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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Carlo Botta

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

LIBRO VIGESIMOTERZO

SOMMARIO

Guerra di Napoleone col re di Prussia; gran ruina di quest'ultimo. Adulazioni degl'Italiani verso Napoleone. Trattato di Fontainebleau, che toglie il Portogallo ai Braganzesi. Toscana tolta alla stirpe di Spagna, ed unita alla Francia sotto l'autorità di Elisa, sorella di Napoleone. Operazioni della giunta creata in Toscana. Descrizione delle miserie d'Italia. Opere magnifiche di Napoleone. Toglie la Spagna ai Borboni. Giovacchino re di Napoli, Giuseppe di Spagna. Giovacchino va ad assumere il regno, feste che gli si fanno, principj, e natura del suo governo. Setta dei Carbonari, come, quando, dove e perchè nata, e quali erano i suoi riti. Napoleone si volta contro il papa, unisce le Marche al regno Italico, occupa Roma, fa oltraggio al papa: protestazioni fortissime di Pio settimo. Dolorose vicende nelle Marche per motivo dei giuramenti richiesti ai magistrati ed agli ecclesiastici.

Il re Federigo sentiva i frutti delle gratitudini Napoleoniche. Vinta l'Austria per avere la Prussia imprudentemente tenuta la neutralità, insorgeva Napoleone a vincere la Prussia, dopo di aver prostrato l'Austria. Usò le insidie, le insolenze e le usurpazioni per farla vile agli occhi del mondo; poi assalti più aperti per farla risentire, non dubitando di vincerla. Invase l'Hannover, ed operò ch'ella l'accettasse in proprietà, dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti. Offese la Germania nel caso del duca d'Anghienna; non risentissi la Prussia. Portò pazientemente il re l'incoronazione Italica, l'unione di Genova, il fatto di Lucca, le non ottenute promesse al re di Sardegna: portò pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui territorj Germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le violazioni delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si faceva signore Napoleone per la confederazione del Reno: consentiva il re Federigo, ed accettava l'offerta di una confederazione a suo favore della settentrionale Germania; ma Napoleone confortava segretamente i principi, acciò non vi consentissero. Nè più modo alcuno serbando, toglieva Fulda al principe d'Orangia, congiunto di parentela col re, toglieva al re la fortezza di Vesel, e le abbazìe di Essen, Verden ed Elten. Prometteva alla Prussia la Svedese Pomerania, ed al tempo stesso con solenne trattato si legava colla Russia per impedire, che la Prussia della Pomerania s'impadronisse: il dato ed accettato Hannover offeriva al re d'Inghilterra, se pace con lui volesse. Nuovi soldati Napoleoniani marciavano in Germania. Conobbe il re con quale amico avesse a fare, e corse all'armi: corse altresì al ferro Napoleone. Bene il poteva usare, posciachè il re veniva armato contro di lui; ma gl'improperj che fece dire e stampare contro la regina, furono tali, che ogni uomo, che del tutto non sia lontano dalla civiltà, non potrà non sentirne sdegno e fastidio. Io vidi a questo tempo immagini di tal natura nei luoghi pubblici in mostra, che mi pareva aggirarmi, non nell'incivilito Parigi, ma sì piuttosto in una città rozza e selvaggia. Luisa era donna, regina, ed amatrice della sua patria, ed all'armi gli amatori della sua patria incitava: per questo diventò bersaglio agli oltraggi di un barbaro. Queste gravi parole contro Napoleone appruoveranno coloro, che con sì devoto e patrio affetto hanno alzato gli altari alla Domremese vergine; di quelli, che fanno scherno dei difensori delle loro patrie, non è da prender pensiero.

Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Iena, fu prostrata a Maddeburgo ed a Prenslavia. Berlino, capitale dei regno, le fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo, vennero in potere del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente mosse dal re Federigo per stimolo proprio, e per quelli d'Alessandro di Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in ajuto del vinto amico; ma Napoleone sopravvanzava d'ardire, di forza e di arte. Fu asprissima la battaglia di Eylau, e d'esito incerto. Incrudelita la stagione, ritiraronsi i Francesi di qua della Vistola, i Russi di là della Pregel. Intiepiditosi il tempo al nuovo anno, s'avventavano gli uni contro gli altri Francesi e Russi: vari furono i combattimenti, sanguinosi tutti; infine nei campi di Fridlandia conflissero con ordinanza piena i due nemici. Quivi cadde la fortuna Russa. Napoleone vincitore ai confini di Alessandro sovrastava: addomandava Alessandro i patti. Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete tra di loro si spartissero il mondo: avessesi Napoleone quella parte che è compresa da un lato tra una linea tirata dalla foce della Vistola sino all'isola di Corfù, dall'altro tra le spiagge del Baltico, dell'Oceano, del Mediterraneo e dell'Adriatico: avessesi Alessandro il rimanente. Quale di questo sia la verità, convennero sulle sponde del Niemen in trattato aperto: riconobbe Alessandro il nome e la autorità regia in Giuseppe Napoleone, come re di Napoli, ed in Luigi Napoleone, come re d'Olanda; consentì, che un regno di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo Napoleone, fratello minore di Napoleone, s'investisse, accordò che un ducato di Varsavia si creasse, e che duca ne fosse Federigo Augusto di Sassonia: riconobbe la Renana confederazione: stipulò per articolo segreto, che le bocche di Cattaro si sgombrassero dai Russi, e si consegnassero in potestà di Napoleone. Convenne in fine, che le sette isole Ioniche cedessero in possessione del medesimo, stipulazione enorme, perchè la independenza loro era stata accordata tra la Russia e la Porta Ottomana, nè poteva l'opera di due parti essere disfatta da una sola.

I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti dalle lingue o dalle penne degli uomini siano stati mandati alla memoria dei posteri. L'avere vinto con sì grossa e presta guerra l'Austria, poi poco dopo con sì grossa e presta guerra la Prussia, finalmente con grossa e non lunga guerra la Russia, pareva piuttosto accidente favoloso che vero. Volgevano gli uomini maravigliati nelle menti loro la potenza ed il valore degli Austriaci, la gloria ancor fresca di Federigo, le imprese mirabili di Suwarow con la sparsa fama dell'invincibilità dei Russi, nè potevano restare capaci, come una sola nazione ed un solo capitano avessero potuto soldati tanto valorosi, capitani tanto rinomati quasi prima vincere che vedere. Temeva ed adorava il mondo Napoleone, i principi i primi, anche i più potenti, i popoli i secondi. Non v'era più luogo all'adulazione; perchè le lodi, per smisurate che fossero, parevano minori pel vero, nè i poeti più famosi, quantunque con ogni nervo vi si sforzassero, potevano arrivare a tanta altezza. I poeti il chiamavano Giove, i preti braccio di Dio, i principi fratello e signore.

Un mezzo solo gli restava per accrescere la gloria acquistata; quest'era di usarne moderatamente; che se avesse frenato le lingue dell'età adulatrice, e precipitantesi a servitù, bene avrebbe meritato che le adulazioni lodi si chiamassero; ma amò meglio dilettarsi pruovando quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli uomini, che fare generoso se ed altrui. Lascio le adulazioni Francesi, Austriache, Prussiane, Russe, solo parlerò dell'Italiane. A questo fine dell'adulare erano stati chiamati a Parigi i deputati del regno Italico. Gamboni, patriarca di Venezia, favellava, introdotto all'udienza nell'imperial sede di San Clodoaldo, con servilissimo discorso al signore. Venire gl'Italiani a far tributo ai suoi piedi dell'ammirazione, dei desiderj, dell'amore, della fedeltà loro; godere per essere i primi a potere questo debito adempire verso l'eroe, verso il principe potente ed amatissimo, nissuno più degl'Italiani amarlo, nissuno con pari gratitudine venerarlo: avere lui redento la Francia, ma creato l'Italia: avere gl'Italiani pregato il cielo per la salute sua nei pericoli, ringraziarlo ora per le vittorie, ringraziarlo per la pace: benignamente udisse le supplichevoli preghiere dei sottomessi ed amorosi Italiani: gisse, venisse, vedesse quell'Italia da tanto bassamento alzata, da tanta abiezione ricompra, a tanto fortunate sorti avviata. Questo desiderare, questo instantemente supplicare, questo sperare dalla paterna benevolenza sua, questo essere la più compita, la più suprema felicità loro.

Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia: con piacere avergli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo: sperare, che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo egli, che aveva contaminato con ischerni una valorosa donna, solo perchè contro di lui la sua patria aveva amato e difeso, venne in sul dire, che le donne Italiane dovevano allontanare da se stesse gli oziosi giovani, nè permettere che più languissero negl'interni recessi, o comparissero al cospetto loro, se non quando portassero cicatrici onorevoli. Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia volentieri, sapere quanto i Veneziani l'amassero. Sorse in corte un gran parlar di lode pel discorso di Napoleone: tutti il predicarono per molto bello. Quella parte massimamente che aveva toccato dell'amor dei Veneziani verso di lui, era molto commendata.

Accarezzato dai monaci del Cenisio; festeggiato dai Torinesi testè liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale, il buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella reale ed accetta Milano. Le feste furono molte; i soldati armeggiavano, i poeti cantavano, i magistrati lusingavano, i preti benedicevano. Trattò Melzi molto rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè poi fosse meglio rintanato, il creò duca di Lodi. Dolsimi in queste storie di molte funeste cose, e di molte ancora dorrommi, ma di niuna più mi doglio o dorrommi, che dello aver veduto contaminato dai soffi Napoleonici un Melzi.

Ed ecco che Napoleone arriva a Venezia. Luminaria per tutta la città; di notte il canal grande chiaro come di giorno; la piazza di San Marco più chiara del canale; regata, balli, teatri, e quel che è peggio, plausi di voci e di mani. Si mostrò lieto, e contento in volto. Ciò non ostante aveva paura di essere ucciso; Duroc, gran maestro del palazzo, fu più diligente del solito nel visitar cantine e cisterne. Alcuni Veneziani si aggirarono intorno al signore con fronte lieta e serena. L'età portò, che brutto e splendido servire più piacesse, che vita onorata ed oscura.

Tornato a Milano udiva i collegi, ed ai collegi parlava. Accusò gli antenati, parlò di patria degenere dall'antica; affermò molto aver fatto per gl'Italiani, molto più voler fare; ammonigli, stessero congiunti con Francia; ricordò loro, che da quella ferrea corona si promettessero l'independenza. Corsa trionfalmente la Lombardìa, nuovi Italici pensieri gli venivano in mente, e gli mandava ad esecuzione: sotto il suo dominio da ruina nasceva ruina. Aveva, a cagione che il principe reggente di Portogallo si era ritirato dal voler fare contro gl'Inglesi tutto quello ch'egli avrebbe voluto, per un trattato sottoscritto a Fontainebleau con un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi signori, che vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi. Per esso si accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del Portogallo tra Mino e Duero, colla città di Porto, cedessero in proprietà e sovranità del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della Lusitania settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della Pace con titolo di principe dell'Algarve, che il Beira ed il Tramonti, e l'Estremadura di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace; che il re d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Francesi; che un esercito Napoleonico entrasse in Ispagna, e congiuntosi con lo Spagnuolo occupasse il Portogallo. Covava fraude contro Portogallo, fraude contro Spagna per l'introduzione dei Napoleoniani. I Braganzesi, avuto notizia del fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono pel Brasile sopra navi proprie ed Inglesi. Napoleone levò un gran romore della partenza, ed imputò loro a delitto l'essere fuggiti, come diceva, con Inglesi, come se in servitù di lui fossero stati obbligati a restare.

