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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:et tumulum capit, unde omnes longo ordine possitadversos legere, et venientum discere vultus, ecc.

«In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»; percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.

«Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento. Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa, come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati», da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti, «in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser maggiore.

[Lez. XIV]

«Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá, ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie, chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo De fastis cosí:

Pliades incipiunt humeros relevare paternos:quae septem dici, sex tamen esse solent,Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:nam Steropen Marti concubuisse ferunt,Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:Maian et Electron Taygetenque lovi:septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.Poenitet: et facti sola pudore latet.Sive quod Electra Troiae spectare ruinasnon tulit, ante oculos opposuitque manum.

Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini «virgiliane». Anselmo, in libro De imagine mundi, dice che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla quantitá, percioché «plion» in greco viene a dire «moltitudine» in latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí sono faticate, avendo patito mancamento dʼumido. Che esse abbiano nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta sʼintende per lo elemento del fuoco e dellʼaere, e se nellʼaere umiditá non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse, lʼaere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata: adunque lʼumiditá di queste stelle, che è molta, è cagione di questa sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione forse agevolmente sʼadatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n» al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni e permutazioni di lettere essere neʼ nomi antichi fatte sovente si truovano.

Essendo adunqe costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non solamente dallʼautor posta sia, ma ancora perché la prima nominata: della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io estimo, lʼautore porre qui il fondamento primo della troiana progenie (e per conseguente deʼ discendenti dʼEnea) e della famiglia deʼ Iulii, le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcunʼaltra è stata reputata splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in piú secoli è perseverata neʼ suoi successori: percioché, come assai manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano, figliuolo dʼElettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse diciotto, si pervenne in Numitore, padre dʼIlia, madre di Romolo, edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo dʼAgrippa Silvio, che deʼ discendenti dʼEnea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia, parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in Neron Cesare. E dʼaltra parte, secondo che alcuni si fanno a credere, essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il disfacimento dʼIlione, certi figliuoli dʼEttore essersene andati in Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e deʼ lor discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide daʼ Galli; e appresso, dopo piú centinaia dʼanni, dietro a due giovani reali di quella schiatta discesi, deʼ quali lʼun dicono essere stato chiamato Francone e lʼaltro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver data origine e principio alla progenie deʼ reali di Francia: e cosí infino aʼ nostri di voglion dire che pervenuta sia.

Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se lʼautore voleva il principio di cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché, conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo dʼElettra, cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo questo certo, volle porre lʼautore inizio di questa progenie colei di cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; aʼ suoi cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato figliuolo dʼuomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, aʼ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in Frigia pervenne lʼanno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come detto è, puose in questo luogo primiera.

«Con molti compagni.» Questi estimo erano deʼ discesi di lei, traʼ quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini. Deʼ quali compagni ne nomina lʼautore alcuno, dicendo:

«Traʼ quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di Troia, e dʼEcuba. Costui si crede che fosse in fatti dʼarme e forza corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare nella Iliada dʼOmero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie avute deʼ greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia deʼ prieghi di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo, suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse lʼarmi sue, e Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, lʼuccise, e spogliògli quelle armi, e, quasi dʼAchille tronfando, se ne tornò con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, lʼuccise. E tanto poté in lui lʼodio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo, che, spogliatogli lʼarmi, e legato il morto corpo dietro al carro suo, tre volte intorno intorno alla cittá dʼIlione lo strascinò: e quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura, infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e, portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.

«Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, dʼAnchise troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente, non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia, splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie, e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non pertanto valorosamente contro aʼ greci combatté molte volte per la salute della patria, e tra lʼaltre si mise una volta a combattere con Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella quantitá dʼuomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea, nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi, sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato coʼ suoi amici sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato, per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago dʼAverno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto meno il lume dʼuna stella, la quale dice essere stata Venere, estimò dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino re deʼ laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina, la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re deʼ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno. Ma alcuni altri sentono altrimenti.

Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio che Caton dice che, andando i compagni dʼEnea predando appo Lauro Lavinio, sʼincominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che, avendo Enea avuta vittoria deʼ rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca Virgilio nel quarto dellʼEneida, dove pone le bestemmie mandategli da Didone, dicendo:

At bello audacis populi vexatus, et armis,finibus extorris, complexu avulsus Iuli,auxilium imploret, videatque indigna suorumfunera: nec, cum se sub lege pacis iniquaetradiderit, regno aut optata luce fruatur:sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.Hoc precor, ecc.

E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo dellʼEneida finge che Giunone, sollecita di Turno, nel mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della contrada deificato e chiamato Giove indigete.

«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare, disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice, denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio in libro Duodecim Caesarum dice, quando egli uscí candidato di casa sua, egli lasciò la madre, e dissele: – Io non tornerò a te se non pontefice massimo; – e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e da quel cotale cognominato Cesare ab caesura, cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero, tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto, di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse Plinio, in libro De naturali historia, che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente: e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini: né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».

Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto; percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio, Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse. Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon questi suoi adultèri taciuti in parte daʼ suoi militi, triunfando egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato: – Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare; – ed altri dicevano: – Ecco Cesare, che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si sottomise Cesare. – Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu detto da molti: – Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il calvo adultero. – E nella persona di lui proprio furon gittate queste parole: – Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso in prestanza. —

Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi, accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome sia «Giulia».

«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore, o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia, quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno: avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi, venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e, per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse, Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella, che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.

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