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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Troppo seriamente rispondeva il pontefice alle allegazioni di Napoleone, perchè niuno meno le stimava, che Napoleone stesso. Certamente se a quel modo si rivangassero tutte le ragioni antiche, o vere o finte, ma consumate dalla vecchiezza, nissuna possessione certa più vi sarebbe, ed il mondo andrebbe tutto in un fascio. Instava adunque minacciosamente l'imperatore col pontefice, entrasse nella confederazione Italica coi re d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse i suoi nemici, e per amici gli amici. Ma avendo il papa costantemente ricusato di aderire, si era ridotto a richiedere che il pontefice facesse con lui una lega difensiva ed offensiva, e medesimamente tenesse i suoi amici per amici, i suoi nemici per nemici: quando no, lo stimerebbe intimazione di guerra, avrebbe il papa per nemico, Roma conquisterebbe. La condizione proposta, non che migliorasse, peggiorava quella del pontefice; perciocchè solo scopo della confederazione fosse l'unirsi contro gl'infedeli, e contro gl'Inglesi, mentre la lega difensiva ed offensiva importava, che il papa dovesse far guerra a qualunque principe o stato, che fosse in guerra coll'imperatore; dal che ne poteva nascere nel papa la necessità, non solamente di far guerra ad un principe cattolico, ma ancora di unirsi ad un principe non cattolico per far guerra ad un cattolico, condizione del tutto insopportabile alla Sedia apostolica. A questi motivi aggiungeva il pontefice, che se si videro papi far leghe e guerre contro principi cattolici, non si leggeva però nelle storie, ch'eglino si fossero obbligati perpetuamente ad incontrar nimicizia e ad aver guerra con chiunque, a cui piacesse ad altri intimare nimicizia e guerra, senza che dei motivi potessero giudicare, e solo perchè ad altri piacesse assumersi nemicizie e guerre. Sclamava poscia papa Pio, sentire l'animo suo orrore e dolore, ricordandosi essere stato richiesto dall'imperatore di un trattato d'alleanza, pel quale avrebbe egli dovuto obbligarsi a tener per nemici tutti i suoi nemici, e a dichiarar la guerra a quanti l'imperatore, od i suoi successori, in perpetuo dichiarata l'avessero. Non esser questo armare il padre contro i figliuoli? Non i figliuoli contro il padre? Non mescolare in infinite questioni la chiesa di Dio, in cui come in proprio santuario, seggono la carità, la pace, la dolcezza, e tutte le virtù? Non volere, che il sommo pontefice non più Aaron sia, ma Ismaele, uomo crudo e selvaggio? Non volere che alzi la mano contro tutti, e che tutti l'alzino contro di lui? Non volere che drizzi le nimichevoli insegne contro i suoi fratelli? A questo modo forse nella chiesa di Dio introdursi la pace? A questo modo la pace che il divino salvatore lasciò agli apostoli, ai pontefici loro successori, ed a lui? Cercasse l'imperatore questa pace, che è la pace dei savj, pace migliore delle armi dei guerrieri: la pace dei savj cercasse, dei savj, che sono la salute del mondo: quella sapienza cercasse, per cui un re prudente è il sostegno del suo popolo, che se cercare non la volesse per se, lasciassela almeno, quale eredità propria, ai pontefici, ai quali l'aveva data Cristo redentore. Essere il pontefice padre comune di tutti i fedeli, a loro obbligato di tutti i sussidj spirituali, nè potere più continuargli a coloro che fossero sudditi di un principe, contro il quale in virtù della lega fosse stato tirato a guerra. Doppia qualità nel Romano pontefice risplendere, sovranità temporale, e sovranità spirituale, non potere per motivi temporali offendere la primaria sua qualità, la spirituale, nè recar pregiudizio a quella religione, di cui egli era capo, propagatore, e vindice.

