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Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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di Stephen Goldin

Pubblicato da Parsina Press

Casa editrice per la traduzione: Tektime

Herds. Copyright 1975 di Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.

Titolo originale: Herds.

Casa editrice per la traduzione: Tektime

Traduttore: Alberto Favaro

Indice del Contenuto

Prologo

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

CAPITOLO 9

CAPITOLO 10

CAPITOLO 11

CAPITOLO 12

CAPITOLO 13

CAPITOLO 14

CAPITOLO 15

Su Stephen Goldin

Restare in contatto con Stephen Goldin

Dedicato a mia madre, Frances Goldin, che ha sempre amato i romanzi gialli

Prologo

Il pianeta Zarti un tempo era tranquillo. La specie più progredita era una razza di gentili erbivori dal collo lungo che non avevano altre ambizioni se non quella di riempirsi la pancia. Questi Zartici stavano insieme in branchi per proteggersi dai predatori. Alla fine svilupparono alcuni semplici metodi di comunicazione per scambiare tra loro semplici idee.

Senza alcun preavviso, arrivarono gli Offasii. Questi viaggiatori spaziali giunsero in massa, Centinaia di milioni, probabilmente l'intera popolazione degli Offasii. Arrivarono con navi spaziali grandi diverse miglia di diametro. Arrivarono come locuste su questo pianeta idilliaco e ne cambiarono per sempre il corso della vita.

All'inizio crearono degli zoo, raccogliendo esemplari di ciascuna delle principali specie di animali che riuscirono a trovare. Questi campioni furono testati e sondati in ogni modo possibile per ragioni troppo sottili da comprendere. Gli Zartici superarono il loro test e furono tenuti, mentre tutti gli altri furono restituiti ai loro ambienti naturali.

Ci fu una caccia planetaria. Tutti gli Zartici che riuscirono a catturare furono rinchiusi in speciali recinti, gli altri furono uccisi sul posto. Poi cominciarono le torture. Molti Zartici furono uccisi e sezionati. Altri non ebbero la stessa fortuna, e furono sezionati da vivi in modo da poter osservare i loro sistemi vitali in azione. Le urla di quelle povere creature filtrarono fino ai branchi nei recinti, causando il panico e provocando ulteriori morti.

Non fu permesso a nessuno degli Zartici di riprodursi naturalmente. Sperma e ovuli accuratamente selezionati furono abbinati con l’inseminazione artificiale, mentre gli Offasii, per tre generazioni, raccolsero con calma i risultati di questi allevamenti. Quando i loro computer raccolsero abbastanza dati, cominciarono ad alterare la struttura del DNA modificando i gameti degli Zartici. Furono rimossi i geni che non sembravano buoni. Furono sostituiti con nuovi per vedere quali effetti avrebbero avuto sulle nuove generazioni. Alcuni di questi nuovi geni si dimostrarono poco efficaci. Furono eliminati nelle generazioni successive.

Dopo venti generazioni di Zartici, ne nacque una che corrispondeva all’ideale per gli Offasii. Quando gli elementi di questa generazione raggiunsero la maturità, tutti i membri restanti delle generazioni precedenti furono messi a morte, lasciando solo questa nuova razza di Zartici a ereditare il mondo.

Queste nuove creature erano notevolmente diverse rispetto ai loro antenati che vagavano liberi nelle foreste di Zarti. Erano più grandi, più forti e più sane. La loro vista era più acuta. I peli duri e arruffati che avevano sulle schiene erano diventati una sorta di armatura. Le piccole appendici che avevano sulle spalle, e che all’inizio servivano per tenere fermi i rami mentre mangiavano, si erano sviluppate fino a diventare delle vere braccia, che terminavano con due mani con sei dita e due pollici opponibili che potevano afferrare e manipolare oggetti. La loro durata di vita media si era raddoppiata. E, cosa più importante, erano molto più intelligenti di quanto fossero stati i loro antenati. Il loro quoziente intellettivo si era quantomeno quadruplicato.

Avevano anche un lascito dai loro antenati. I racconti sulle torture sugli Offasii si erano tramandati oralmente nel corso degli anni, con ogni generazione che aggiungeva nuovi racconti dell’orrore. Le storie si ingigantirono con la loro ripetizione, e crebbe il mito della crudeltà degli Offasii.

Ora che apparentemente erano riusciti a ottenere quello che volevano, gli Offasii continuarono a usare, e ad abusare, dei loro soggetti. Gli Zartici divennero schiavi della peggiore specie, usati nei compiti più umili e di routine. Furono incatenati a controllare le macchine che non richiedevano supervisione, forzati a partecipare a rituali che non avevano alcuno scopo, messi a smontare macchinari che poi altri Zartici avrebbero assemblato di nuovo. Potevano essere cacciati e uccisi per sport dagli Offasii. Qualche volta erano rinchiusi in arene a combattere contro animali selvaggi o con altri della loro specie. Sebbene fosse loro permesso avere rapporti sessuali, la scelta del partner era fatta dagli Offasii, e non seguiva nessuna logica comprensibile dagli Zartici.

