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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia fossero tenuti, passato il dì venticinque di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì cinque giugno. Questa deliberazione tanto più era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al pontefice, oltre l'esercizio dell'autorità temporale, la quale sola l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale, poichè il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva adempire nè l'uno nè l'altro ufficio. Taccio la crudeltà di voler torre sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. Nè so comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia padrone di viversene dove più le pare e piace, e che chi è nato in un luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente.
Nè solo la violenza del voler torre i servitori al papa si usò contro coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel regno. Il dì quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale, uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ciò fare niuna legittima facoltà avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo ministro del papa. Accrebbe gravità al caso l'essergli stata fatta l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro il cardinale, perchè obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno. Sclamò il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono.
Eugenio vicerè con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due consiglieri di stato.
Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedeltà all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj, particolarmente del Tridentino. Perciò aveva scritto ai vescovi, decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando infedeltà e fellonìa verso il governo legittimo, e che solo si potesse promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o sedizione contro il governo attuale, ed altresì di essergli fedele ed obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse, se non astretto dall'ultima necessità, e quando il ricusarlo potesse portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi. Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua volontà essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perchè non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di allegrezza nei tempj santi.
La volontà del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perchè dall'un de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. Nè non meritava considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di beni. Vinse nei più la volontà del pontefice: e però già il cardinal Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti; primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti alle pene.
Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati, aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto, voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono: affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e piena la sua potestà spirituale; che a lui solo spettava la facoltà di definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe attentato scismatico e distruttivo dell'unità cattolica, il contraddire pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facoltà loro, la quiete dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente usare. Così era nelle quattro province un conflitto tra armi ed opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra la coscienza e gl'interessi non sapevano più dove volgersi: prigioni a chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione delle Marche, una volta sì prospere e sì felici, ora cadute ed infelici. Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece, con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranità: ma nel restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilità, mentre era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamità innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli.
Pubblicava Pio una solenne protesta:
«Il decreto pubblicato, diceva, d'ordine dell'imperatore e re Napoleone, che subitamente ci spoglia del dominio libero ed assoluto delle province della Marca d'Ancona, dominio, di cui per consentimento di tutti, durante dieci secoli e più, hanno sempre i nostri predecessori goduto, non solamente contro di noi fu fatto, contro di noi per tanti anni da tanti dolori trafitti, da tante tempeste battuti per cagione di colui, che con quella maggiore amorevolezza che per noi si è potuto, abbracciato abbiamo, ma ancora contro la Chiesa Romana, contro la Sedia apostolica, contro il patrimonio del principe degli apostoli. Nè sappiamo, se in questo decreto sia maggiore l'oltraggio della forma, o la iniquità del fatto. Per certo, se in così grave accidente tacessimo, ciò fora meritamente a mancanza del nostro apostolico dovere, a violazione dei giuramenti nostri imputato. Che se poi vogliamo por mente ai motivi del decreto, facilmente ci persuaderemo, maggiore obbligo legarci a rompere il silenzio, perciocchè ingiuriosi sono, e contaminano la purità e l'integrità delle nostre deliberazioni. L'oltraggiare ed il mentire sonsi aggiunti all'ingiustizia. Che un principe inerme e pacifico, che non solo non dà cagione di dolersi di lui ad alcuno, ma che ancora allo stesso imperatore dei Francesi ebbe con tanti manifesti segni la sua affezione dimostrato, i propri interessi e quelli de' suoi sudditi anche offendendo, sia spogliato de' suoi dominj per non aver creduto, che gli fosse lecito di obbedire agli ordini di colui, che gl'ingiungeva di abbandonare la sua neutralità con tanta fede e scrupolo conservata, e di far lega di guerra contro coloro, che a modo nissuno turbato nè offeso l'avevano, già per se sarebbe una grandissima ingiustizia; che se poi un principe, che fosse signore di un grande impero avesse giustissime cagioni di ricusare una lega nemica, qual cosa si dovrebbe dire, e pensare del sommo pontefice, vicario in terra dell'autor primo di pace, obbligato in forza del suo apostolato supremo al ministerio di padre comune, ad un uguale amore verso tutti i fedeli di Gesù Cristo, ad un eguale odio contro tutte le nimicizie? Passa il decreto per dissimulazione artifiziosa sotto silenzio questi obblighi nostri, queste voci della coscienza