Avendo papa Pio con sì gravi querele esposto l'animo suo a Napoleone, andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio l'imperatore volesse consumar le sue minacce, impossessandosi degli stati della Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua santità a tali funesti avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione violenta ed iniqua. Dichiarerebbe inoltre, che non già l'opera del genio, della politica e dei lumi (imperciocchè di queste parole appunto si era servito Napoleone, favellando degli ordinamenti della Romana sede) sarebbe distrutta, ma bensì l'opera dello stesso Dio, da cui ogni sovranità procede: adorerebbe sua santità profondamente i decreti del cielo, consolerebbesi col pensiero che Dio è il padre assoluto di tutti, e che tutto cede al suo divino volere, quando arriva la pienezza dei tempi da lui preordinata. Queste profetiche parole diceva Pio a Napoleone. L'imperatore perseverò nel dire, che a questo principio mai non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del sovrano, sotto il dominio del quale e' sono nati, e che intenzion sua era, che tutta l'Italia, Roma, Napoli e Milano, facessero una lega offensiva e difensiva per allontanar dalla penisola i disordini della guerra. Questa sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione non doveva e non poteva essere interrotta, nè in pace, nè in guerra per uno stato intermedio, che a lui non s'appartenesse, tra i suoi stati di Napoli e di Milano. Inoltre voleva e comandava, che i porti dello stato pontificio fossero, e restassero serrati agl'Inglesi. Alle quali intimazioni aveva il pontefice risposto, oltre che se Napoleone si aveva preso Napoli, Toscana e Milano, non era certamente colpa del papa, che nelle guerre anteriori tra Francia, Austria e Spagna lo stato pontificio era sempre stato intermedio senza che queste potenze se ne dolessero, e prendessero pretesto per torre lo stato ai sovrani di Roma, e nel caso presente la interruzione non sussisteva, essendo lo stato Romano occupato dai soldati dell'imperatore, che con ogni libertà, e con intollerabile aggravio della camera apostolica andavano e venivano dal regno d'Italia al regno di Napoli, e così da questo a quello: che quanto al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della concordia, all'imperatore.

Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse manca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello, che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e d'Italia e del mondo. Perchè poi la forza fosse ajutata dall'inganno, accompagnava le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà per la potestà secolare. Non esser buoni i preti, diceva, per governare: immersi nei loro studj teologici non conoscere gli uomini: avere Roma abbastanza turbato il mondo: non comportare più il secolo le Romane usurpazioni; avere i lumi fatto conoscere a quale stima debbano esser messi i decreti del Vaticano: ad ognuno oggimai esser noto, quanto assurda cosa fosse il mescolare l'imperio col sacerdozio, il temporale con lo spirituale, la corona con la tiara, la spada con la croce: avere Gesù Cristo detto, che il regno suo non era di questo mondo: non dover essere di questo mondo il regno del suo vicario: pel bene della cristianità, non perchè vi seminassero discordie e guerre, avere Carlomagno dato ai papi la sovranità di Roma: poichè ne volevano abusare, doversi la donazione annullare: non più sovrano, ma solamente vescovo di Roma fosse Pio: a questo modo, e nel tempo stesso provvedersi ai bisogni della religione ed alla quiete universale. Così Napoleone si era servito della religione contro la filosofia per farsi imperatore, poi si servì della filosofia contro la potenza pontificia per farsi padrone di Roma, stimolando a vicenda, secondochè le sue ambizioni portavano, i preti contro i filosofi, i filosofi contro i preti. Prevedendo che un gran numero di fedeli in Francia, abbracciando la giustizia della causa del pontefice, avrebbero sentito mal volentieri le sue risoluzioni contro di lui, e che le avrebbero chiamate persecuzione, parola di molta efficacia fra i cristiani, si voltava a lusingare secondo l'arti sue, i Francesi, con pruovarsi di accrescere la dignità e l'autorità della nazione nelle faccende religiose. Pensava che i Francesi, avendo il predominio temporale, avrebbero anche amato lo spirituale. Perciò instantemente richiedeva, anche colla solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non consentisse, il papa, che riconoscesse in lui il diritto d'indicare alla santa Sede tanti cardinali, quanti bastassero, perchè il terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali Francesi. Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi: se ricusava, avrebbe paruto alla nazione Francese che egli le negasse ciò, che per la sua grandezza credeva meritarsi. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda, che vulnerava la libertà della Chiesa, ed offendeva la sua più intima constituzione: a chi non era noto, essere i cardinali la più principale, e la più essenzial parte del clero Romano? Il primo dover loro essere il consigliare il sommo pontefice. A chi appartenersi, a chi doversi appartenere la elezione degli uomini atti a tanta dignità, atti a tanto carico, se non a colui che da loro debb'essere consigliato? Hanno i principi della terra i loro consiglieri, da loro eletti; alla sola Romana Chiesa, al solo Romano pontefice fia questa facoltà negata? Essere i cardinali non solamente consiglieri, ma ancora elettori del papa. Ora quale libertà poter essere nella elezione, se un principe secolare un numero sì grande d'elettori potesse nominare? Se a Napoleone si consente, gli altri principi non la pretenderanno eglino? Non sarebbe allora il pontefice Romano posto del tutto in balìa dei principi del secolo? Convenirsi certamente, che di ogni cattolica nazione siano eletti cardinali, ma la convenienza non esser obbligo: sola norma, sola legge dover essere al papa il chiamar cardinali coloro, che più per virtù, per dottrina, per pietà risplendono, di qualunque nazione siano, qual lingua parlino. Sapere il pontefice, che il suo rifiuto sarebbe volto dai malevoli a calunnia, come se il santo padre non avesse nella debita stima il clero di Francia; ma chiamare Dio e gli uomini in testimonio de' suoi affetti diversi: conoscergli il clero stesso, conoscergli l'imperatore, conoscergli il mondo, che già vedeva sedere nel sacro collegio, oltre due Genovesi ed un Alessandrino, sei cardinali Francesi; un altro dotto e virtuoso prelato volervi chiamare; di ciò contenterebbesi chi contentabil fosse; ma non poter il santo padre contentar altri di quello, di cui non si contenterebbe egli stesso.