Il periodo di schiavitù durò per circa un secolo. Durante questo lasso di tempo, il volto del pianeta cambiò. Ogni centimetro quadrate di terreno arabile fu sfruttato al meglio grazie alla brutale efficienza degli Offasii. Le città si svilupparono, pianificate e progettate per essere perfette. I sistemi di trasporto e comunicazione divennero universali.

Poi, un giorno, gli Offasii se ne andarono. Fu un esodo ordinato e ben pianificato, senza che fosse detta alcuna parola agli stupefatti Zartici. Un giorno gli Offasii stavano gestendo il mondo con i loro consueti metodi sbrigativi, il giorno successivo erano saliti con calma sulle loro enormi astronavi—che erano rimaste inutilizzate dal giorno del loro arrivo— ed erano partiti verso lo spazio. Lasciarono dietro di loro tutte le loro opere, le loro città, le fattorie, le macchine. Lasciarono anche una razza di ex schiavi sorpresi e molto perplessi.

Gli Zartici all’inizio non poterono credere che i loro padroni se ne fossero veramente andati. Si riunirono nel timore che questa potesse essere una qualche nuova e subdola forma di tortura. Le settimane passarono e gli Offasii non comparvero da nessuna parte. Nel frattempo, c’erano le macchine e i raccolti che richiedevano cure e manutenzioni. Quasi per un riflesso condizionato tornarono ai loro soliti compiti.

Passarono parecchi secoli, e gli Zartici cominciarono a usare la loro intelligenza per proprio conto. Esaminarono i macchinari che avevano lasciato gli Offasii e scoprirono i principi della scienza; a partire da ciò, migliorarono e adattarono le macchine ai loro scopi e ai loro usi. Svilupparono una propria cultura. Usarono il loro intelletto per costruire sistemi filosofici e dedicarsi al pensiero astratto. Svilupparono i propri svaghi e i propri piaceri. Cominciarono a vivere la vita confortevole di una specie intelligente che dominava il proprio pianeta.

Sotto questo successo, però, c’era sempre una paura: la paura degli Offasii. Secoli di oppressione crudele avevano lasciato il segno sulla psiche degli Zartici. Cosa fare se gli Offasii fossero tornati un giorno? Non avrebbero visto di buon occhio l’usurpazione del loro equipaggiamento da parte degli schiavi arrampicatori. Avrebbero ideato nuove e più orrende torture e gli Zartici, come sempre, avrebbero sofferto.

Fu in quest’atmosfera di paura e curiosità che maturò il passo più audace che la razza degli Zartici avesse mai intrapreso— il Progetto di Esplorazione Spaziale.

CAPITOLO 1

Un tratto a due corsie della California 1 correva lungo la costa. A ovest, talvolta solo a una cinquantina di metri dalla strada, c’era l’oceano Pacifico, che quietamente lambiva con le sue onde la sabbia e le rocce della spiaggia statale di San Marcos. A est, una scogliera di bianca e nuda roccia si ergeva per un’altezza di una sessantina di metri. Al di là della scogliera si stendeva una catena di monti. Non erano molto alti, il più elevato raggiungeva a malapena i trecento metri sul livello del mare, ma erano sufficienti per i residenti locali. Le montagne erano coperte di boschi radi di cipressi e di un intricato sottobosco, con altri tipi di vegetazione che a intervalli irregolari cercavano con audacia di farsi spazio.

In cima alla scogliera, dominante l’autostrada e l’oceano, c’era un piccolo cottage in legno. Si trovava al centro di uno spiazzo, un piccolo segnale di presenza umana in mezzo alla natura. Una macchina era parcheggiata accanto al cottage sulla ghiaia che era stata sparsa intorno al perimetro della struttura. La ghiaia si estendeva per una decina di metri, poi lasciava spazio alla roccia fino all’entrata degli alberi circa cinque metri più avanti.

C’era una stretta strada polverosa che saliva dall’autostrada al cottage. Non saliva diritta ma sinuosa come un serpente in mezzo agli alberi fino allo spiazzo. Si potevano notare un paio di fari che risalivano lungo la strada, scomparendo e riapparendo quando la macchina affrontava le varie curve o passava attraverso i gruppi di cipressi.

