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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio, conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio. E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse aʼ fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di questa vita.

«Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo stato per lo re dʼEgitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché bello figliuolo era paruto alla madre, non lʼuccise, ma servollo tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che passarvi lʼacqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e lʼacqua menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e, fattolo prendere ad una delle sue femmine, lʼaperse, e, trovatovi dentro il picciol fanciullo che piangea, disse: – Questi dee essere deʼ figliuoli delle ebree. – Allora la fanciulla, che il vasello seguiva, disse: – Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che il balisca? – A cui la donna disse: – Vaʼ. – Ed ella andò e menò la madre medesima, la quale, come cresciuto lʼebbe, il rendé alla donna, la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dallʼacqua», e a modo che figliuolo se lʼadottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, perciochʼegli batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se nʼandò in Madian, e quivi coʼ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo dʼIsrael della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che accattar potessero dagli egizi, eʼ prendessero e seguitasserlo, ché egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in tante sʼaperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto, e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra, subitamente nʼuscí per divino miracolo un fiume dʼacqua di soavissimo sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo, esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio; ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del monte, diede al popolo: e però il soprannomina lʼautore «legista». Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo dʼetá di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua sepoltura.

«Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá deʼ caldei, lʼanno quarantatré del regno di Nino, re dʼAssiria. Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne in Canaan, e qui, essendo giá dʼetá di novantanove anni, avendo prima dʼAgar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre, un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ʼl coltello in mano, nʼandò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento dʼIddio, gli fu preso il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare aʼ suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale, essendo giá dʼetá di centosettantacinque anni, morí, e fu daʼ figliuoli seppellito nel campo dʼEfron deʼ figliuoli di Soar Itteo della regione di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara, sua moglie, daʼ figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da «pater», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a dire «principe»: e cosí resulta «principe deʼ padri».

«E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo, il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ondʼegli meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per moglie. Racquistò lʼarca foederis, la quale al popolo dʼIsrael era stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio; ultimamente, essendo daʼ filistei stato sconfitto Saul eʼ figliuoli in Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re. E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli, e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo figliuolo.

«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito sʼera, sí come nel Genesi si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo: – Lasciami. – Al qual Giacob rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò come era il nome suo, a cui esso rispose: – Io son chiamato Iacob. – E quellʼuomo disse: – Non fia cosí: il tuo nome sará Israel, percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai contro agli altri uomini. – E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa cagione i giudei non mangiano di nervo.

«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva origine tratta.

«E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac, suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban, fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole, Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo, similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel. E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.

Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne portassero.

«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia, Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi», cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran salvati;» – e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo, furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene adoperare, la porta del paradiso.

«Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta compagnia».

Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire, dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono dʼalberi.

«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati, «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía». Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon tali, che per gran cose conosciuti fossero.

«Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel quale eravamo.

– «O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼEtica dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste lode dallʼautore attribuite gli sono.]

«Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino a qui abbiam veduti, «gli diparte?» – in quanto hanno alcuna luce, dove quegli, che passati sono, non hanno.

«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me: – Lʼonrata», cioè lʼonorata, «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo. – [Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]

«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè da me, «udita», cosí fatta: – «Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua», cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita», – quando andò al soccorso dellʼautore, come di sopra è dimostrato.

«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire», come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna: «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser di leggiere animo e di volubile.

«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire: – Mira colui con quella spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.

«Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di credere Lucano dove dice:

Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,

dicendo dʼOmero.

Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse: – Colui che al presente nasce morrá cieco; – e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto ab «o», che in latino viene a dire «io», e «mi», che in latino viene a dire «non», ed «ero», che in latino viene a dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e, come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose similmente lʼOdissea, in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion deglʼiddii, e composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea che la Iliada dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

[Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in Atene ed avendo parte della sua Iliade recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo, credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu De verbositate Atheniensium, nel quale egli morse fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che, per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa, turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]

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