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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Era arrivato il tempo, in cui i disegni Napoleonici dovevano colorirsi a danno del re di Spagna; i mezzi pari al fine. Il mettere discordia nella famiglia reale, il far sorgere sospetto nel padre del figliuolo, dispetto nel figliuolo verso il padre, il seminar sospetti sopra la conjugal fede della regina, e al tempo stesso accarezzare chi era soggetto dei sospetti, e farne stromento alle sue macchinazioni, il contaminar la fama di una principessa morta, l'esser del sangue di Carolina di Napoli rinfacciandole, accusar un principe di Spagna delle Caroliniane insidie, perchè più amava la Spagna che la Francia, fare che a Madrid e ad Aranjuez ogni cosa fosse sospetta di fraudi e di tradimenti, e la quieta e confidente vita del tutto sbandirne, furono arti di Napoleone. La subitezza Spagnuola le ruppe col far re Ferdinando, e dimetter Carlo; ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente stesso di Aranjuez, che pareva dovere scompigliargli la trama, gli diede occasione di mandarla ad effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in sua potestà a Bajona: restava, che vi tirasse il re Ferdinando; e il vi tirò. Rallegrossi allora dell'opera compita. Fe' chiamar dal padre il figliuolo ribelle, fe' chiamar dalla madre il figliuolo bastardo, dalle gazzette meditatore scelerato della morte del padre, costrinse il padre ed il figliuolo a rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco libero a Marsiglia, il figliuolo prigione a Valençay; nominò, ribollendo in lui la cupidità sfrenata dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di Spagna, Murat re di Napoli. A questo fine era stato concluso il trattato di Fontainebleau, promessa grandezza al re di Spagna, introdotti i Napoleoniani in Ispagna. Ma le cose sortirono effetti diversi da quelli ch'ei si era promesso. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le ordite sceleraggini, e combatterono i Napoleoniani. Napoleone e i suoi prezzolati scrittori gli chiamarono briganti, gli chiamarono assassini: quest'infamia mancava a tanti scandali.

Napoleone obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli in Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue esortazioni, otteneva, che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt. Quivi furono splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari segreti: stava il mondo in aspettazione e timore nel vedere i due monarchi potenti sopra tutti favellare insieme delle supreme sorti. Chi detestava l'imperio dispotico di Napoleone, disperava della libertà d'Europa, perchè essendo le due volontà preponderanti ridotte in una sola, non restava più nè appello, nè ricorso, nè speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo della potente Russia, abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in modo tanto attivo nelle faccende d'Europa; conciossiachè le abitudini più facilmente si contraggono, che si dismettono, ed anche l'ambizione del dominare non si rallenta mai, anzi cresce sempre, ed è insanabile. Rotto era e capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare, mentre l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata cagione di temere. Le scene d'Erfurt erano per Napoleone più d'apparato che d'arte, per Alessandro più d'arte che d'apparato.

Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle due Sicilie; due primi e supremi pensieri nudrire, essere grato al donatore, utile ai sudditi: volere conservar la constituzione data dall'antecessore: venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col principe Achille, suo reale figliuolo, venire coi figliuoli ancor bambini, commettergli alla fede, all'amore loro: in esso consistere la contentezza dei popoli, in esso la sua benevolenza. Principiarono le Napoletane adulazioni. Il consiglio di stato, il clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali, ogni cosa in pompa. Una statua equestre rizzata sulla piazza del Mercatello rappresentava Napoleone Augusto. Un'altra sulla piazza del palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon, maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani, scudieri, ufficiali, soldati, chi colle spade al fianco, chi colle chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando rami d'alloro, e chi d'ulivo. Firrao cardinale col baldacchino, e con gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello Spirito Santo: condottolo sul trono a tal uopo molto ornatamente alzato, cantava la messa, e l'inno Ambrosiano. Terminata la cerimonia, per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel reale palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio, faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina: risplendeva, come lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.

Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi l'isola di Capri, la quale, come posta alle bocche del golfo, è freno e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo a coloro, che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto pregiudizio dei traffichi commerciali. Pareva anche vergognoso, che un Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte massimamente degl'Inglesi, tanto odiati, e tanto disprezzati. Aveva Giuseppe per la sua indolenza pazientemente tollerato quella vergogna; ma Giovacchino, soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar il dominio con qualche fatto d'importanza; andava contro Capri. Vi stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni nazione, e che si chiamavano col nome di Reale Corso, e di Reale Malta. Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacapri, ed il forte Maggiore, con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque andavano Francesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi si difendevano risolutamente, s'impadronirono di Anacapri: vi fecero prigioni circa ottocento soldati di Reale Malta. Conquistato Anacapri, che è la parte superiore dell'isola, restava, che si ricuperasse l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San Michele. Fu forza alzar batterìe sulle sommità per battere i forti, l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi d'uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi dal lido. Il re, che stava sopravvedendo dalla marina di Massa, fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio, spingeva in ajuto di Lamarque nuovi squadroni. Gli Inglesi, rotti già in gran parte e smantellati i forti, si diedero al vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon augurio del nuovo governo.

