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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo: – Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o avvenga che io giustamente condannato sia. – E, bevuto la venenata composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri, disse: – Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone. – E poi disse: – Se, poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che, partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire. – Né guari stette che egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro, e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle Istorie scolastiche si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e morí regnante il re Assuero.

«E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie; e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide, stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo libro della Filosofia scrivono, finsero Perissione, madre di lui, essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea. E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura eloquenza.

Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino racconta nel quarto della Cittá di Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare. E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi, visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ suoi uditori solennissimi filosofi.

«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli stanno».

«Democrito» (supple) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito, che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso, secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta della cagione, rispose: – Io rido della sciocchezza di tutti quegli li quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo e col corpo tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare, né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora. – Costui, percioché estimò il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl guidava: benché Tullio, nel quinto delle Quistioni tusculane, dice questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico, si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava «tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo, costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel quinto libro delle Quistioni tusculane dice: «Democritus, luminibus amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona, mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate consisteret».

«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.

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