Il dì ventidue novembre i ministri di Spagna e di Francia, nelle stanze di Maria Luisa, regina reggente di Toscana, entrando, le intimarono, essere finito e ceduto a Napoleone il suo Toscano regno, e che in compenso le erano assegnati altri stati da godersegli col suo figliuolo Carlo Lodovico. Fu a questa volta taciuta la parola perpetuamente; il che se indicasse sincerità o dimenticanza, io non lo so. Restava, che ad un comandamento fantastico succedesse una umiltà singolare. Significava la regina a' suoi popoli, essere la Toscana ceduta all'imperator Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi con diletto del Toscano amore, rammaricherebbesi della separazione, consolerebbesi pensando, passare una nazione sì docile sotto il fausto dominio di un monarca dotato di tutte le più eroiche virtù, fra le quali, per servirmi delle stesse parole che usò la regina, dette così com'erano alla segretariesca, fra le quali campeggiava singolarmente la premura la più costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei popoli ad esso soggetti. Non seguitò la regina reggente in Toscana le vestigia Leopoldiane, anzi era andata riducendo lo stato a governo più stretto, e più compiacente a Roma. Arrivò il generale Reille a pigliar possesso in nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza; cassaronsi gli stemmi di Toscana, rizzaronsi i Napoleonici: arrivava Menou Egiziaco a scuotere le Toscane genti; Napoleone trionfatore, tornando a Parigi, tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa, e di Carlo Ludovico.

L'asprezza di Napoleone, e la natura rotta e precipitosa di Menou mitigava in Toscana una giunta creata dal nuovo sovrano, e composta di uomini giusti e buoni, fra i quali era Degerando, che solito sempre a sperare, a supporre, ed a voler bene, credeva che l'imperatore fosse fatto a sua similitudine. Avevano il difficile carico di ridurre la Toscana a forma Francese. Erano in questa bisogna alcune cose inflessibili, alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini giudiziali, amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova provincia senza modificazione: degli ultimi non potevano i Toscani darsi pace, parendo loro cosa enorme, che dovessero andar alle guerre dell'estrema Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo signore. S'adoperava la giunta, non senza frutto, a far che la nuova signorìa meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria, opinando in ciò molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che non gettasse più del quinto, nè meno del sesto della rendita. Non trascurava la giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio volle tirarvi la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane diede favore al far venir pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia Sanese. Delle berrette di Prato, dei capelli di paglia, degli alabastri, e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali del Toscano commercio, con iscuole apposite, con carezze, e con premj particolar cura aveva. Domandò a Napoleone, che permettesse le tratte delle sete per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile per tener in fiore le manifatture dei drappi, e la coltivazione dei gelsi nella nuova provincia. Richiese anche dal signore, che concedesse una camera di commercio a Livorno, a guisa di quella di Marsiglia, acciocchè i Livornesi potessero regolare da se, e non per mezzo dei Marsigliesi, le proprie faccende commerciali: non solo buona, ma sincera e disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava contro Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo il commercio del Levante con Livorno.

I commodi di terra pressavano nei consigli della giunta, come quei di mare. Supplicava all'imperatore, aprisse una strada da Arezzo a Rimini, brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico; ristorasse quella di Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze a Bologna pel Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella, che insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo e Perugia. Nè gli studj si omettevano; consiglio degno del dotto e dabben Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i sussidj loro ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento, della Crusca, del Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava Degerando, e la feconda terra ancora a lui degnamente rispondeva, dolci compensi di un amaro signore.

Arrivava gennajo intanto: cessava la giunta l'ufficio, dato da Napoleone il governo di Toscana ad Elisa principessa, gran duchessa nominandola. La quale Elisa o per natura, o per vezzo, simile piuttosto al fratello, che a donna, si dilettava di soldati, gli studj e la Toscana fama assai freddamente risguardando. A questo modo finì la Toscana patria, passata prima da repubblica nei Medici per usurpazione, poi dai Medici negli Austriaci per forza dei potentati, ai quali piacque quella preda per accomodar se medesimi, dileguatasi finalmente e perdutasi del tutto nell'immensa Francia.

Similmente, ed al tempo stesso Napoleone univa all'impero il ducato di Parma e Piacenza, dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero.