nostra, obblighi e voci, che tante volte, e per lettere nostre, e per bocca dei nostri legati, candidamente e sinceramente all'imperator Napoleone rappresentammo. Ma l'ingiustizia sua procede anche più oltre, posciachè ci rimprovera l'esserci noi da quest'alleanza astenuti, per non essere obbligati a volgere le armi contro gl'Inglesi esclusi dalla comunanza cattolica. Nella quale ingiustizia contiensi una grande ingiuria: poichè sa egli, quantunque il taccia, quante volte gli protestammo, non poter entrare in una lega perpetua per non essere costretti a guerra contro tanti principi cattolici, a quanti a lui piacesse di far guerra ora e per sempre. Dogliamoci inoltre, come di offesa grave ed odiosa, ch'ei ci accusi di rifiutar l'alleanza, affinchè la penisola resti facilmente esposta agli assalti dei nemici. Sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice tutta l'Europa, che vede da tanti anni le Italiane spiagge occupate da soldati Francesi, sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice l'imperatore stesso, che tace la condizione da noi offerta, ch'ei mettesse in tutt'i porti ed in tutti i lidi nostri i suoi presidj. Havvi in questo silenzio più ingratitudine ancora, che menzogna, posciachè ei non ignora punto, quanto danno ridonderebbe ai sudditi nostri dalla chiusura dei porti, e quanto sdegno contro di noi ne prenderebbero i suoi nemici. Ma se per onestare la sua usurpazione, offende la verità del pari che la giustizia, incredibile da un altro canto è la maraviglia da noi concetta, che pel fine medesimo non gli abbia ripugnato l'animo al servirsi della donazione di Carlomagno. Noi non possiamo restar capaci, come l'imperatore, dopo lo spazio di dieci secoli, s'attenti di risuscitare, e di attribuirsi la successione di Carlomagno, nè come la donazione di Carlomagno risguardi i dominj usurpati della Marca d'Ancona.
«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e manifesto, che per forza di un attentato enorme i diritti della Romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una ferita ancora più profonda è stata a noi ed alla santa sede fatta, acciocchè tacendo non paja ai posteri, che noi l'iniquissimo delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e dell'onore, quanto pure merita non abbiamo (il che sarebbe perpetua vergogna nostra) a sdegno ed abborrimento avuto, di nostro proprio moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e solennemente, ed in ogni miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre, che sono nella Marca d'Ancona, e la unione loro al reame d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperator Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle: dichiariamo altresì, e protestiamo, nullo essere, e di niun valore quanto sino al giorno d'oggi si è fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo, che anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto, e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di dominio, che di possessione sulle medesime terre; perchè sono, e debbono essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica».
Così Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui protestava. Così ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna, usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San Vincenzo per accarezzarlo.
LIBRO VIGESIMOQUARTO
SOMMARIONuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo degli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè, generalissimo dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani. L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualità di Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra. L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta, poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda. Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi.
Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità. L'Austria depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le disgrazie presenti per la speranza del futuro. Nè solo la spaventavano i patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le profferte segrete, poichè Napoleone le esibiva ingrandimento nella distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di riscuotersi; però risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la sua cupidità, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquità commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare, con fare che le compagnìe d'ordinanza non solo avessero i numeri interi, ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si doleva Napoleone di sì romorosi apparecchj, affermando, non pretendere coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco, l'avere conservato la monarchìa Austriaca, quando la poteva distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servitù. Solo le mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei Bavari. Era questo moto di grave momento sì per la natura bellicosa della nazione, e sì per tener aperte le strade tra i due eserciti di Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento è sempre l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria, delle dure condizioni presenti, del futuro giogo più duro ancora ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, nè mai più promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai ella aveva fatto sì formidabile preparazione.
A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore. Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò non di meno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava meglio armato, e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli medesimo alla guerra Germanica, perchè vedeva che sulle sponde del Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome, fuorchè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante, al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino.
L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì nove aprile, al medesimo modo intimò la guerra a Broussier, che colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio vicerè, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra: poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente, del quale avevano già dato con le opere sì vere testimonianze: confidare che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed indulgente affetto.