Erano nel regno baroni, repubblicani, e popolo. I baroni al nuovo re volentieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori, nè stavano senza speranza di avere, od a ricuperare gli antichi privilegi, perciocchè malgrado delle dimostrazioni contrarie i Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne dei nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano, che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un nome feudatario. Per questo temevano, che ad un bel bisogno gli desse in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo se gli conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il popolo, che non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe, si sarebbe facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle violenze dei magnati, ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino tutto intento a vezzeggiar i baroni, trascurava il popolo, il quale vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno che volesse governare con assoluto imperio, il tacere della constituzione, che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi le provincie non quietavano, e che massimamente le Calabrie secondo il solito imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato, era obbligato a portarle come guardia non pagata. Veramente, quand'io considero gli ordini d'Europa, mi maraviglio; perchè mi pare che negli stati, in cui la metà e più della rendita pubblica va nel pagar soldati, gli stati debbono guardar i cittadini, e che un cittadino che paga in tasse ed in figliuoli soldati quanto lo stato gli domanda, perchè lo guardi, debb'esser guardato dallo stato: pure veggo, che dopo avergli dato e tasse, e figliuoli, è ancora obbligato a cingersi la sciabola per guardarsi da se. Queste sono le libertà e le felicità europee.

Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati: ne nasceva una licenza militare insopportabile. Seguitava anche quest'effetto, che il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati, e che nissuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche si moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio di un capo di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque dovevano essere obbedite, come se fossero leggi: chi anzi si lamentava, era mal concio, e per poco dichiarato nemico del re. Molto, e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando protezione ed emenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava come gran caso, che chi si era lagnato non fosse mandato per la peggiore. Nascevano nelle province un tacere sdegnoso, ed una sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa che attendeva alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nissuna quiete, nissun ordine poteva esser pei cittadini, nè nel silenzio della notte, nè nelle feste del giorno; perchè solo un ufficiale della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minacce ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarj dei magistrati civili, che s'attentavano di frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli, che arrestati per aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, segni di ogni vituperio. Quest'era lo stato di Napoli, quest'un governar peggiore che di Turchia. Troppo era fresco il dominio di Murat, a fare che un tal procedere non fosse non solamente barbaro, ma ancora pericoloso.

I mali umori prodotti dalle enormità commesse dai soldati di Murat davano speranza alla corte di Palermo, che le sue sorti potessero risorgere nel regno di qua dal Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle Calabrie, nè gli Abruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti, e vari fini; alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino, e che avevano combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando, altri amatori della repubblica. Taccio di coloro, e non erano pochi, che solo per amore del sacco e del sangue avevano le armi in mano. Non sarà, credo, narrazione incresciosa a chi leggerà queste storie, se io racconterò come, e per qual cagione la setta dei carbonari a questi tempi nascesse. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi durante le persecuzioni usate contro di loro, nelle montagne più aspre, e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con se un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro persecutore era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Francesi, sì perchè avevano disfatto la repubblica propria, e quelle d'altrui, sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro pazientemente tollerare, che in cospetto loro, non che di Ferdinando, di Giovacchino, non che di Giovacchino, di regno si favellasse. Così tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odj loro contro i re e contro i Francesi fra immense solitudini continuamente infiammavano. Ma sulle prime isolati, ed alla spartita vivendo, nissun comune vincolo gli congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi, che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare il regno contro i Francesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni, e creassero nuovi seguaci. Per accendergli promettevano gl'Inglesi qualche forma di constituzione. Sorse allora la setta dei carbonari, la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine, e si mostrò la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie, dove si fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarj sapevano, ed esercevano veramente l'arte del carbonajo. Siccome poi non ignoravano, che a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di sorprendente facoltà persuasiva, che per nome si chiamava Capobianco. Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi muratori, che gli ammessi passavano successivamente per varj gradi fino al quarto; che celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai erano diversi i carbonari dai liberi muratori; conciossiachè, siccome il fine di questi è il beneficare altrui, e di banchettar se stessi, così il fine di quelli era l'ordine politico degli stati. Avevano i carbonari nel loro procedere assai maggior severità dei liberi muratori, perchè non mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il loro principal rito in ciò consisteva, che facessero vendetta, come dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano Gesù Cristo, e pel lupo i re, che con niun altro nome chiamavano, se non con quello di tiranni. Se stessi poi nel gergo loro chiamavano col vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca, sotto il quale vivevano. Opinavano altresì che Gesù Cristo sia stato la prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i liberi muratori intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente operavano, con vivi colori rappresentando la passione, e la morte di Cristo, e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di Gesù Cristo. Quale effetto in quelle Napolitane fantasie sì terribili forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni altri, il toccarsi la mano ed in tale atto col pollice segnavano una croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello, che i liberi muratori chiamano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee loro col nome di vendite distinguevano, ai carbonari veri alludendo, i quali scendendo dalle montagne andavano a vendere il carbone loro pei mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di repubblica: niun altro modo di reggimento volevano, che il repubblicano, ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco, che abbiamo sopra nominato. Odiavano acerbamente i Francesi, acerbissimamente Murat per essere Francese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando, perchè piuttosto non volevano re. Nati prima nell'Abruzzo e nelle Calabrie, si erano propagati nelle altre parti del regno, e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro, e creato consettarj. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni della secreta lega erano consapevoli e partecipi.