Non so, se chi avrà fin qui letto queste nostre storie, avrà quanto basta, posto mente alle miserie d'Italia. Il Piemonte due volte repubblica, due volte regno, tre volte sotto governi temporanei, calpestato dagli agenti repubblicani sotto il re e sotto il primo governo temporaneo, straziato dagli agenti imperiali, Russi ed Austriaci sotto il secondo, conculcato dagli agenti consolari sotto il terzo: sorti sempre incerte, predominio di opinioni diverse, interessi rovinati ora di questi, ora di quelli, affezioni tormentate: quando una radice di sanazione incominciava a spuntare in una ferita, violentemente era da maggior ferita svelta: la dolorosa vece più volte rinnovossi; squallido diventato un paese fioritissimo; aspettavasi la libertà; un dispotismo disordinato e sfrenato sopravvenne; molti anni durò, finalmente in dispotismo metodico cambiossi. Parevano più certe le sorti; pure ancora restavano nelle menti i vestigi dei passati mali, e le non riparate rovine attestavano le spesse e violenti mutazioni. Genova tre volte cambiata sotto forma di repubblica, spaventata continuamente dal romore delle presenti armi, conculcata dagl'Inglesi per mare, dai Francesi, dai Russi e dai Tedeschi per terra, ora in nome dei diritti dell'uomo, ed ora in nome del governo legittimo, desolata dall'assedio, desolata dalla pestilenza, obbligata a spendere per violenza quello, che aveva acquistato per industria, non aveva più forma alcuna di corpo sano: dieci secoli d'independenza, dopo quindici anni di martirio si terminarono nella dura soggezione di un capitano di guerra. Milano ricca, prima spogliata dai repubblicani, poi dai loro nemici, prima repubblica senza nome, poi repubblica ora con un nome ed ora con un altro, quindi provincia Tedesca sotto nome di reggenza imperiale, poi provincia Francese sotto nome di regno Italico, sempre conculcata, sempre serva, cedè finalmente in potestà di colui, che credeva il più prezioso frutto delle sue conquiste essere il poter risuscitare la corona di ferro di Luitprando, ed il serpente dei Visconti. Di Venezia poche cose dirò, poichè dopo tante stragi, tanti oltraggi, tante espilazioni, o provincia Francese, o provincia Tedesca, conobbe di che sapessero le due servitù. Perivano ogni giorno più i segni della generosità di Dutillot nella tormentata Parma, che accarezzata sotto il duca in parole pei fini di Spagna, taglieggiata in fatto per un'avarizia indomabile, vessata in fine dai Napoleonici capricci sotto San Mery, e molto più ancor sotto Junot, s'incamminava, da servitù in servitù passando, a sperimentare quanto valessero a sanare le ricevute ferite il concorrere ed il ricorrere al lontano Parigi. La Toscana ebbe più gran miscuglio di correrìe e di saccheggi stranieri, di sollevazioni intestine, di reggimenti temporanei, ora repubblicani tumultuarj, ed ora imperiali tumultuarj, parecchie reggenze sotto vario nome, re giovani e re bambini, ora capitani da guerra con somma autorità, ora principi Austriaci, ora principi Borbonici, ed ora Elisa principessa: soldati Napolitani, Francesi, Russi, Tedeschi, Italiani, incomposta e pestilenziale illuvie: i tempi Napoleonici guastavano i Leopoldiani. Roma rossa di sangue di legati Francesi, rossa di Romano sangue versato a difesa delle patrie leggi, rossa d'Italiano sangue non versato a difesa dell'Italiana patria, saccheggiata, conculcata, straziata da tutti, non sapeva più chi amico, o chi nemico chiamar potesse. Francesi, Tedeschi, Russi, Cisalpini, Napolitani, e, se Dio ne salvi, Turchi, con la cupidigia e con le armi loro a vicenda l'assalirono: i tempj profanati, i sacri arredi involati, i musei posti a ruba, le pitture di Raffaello guaste dalle soldatesche barbare; pure e questi e quelli dicevano volere la Romana felicità. Vide Roma un governo papale servo, una repubblica serva, un governo papale con ingannevoli apparenze restituito: vide un papa vinto, un papa tributario, un papa cattivo, un papa ito all'incoronazione del suo nemico: vide preti adulatori di Turchi, papisti adulatori d'Inglesi, repubblicani veri adulatori di repubblicani falsi, amatori di libertà adulatori di tiranni: fuvvi illusione da una parte, fraude dall'altra, e tra l'illusione e la fraude nacque un inganno, una chimera, un pensare a caso tale che è pur forza il confessare, che sia forte negli uomini l'istinto di star insieme, perchè senza di lui la Romana gente o si sarebbe dispersa a vivere nelle selve o vissuta insieme solo per ammazzarsi con le proprie mani. Credo che più tormentosi sperimenti sopra le infelici nazioni non siano stati fatti mai, come quelli che sopra i Romani furono fatti. L'aver sopravvissuto pare miracolo. Ma se maggiori mali soffrire non potevano, a maggiori scandali erano serbati dai cieli, siccome sarà da noi a suo luogo con dolente e disdegnosa penna raccontato. Pareva che la monarchìa avesse a portar più rispetto ai monarchi, ma fece peggio che la licenza. Così se ne viveva Roma desolata: povero l'erario, poveri i particolari: gli ornamenti perduti, gli animi divisi, ogni cosa piena di vendetta. Non so con quali parole io mi accinga a favellar di Napoli, perchè gli uomini simili al cielo, le benevolenze estreme che toccano la illusione, le nimicizie estreme che toccano la ferocia: congiure, guerre civili, guerre esterne, incendj, rovine, tradimenti, supplizj di gente virtuosa e di gente infame, ma più di virtuosa che d'infame. A questo atti eroici, coraggi indomiti, amicizie fedelissime anche nelle disgrazie, temperanza cittadina anche nella povertà, pensieri dolcissimi di fortunata umanità, desiderj purissimi del ben comune: ora regno ottenebrato da congiure, ora repubblica contaminata da rapine ora regno pieno di tormenti, ora regno pieno di rapine e di tormenti. Ferdinando due volte cacciato, una volta tornato; una repubblica serva dei Francesi, un regno servo degl'Inglesi, una repubblica stabilita a forza da un soldato, un regno restituito a forza da un prete, quella con immensa strage di lazzaroni, questo con immensa strage dei repubblicani: quelli stessi che adulato avevano Championnet repubblicano, o Ferdinando re, adulare Giuseppe re, e da un'altra parte la croce di Cristo sul campo medesimo unita alla luna di Macometto, tutte queste cose fanno una maraviglia tale, che quando saranno chiusi gli occhi e le orecchie di coloro che le videro e le udirono, nissuno sarebbe più per crederle, se non fosse la stampa, che ne moltiplica i testimonj.