Non si rimoveva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali, o si piglierebbe Roma. Tentato di render Pio odioso ai Francesi, il volle fare disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro, che a Roma il rappresentavano.

L'appetita Roma veniva in mano di colui, che ogni cosa appetiva. Se vi fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. S'avvicinavano i Napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano seimila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per opprimere un papa; Alquier, ambasciadore di Napoleone presso la santa Sede, anch'ei vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato, e ritraeva di vantaggio del suo signore. Era giunto il mese di gennajo al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni cardinale, segretario di stato, che seimila Napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo stato Romano; che Miollis prometteva, che passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal fama, che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario dei soldati, dal quale appariva, che veramente indirizzavano verso il regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città. Di tanta mole era l'ingannare un papa! Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi, che andassero a Napoli, quelli, che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e dichiarasse apertamente, e senza simulazione alcuna, il motivo del marciare di questi soldati, acciocchè sua santità potesse fare quelle risoluzioni, che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, avere mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare, che ciò basterebbe per soddisfare i ministri di sua santità. Il tempo stringeva: i comandanti Napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti, sul papa, e sui soldati del papa, minacciavano, che entrerebbero in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini erano i Napoleoniani, che vedevano le mura della Romana città. Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con asseverazione grandissima, che erano solamente di passo, e non avevano nissuna intenzione ostile. I Napoleoniani intanto, arrivati più presso, assaltarono a armata mano il dì due febbrajo la porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierìe loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione quieta del pontefice. La posterità metterà al medesimo ragguaglio le promesse di Alquier, ed il suo invocar la fede di un generale da una parte, dall'altra quello sdegnarsi di Ginguenè, ambasciatore del direttorio a Torino, al solo pensare, che il governo Piemontese potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare contro il re della possessione della cittadella. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti, Miollis domandava per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire, che non per suo comandamento le bocche dei cannoni erano state volte contro il Quirinale palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma, ed al capo della cristianità consistesse in questa sola violenza, che certamente era molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, che era pure l'importanza del fatto, non fece parola.

Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusava Napoleone dello aver dato asilo ne' suoi stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori contro lo stato di Murat; per questo affermava, aver occupato Roma: il papa stesso accagionava di connivenza. Alquier gliene fece querele, quasichè non sapesse, che i soldati di Napoleone già da lungo tempo erano padroni dello stato ecclesiastico, che di propria autorità, e contro il diritto delle genti vi avevano arrestato e carcerato uomini sospetti, o non sospetti, e che il governo pontificio stesso, ogni qual volta che ne era stato richiesto, aveva ordinato arresti, e carcerazioni d'uomini sospetti a Francia. Del rimanente voleva Alquier, non so se per pazzìa, o per ischerno, che il papa avesse, e trattasse ancora, come amiche, le truppe, che violentemente avevano occupato la sua capitale, e la sede del suo governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello, che contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto non potè più contenere se medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse all'ambasciadore Napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati, che rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione, e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario, e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva, che essendo privato della sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più, nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e sicura libertà.

Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante Napoleonico intimava ai cardinali Napolitani Ruffo-Scilla, Pignatelli, Saluzzo, Caracciolo, Caraffa, Trajetto, e Firrao nel termine di ventiquatt'ore partissero da Roma, e tornassero a Napoli. Se nol facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima, termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali nati nel regno Italico, che furono quest'essi: Valenti, Caradini, Casoni, Crivelli, Giuseppe Doria, Della-Somaglia, Roverella, Scotti, Dugnani, Braschi-Onesti, Litta, Galeffi, Antonio Doria, e Locatelli. Risposero, stare ai comandamenti del pontefice; farebbero quanto ordinasse.

A tanto oltraggio il pontefice, quantunque in potestà d'altri già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse ai cardinali, si ricordassero degli obblighi e dei giuramenti loro verso la santa Sede, imitassero il suo esempio, sofferissero piuttostochè contaminarsi, non potere sua santità permettere che partissero; proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a lui giurato avevano. Raccomandava, e comandava loro, prevedendo che la forza gli avrebbe indegnamente divulsi dal suo grembo, che se a qualche distanza di Roma fossero lasciati, non continuassero il viaggio; vedesse il mondo che la forza altrui, non la volontà loro, gli sveglieva da Roma.

La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati Napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le guardie pontificie, ogni cosa recarono in poter loro. Postovi poscia soprantendenti e spie, non solamente s'impadronivano degli spacci, ma ancora, secondochè loro aggradiva, aprivano e leggevano le lettere, enorme violazione della fede sì pubblica che privata, e del diritto delle genti. Al medesimo fine invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto permettevano essi, stampare si potesse. Quindi nasceva che nelle scritture che ogni giorno si pubblicavano, massimamente nelle gazzette, le adulazioni verso Napoleone, e gli scherni contro il papa erano incessabili. Il papa stesso non potè pubblicare colle stampe una sua allocuzione ai cardinali del mese di marzo, e fu costretto a mandarne le copie attorno scritte a penna, ed autenticate di suo pugno.