Vedendo Ferdinando, che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza, si deliberava, a ciò massimamente stimolato da Carolina sua moglie e dagl'Inglesi, di fare qualche pratica acciocchè se possibil fosse, concorressero co' suoi proprj aderenti al medesimo fine, che era quello di cacciar i Francesi, e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste pratiche era il principe di Moliterno, che, tornato d'Inghilterra, dove si era condotto per proporre a quel governo, che dichiarasse l'unione e l'independenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto contro i Francesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire, non fidandosi del principe, per essere stato repubblicano, si era in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava efficacemente dell'unione e independenza dell'Italia, ed in queste dimostrazioni era ardentemente secondato dalla regina, che si persuadeva di potere con questo allettativo, non solamente ricuperare il regno, ma ancora acquistare qualche altra parte importante. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e sì perchè finalmente molto si soddisfacevano di quella unione e independenza d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe e della regina. Ciò non ostante stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad un accordo con gli agenti regj. Per vincere una tale ostinazione, il governo regio di Palermo dava speranza ai carbonari, che avrebbe loro dato una constituzione libera a seconda dei desiderj loro. Per questi motivi, e massimamente per questa promessa, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione del regno dai Francesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio, continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella, che ordinò quella repubblica di Catanzaro, che abbiamo sopra nominato.

L'unione dei carbonari coi regj diede maggior forza alla parte di Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle terre murate, cooperando alla difesa i soldati Francesi guidati da Partonneaux, i soldati Napolitani, e le legioni provinciali. Ogni cosa in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando nè del re Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte ed in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra disordinata e civile, incendj, ruine, saccheggi, stupri, e non che uccisioni, assassinj. I fatti orribili tanto più si moltiplicavano, quanto più per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal affare di ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava nè di repubblica, nè di regno, nè di Ferdinando, nè di Giovacchino, nè di Francesi, nè d'Inglesi, nè di papa, nè di Turco, ma solo al sacco ed al sangue intenti, dai più segreti ripostigli loro uscendo, commettevano di quei fatti, dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento in poi, e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente sparso, finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le ridusse a più tollerabile condizione.

Le ruine si moltiplicavano; la Spagna ardeva, l'Italia, e la meridional parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria spaventata, la Prussia serva, la Russia divota, la Turchìa aderente, la terraferma Europea tutta obbediente a Napoleone o per forza, o per condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuore d'Italia, debole per soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà. Napoleone spinto dall'ambizione, ed acciecato dalla prosperità aveva messo fuori certe parole sull'imperio di Carlomagno, suo successore nei dritti e nei fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia, che da lui traevano gli stipendj, avessero potuto, imperatore dei Francesi chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva possessione, non che della Francia, di tutta l'Italia, di tutta la Spagna, di tutta la Germania, di quanto insomma componeva l'impero d'Occidente ai tempi di quel glorioso imperatore.

