di Perseo.

CAPITOLO XII

Come la dea Minerva racconta all'autore l'eccellenza del suo reame.

        Con miglior labbia poscia a me rivolta        la dea Minerva splendida e serena,        mi disse: – Attento mie parole ascolta.        Se vuoi lassar Cupido, che ti mena    5 tra' duri scogli dell'aspro deserto        con tanti inganni e con cotanta pena,        e vuoi salir la strada suso ad erto,        meco venendo all'alto mio reame,        chiuso agli stolti ed alli saggi aperto,   10 io ti farò amar dalle mie dame,        che fanno i lor amanti esser felici,        e te faran beato, se tu l'ame.        Le ninfe di Diana servitrici,        rispetto a quelle, ti parran villane,   15 incolte, indotte, zotiche e mendíci.        O ben dell'aspre selve, o cose vane,        tanto veloce lo tempo vi toglie,        che come d'ombra nulla ne rimane!        Non posson contentar l'umane voglie,   20 che 'n sé non hanno esistente bontade,        e 'l ciel le logra, mentre sopra voglie.        E, perché il ciel voltando sempre rade,        quel che fu nuovo riveste l'antico;        però le cose belle si fan lade.   25 E, perché meglio intendi ciò ch'io dico,        vien' su nel carro mio, che alla 'nsú monta,        tra l'esercito mio saggio e pudico. —        Io salsi il carro e nella prima gionta        io dissi: – O dea Minerva alta e benegna,   30 del regno tuo alquanto mi racconta.        E dimmi qual è 'l modo ch'io vi vegna        e dove sta e chi 'l regge e nutríca,        e della sua beltá ancor m'insegna.        – Al regno mio, del qual vuoi ch'io ti dica   35 – rispose quella – e vuoi ch'io ti dimostri,        non vi si può salir senza fatica;        ché nel cammino stanno sette mostri        con lor satelli ad impedir la strada,        che l'uom non giunga a' miei beati chiostri.   40 E chi losinga acciò che a lei non vada,        chi fa paura e chi occulta il laccio,        che impacci altrui o che dentro vi cada.        E s'alcun vince e trapassa ogni impaccio,        lassati i mostri, trova una pianura.   45 ove non caldo è mai troppo, né ghiaccio.        Chi su per l'erbe di quella verzura        s'ingegna sempre di salire avante,        del regno mio poi trova sette mura.        E ogni muro dall'altro è piú distante   50 che cento miglia, e dentro alla sua mèta        un regno tien di ninfe oneste e sante.        Ed una donna umíle e mansueta,        a chiunque sale, il sacro uscio disserra        benignamente e mai a nullo il vieta.   55 Ma pria conven che l'uom basci la terra:        allora quella ratto apre la porta        e va con lui; se no, 'l cammin egli erra.        Tra quelli regni dietro a questa scorta        chi entra trova le muse elicone,   60 ed ognuna gli applaude e lo conforta.        Con lieti balli e soavi canzone        il menano a diletto su pel monte,        facendo melodia dolce e consone.        Pervengon poi al pegaseo fonte,   65 ove i poeti bevon la sacra onda;        e poi d'alloro inghirlandan la fronte.        All'altro giro, che vieppiú circonda,        va poi chi prega la guida che 'l mene,        e dietro a' passi suoi sempre seconda.   70 Sette reine, nobili camene,        che dienno alli gran saggi le mamille,        di latte di scienza tanto piene,        si trovan lí e nitide e tranquille        mostran sette scienze, ovver sett'arti,   75 con dolce dire e con soavi stille.        Altra regina trovi, se ti parti,        che splende quanto il sol nel mezzogiorno,        quando ha li raggi meno obbliqui o sparti.        Quella regina è tutta intorno intorno   80 fulcita d'occhi assai vieppiú che Argo        ed ha del sole il nobil viso adorno.        Con tutti gli occhi il regno lungo e largo        ella contempla e rende tanta luce,        ché quivi non può 'l viso aver letargo.   85 La scorta saggia altrove anco conduce,        dov'è l'altra regina sí modesta,        ch'ogni costume e senno in lei riluce.        Fabricio e Scipion nutricò questa.        Ella è che ad ogni troppo pone il freno   90 ed è negli atti e nel parlare onesta.        Altra reina è anco dentro al seno        d'esto mio regno, di tanta fortezza,        che a nulla violenza mai vien meno.        Né mai menacce, né losinghe apprezza;   95 né fortuito caso mai la piega;        né muta faccia a doglia, né a dolcezza:        il piombo solo è che la vince e spiega        sí come il diamante, e cosí face        di questa dea chi umilmente la prega.  100 Da questo regno sí alto e capace        la guida sale alla nobile Astrea,        che con Saturno resse il mondo in pace.        Ma, poiché fu la gente fatta rea        e l'avarizia resse il mondo male,  105 ritornò al cielo, ov'ella è fatta dea.        Al nobil mio reame poi si sale,        ove si trovan tre altre reine,        ognuna in nobiltá a me eguale.        Con queste tre sí alte e sí divine  110 contemplo Dio, che regge l'universo,        principio d'ogni cosa, mezzo e fine.        Il regno mio è fatto a questo verso,        com'io t'ho detto: or di' se vuoi venire        o per le selve errando andar disperso. —  115 Io era pronto e giá volea dire:        – Io voglio, o dea, seguire il tuo consiglio        e dietro a' piedi tuoi sempre vo' ire. —        Ma, quando in aer su alzai il ciglio,        vidi Venus, la quale una donzella  120 mi mostrò lieta e Cupido suo figlio,        non vista mai al mio parer sí bella;        e cenno mi facían che su non gisse,        ché fermamente mi darebbon quella.        E parve che Cupido mi ferisse  125 di piombo e d'oro; e con quelle due polse        fece che allora non mi dipartisse.        Quella del piombo il buon amor mi tolse,        ch'avea d'Ilbina, e con quella dell'oro,        oh lasso me! che a boschi anco mi volse.  130 Per questo non seguii quel sacro coro;        per questo lascia' io la compagnia,        che mi menava all'alto concistoro.        Risposi a Palla: – O dea, la possa mia        non si confida e forse non può tanto  135 che vinca i mostri e saglia sí gran via. —        Cosí discesi di quel plaustro santo        e giú nell'aspre selve ritornai        intra le spine e punto d'ogni canto.        Ratto ch'io giunsi, Venere trovai,  140 che mi aspettava in una valle piana,        sí bella quanto si mostrasse mai.        Di mirto e rose e d'erba ambrosiana        portava su la testa tre corone        e faccia avea di dea e non umana.  145 Ella mi disse: – Or di': per qual cagione        volevi lasciar me e 'l mio figlio anco        o per Minerva o per muse elicone?        Se sí poco salendo fosti stanco,        se tu fossi ito per quelle erte vie,  150 saresti, andando insú, venuto manco.        Ma, se verrai nelle contrade mie,        le ninfe del mio regno al tuo desio        saran condescendenti e preste e pie.        E quella ninfa, ch'io e 'l figliuol mio  155 t'abbiam mostrata, ancor te la prometto;        e mezzo e guida a ciò ti sarò io.        – O Citarea – diss'io, – a te soggetto        sempre son stato ed anco al tuo Cupido,        sperando aver da voi alcun diletto;  160 onde per tue parole mi confido        la bella ninfa aver, che mi mostrasti,        e, ciò sperando, dietro a te mi guidoper questi lochi sí spinosi e guasti. —
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