Tolta al papa la forza civile, si faceva passo al torgli la militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le Napoleoniche glorie e la felicità degl'imperiali soldati magnificando. Esortavansi instantemente i papali ad abbandonar le insegne della chiesa, ed a porsi sotto quelle dell'imperio. Pochi consentirono; i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni, toccossi il rimedio della forza; l'atto cattivo fu accompagnato da parole peggiori. Parlava Miollis il dì ventisette marzo ai soldati del papa: essere l'imperatore e re contento di loro, non esser più all'avvenire per ricever ordini nè da femmine, nè da preti; dovere i soldati esser comandati da soldati; stessero sicuri, che non mai più tornerebbero sotto le insegne dei preti; darebbe loro l'imperatore e re generali degni per bravura di governargli. Questi erano scherni molto incivili. Del rimanente, che le femmine ed i preti abbiano comandato a soldati, in quel modo che il diceva il generale Napoleonico, poichè nè il papa, nè i cardinali, nè alcuna donna di Roma erano generali, o colonnelli, si è veduto (il che però io non sarò mai per lodare) in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche in Francia, e nel regno ultimo d'Italia. Miollis stesso vide peggio, poichè vide Elisa principessa, e Carolina regina, Napoleonidi, far rassegne e mostre, e comandar mosse d'imperiali soldati. Un Frici colonnello, mancando nella fede, si accomodò coi nuovi signori: fu accarezzato. Un Bracci colonnello ricusò: fu carcerato, poi bandito. Carcerati altri tre, e mandati, per aver conservato la fede loro, nella fortezza di Mantova. A questo modo stimavano e ricompensavano i Napoleoniani gli uomini fedeli ai loro principi ed alle loro patrie. I soldati furono per forza costretti alle insegne Napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno Italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.

Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie, piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Napoleoniani che quest'ultimo suo ricetto fosse turbato dalle armi forestiere, non contenti, se non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto. Andavano il dì sette aprile all'impresa del prendere il pontificale palazzo; s'appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrar gente armata, ma solamente l'uffiziale che le comandava. Parve soddisfarsene il capitano Napoleonico: fatto fermar i soldati, entrava solo; ma non così tosto fu lo sportello aperto e l'ufficiale entrato, che aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero. Entrarono: volte le baionette contro lo svizzero, occuparono l'adito. S'impadronirono, atterrando romorosamente le porte, delle armi delle papali guardie; i più intimi penetrali invasero. Intimarono al capitano della guardia Svizzera, sarebbe ai soldi e sotto le insegne di Francia: ricusò costantemente. Le medesime intimazioni fecero alle guardie delle finanze, e perchè ricusarono, le condussero carcerate in castello. Intanto altri corpi di Napoleoniani giravano per la città: quante guardie nobili incontrarono, tante arrestarono.

Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis; ma le sue querele non muovevano il generale Napoleonico; che anzi negli eccessi moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidobono Cavalchini, governator di Roma, ordinando che fosse condotto a Fenestrelle, fortezza alle fauci dell'Alpi sopra Pinerolo, che fondata dai re di Sardegna a difesa d'Italia, era ora per volontà di Napoleone divenuta carcere degl'Italiani, che anteponevano la fede alla fellonìa. Accusarono Cavalchini dello aver negato di ministrar giustizia secondo le leggi e regole del paese; del quale fallo, se era vero, il papa solo, non i forestieri, doveano giudicare. I napoleoniani portarono il prelato dentro i cavi sassi dell'orrido Fenestrelle.

A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di se medesimo, in istile grave e profetico a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio, che è cagione, che il sole levante venne dall'alto a visitarci, esortiamo, preghiamo, scongiuriamo te, imperatore e re Napoleone, a cambiar consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno manifestasti: sovvengati, che Dio è re sopra di te: sovvengati, ch'ei non eccettuerà persona; sovvengati, ch'ei non rispetterà la grandezza d'uomo che sia; sovvengati, ed abbi sempre alla mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile, poichè quelli che comandano agli altri, saranno da lui con estremo rigore giudicati».

Napoleone cieco, e dall'inevitabile suo destino tratto, non attendeva alle spaventose e fatidiche voci del pontefice. Decretava il due aprile, che, stantechè il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola; stantechè l'interesse dei due reami, e dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una potenza nemica; stantechè la donazione di Carlomagno, suo illustre predecessore, degli stati pontificj era stata fatta a benefizio della cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione; stante finalmente che l'ambasciadore della corte di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti, le province d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al suo regno d'Italia: il regno Italico il dì undici maggio prendesse possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per esecuzione del decreto.

Già innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro province, non solamente usato l'autorità sovrana con manifesta violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorità di governatore il generale Lemarrois, il quale non così tosto vi fu giunto, che cassò dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostituì quelle dell'imperatore, diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice.

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