Adunque con quell'insegna di Carlomagno in fronte s'avventava contro il papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome tant'alto suona, non fosse ridotta in sua potestà. Gli pesava, che ancora in Italia una piccola parte fosse, che a lui non obbedisse. Dal canto suo il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in quella condizione servile, nella quale erano caduti chi per debolezza e chi per necessità quasi tutti i principi d'Europa. Così chi aveva armi cedeva, chi non ne aveva resisteva. Pio settimo, non che resistesse, fortemente rimostrava al signore della Francia acerbamente dolendosi, che per gli articoli organici, e pel decreto di Melzi fossero stati i due concordati guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche a violazione manifesta dei decreti dei concilj, e del santo vangelo stesso. Si lamentava che nel codice civile di Francia, introdotto anche per ordine dell'imperatore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto contrario alle massime della Chiesa, ed ai precetti divini. Rimproverava, che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed era la Francia, con legge uguale si ragguagliassero la religione cattolica, e le dissidenti, non esclusa anche l'ebrea, nemica tanto irreconciliabile della religione di Cristo.

Di tutte queste cose ammoniva l'imperatore, dell'esecuzione delle sue promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone vincitore dell'Austria, della Prussia e della Russia, non era più quel Napoleone ancor tenero ne' suoi principj. Per la qual cosa volendo ad ogni modo venir a capo del suo disegno del farsi padrone di Roma, o che il papa vi fosse, o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che essendo egli il successore di Carlomagno, gli stati pontificj, siccome quelli che erano stati parte dell'impero di esso Carlomagno, appartenevano all'impero Francese; che se il pontefice era il signore di Roma, egli ne era l'imperatore; che a lui, come a successore di Carlomagno, il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come egli al pontefice la doveva nelle spirituali, che uno dei diritti inerenti alla sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il signore di Roma a far con lui, e co' suoi successori, una lega difensiva ed offensiva per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice, essendo soggetto all'imperio di Carlomagno, non si poteva esimere dall'entrare in questa lega, e dall'avere per nemici tutti coloro che di lui Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto da lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la donazione di Carlomagno, di spartire gli stati pontificj e di dargli a chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore con potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice qualità di vescovo di Roma.

Quest'estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato a Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta l'autorità sua l'aveva ajutato a salire sul suo seggio imperiale, dimostrava in chi le faceva, una risoluzione irrevocabile. Rispondeva il pontefice, esser caso maraviglioso, che il sovrano di Roma, dopo dieci secoli di possessione non contestata, fosse necessitato a far le sue difese contro colui, che pocanzi aveva consecrato imperatore; sapere il mondo, che il glorioso imperatore Carlomagno, la cui memoria sarà sempre benedetta nella chiesa, non aveva dato alla santa Sede le province di dominio pontificio: sapere che già dai tempi molto anteriori a Carlomagno, erano esse state possedute dai pontefici Romani per la dedizione libera dei popoli abbandonati dagli imperatori d'Oriente; sapere, che nel progresso dei tempi l'esarcato di Ravenna, e della Pentapoli, che queste medesime province comprendeva, essendo stato invaso dai Longobardi, l'illustre e religioso Pipino, padre di Carlomagno, lo aveva loro tolto dalle mani per un atto di donazione solenne a papa Stefano attribuendolo; che quel grande imperatore, l'ornamento e l'ammirazione dell'ottavo secolo, non che avesse voluto rivocare il pietoso e generoso atto di Pipino suo padre, l'aveva anzi confermato, ed appruovato sotto papa Adriano; che, non che avesse voluto spogliare la Romana Sede delle sue possessioni, non altro aveva fatto, nè voluto fare che restituirgliele ed aumentargliele; che tant'oltre era proceduto, che aveva comandato espressamente nel suo testamento a' suoi tre figliuoli di difenderle colle armi; che a' suoi successori nissuna potestà, nissun diritto aveva lasciato di rivocare quanto Pipino suo padre aveva fatto a favore della cattedra di San Pietro; che solo ed unico suo intento era stato di tutelar i pontefici Romani contro i loro nemici, e non obbligargli a dichiararsi contro di loro; che dieci secoli posteriori, che mille anni di possessione pacifica rendevano inutile ogni ricerca anteriore, ogni interpretazione posteriore; che finalmente supponendo eziandìo che i pretesi diritti di Carlomagno non fossero senza fondamento, non aveva l'imperator Napoleone trovato nè la santa Sede, nè il papa in quella condizione, in cui gli aveva trovati Carlomagno; conciossiachè avesse l'imperator Napoleone trovato la santa Sede libera, suddita a nissuno, in piena ed intiera sovranità di tutti i suoi stati fin da dieci secoli addietro senza interruzione alcuna, e che inoltre le sanguinose vittorie da lui acquistate contro altri popoli non gli davano il diritto d'invadere gli stati del pontefice, poichè sempre il pontefice era vissuto in pace con lui.

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