Nissun ordine buono poteva sorgere da farragine sì dolorosa: perchè ogni fondamento civile era disordinato, ed i soldati si creavano per altri. Narrano alcuni che almeno questo accidente buono nascesse nel regno Italico, che lo spirito militare si risvegliasse, e che buoni soldati si formassero a benefizio d'Italia. Certamente buoni soldati si creavano sotto la disciplina Napoleonica; ma mandati a battaglie forestiere, come amassero l'Italia, e come imparassero a difenderla, io non so vedere; se forse non si voglia credere, che il rovinare i paesi d'altri, ed il distruggere le patrie altrui siano pei soldati salutiferi esempj.

La servitù s'abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto splendore splendeva. La mole dell'Ambrosiano tempio cresceva, il foro Buonaparte si disegnava, e da qualche principio già si conosceva quanto grandiosa opera avesse a riuscire, se fosse stato condotto a termine. Eugenio vicerè fomentava i parti più belli dei pittori, degli scultori, degli architettori; la corte pruomovitrice di servitù, era anche pruomovitrice di bellezza. Nuovi canali si cavavano, nuovi ponti s'innalzavano, nuove strade si aprivano. Nè le rocche, nè i dirupi ostavano; l'umana arte stimolata da Napoleone ogni più difficile impedimento vinceva. Sorsero sotto il suo dominio, e per sua volontà due opere piuttosto da anteporsi, che da pareggiarsi alle più belle ed utili degli antichi Romani; queste sono le due strade del Sempione, e del Cenisio, le quali aprendo un facile adito tra le più inospite ed alte roccie d'Italia alla Francia, attesteranno perpetuamente all'età future, in un colla perizia ed attività dei Francesi, la potenza di chi sul principiare del secolo decimonono le umane sorti volgeva. Beato egli, se non avesse corrotto il benefizio colla servitù!

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