Stella Stoneham era in piedi nell’oscurità, e osservava i fari che si avvicinavano. I suoi organi interni stavano cercando strenuamente di non aggrovigliarsi man mano che i fari si avvicinavano. Tirò un’ultima lunga boccata alla sigaretta e la schiacciò nervosamente con il piede sulla ghiaia. Se c’era una persona che non aveva proprio voglia di vedere in quel momento era suo marito, ma sembrava che non avesse scelta. Aggrottò la fronte e guardò il cielo. La notte era piuttosto limpida, solo poche nuvole oscuravano le stelle. Guardò in basso verso i fari. Sarebbe arrivato in un minuto. Sospirando, tornò all’interno del cottage.

L’interno normalmente la rallegrava con la sua luminosità ma, quella sera, era una qualità che non fece altro che aumentare la sua depressione. La stanza era grande e spoglia, e dava quell’illusione di spazio e libertà che Stella aveva sempre voluto. C’era un lungo divano marrone appoggiato a una parete, con, al suo fianco, un piccolo tavolo da lettura e una lampada. Sull’altro angolo, andando in senso orario, c’era un lavandino e una piccola stufa; un armadio per le provviste appeso sulla parete vicino a loro, di legno massiccio e scolpito in modo elaborato, con volute e piccoli gnomi rossi ai lati che lo sorreggevano. Sulla parete c’era anche una rastrelliera di utensili da cucina assortiti, ancora scintillanti per la mancanza di uso. Proseguendo intorno alla stanza, nel terzo angolo, c’erano dei mobili da cucina bianchi disposti con cura. La porta sul retro che dava sulla camera da letto e sul bagno era per metà socchiusa, con la luce dalla stanza principale che riusciva a penetrare solo leggermente nel buio oltre alla soglia. Infine, c’erano una scrivania con una macchina da scrivere, un telefono e una vecchia sedia pieghevole accanto a essa nell’angolo più vicino alla porta. Il centro della stanza era spoglio, con l'eccezione di un tappeto marrone sfilacciato che copriva il pavimento di legno. Il posto non aveva molto a cui aggrapparsi, Stella lo sapeva, ma se ci sarebbe stata una lotta —come sembrava sarebbe accaduto— sarebbe stato meglio gestirla sul proprio territorio.

Si sedette sul divano e si rialzò immediatamente. Camminò avanti e indietro lungo tutta la stanza, chiedendosi cosa avrebbe fatto con le mani quando avrebbe parlato o ascoltato. Gli uomini, almeno, erano così fortunati da avere le tasche. Fuori sentì la macchina far scricchiolare la ghiaia fino a raggiungere quasi la porta del cottage e poi fermarsi. Si aprì uno sportello che poi fu chiuso con violenza. I passi di un uomo salirono pesantemente i tre gradini davanti alla casa. La porta si spalancò e suo marito entrò in casa.

* * *

Questo era l’undicesimo sistema solare che avrebbe esplorato personalmente, e ciò significava che, per Garnna iff-Almanic, il compito di trovare ed esaminare pianeti era diventato un lavoro di routine, per quanto esotico potesse sembrare, Gli Zartici lo avevano addestrato per anni prima che gli fosse permesso di entrare nel Progetto. C’era stato, prima di tutto, il rigoroso allenamento mentale che avrebbe permesso alla combinazione di macchinari e farmaci di proiettare la sua mente al di fuori del suo corpo fin nelle più remote profondità dello spazio. Un Esploratore, però, doveva essere addestrato in molte altre cose. Doveva tener traccia del suo percorso nel vuoto, nel tentativo di localizzare un nuovo pianeta prima e nel ritrovare di nuovo la strada verso casa poi; questo richiedeva un’approfondita conoscenza della navigazione nello spazio. Doveva riuscire a classificare al volo il tipo generico di pianeta che stava esplorando, il che richiedeva conoscenze molto aggiornate sulla scienza, in costante crescita, della planetologia. Gli era poi richiesto di stendere una relazione sulle forme di vita, se esistenti, che abitavano il pianeta; questo comportava una conoscenza della biologia. E, nel caso il pianeta ospitasse forme di vita intelligente, doveva essere in grado di descrivere il livello della loro civiltà con poco meno di un’occhiata —e questo richiedeva che venisse fatto nel modo più libero possibile da pregiudizi e paure personali, visto che le civiltà aliene avevano modi diversi di comportamento che potevano portare un normale Zartico fino quasi ad avere un attacco isterico.

Soprattutto, però, si doveva superare l’istintiva paura degli Zartici nei confronti degli Offasii, e questo richiedeva l’addestramento più difficile di tutti. La sua mente aleggiò sopra questo nuovo sistema solare, analizzandone le sue possibilità. Si trattava dell’esplorazione più distante mai fatta fino a quel momento, ben oltre un centinaio di parsec da Zarti. La stella era di grandezza media una piccola cosa gialla —del tipo che di solito era associata alla presenza di un sistema di pianeti. Ma era da vedere se anche questo sistema aveva veramente dei pianeti... Garnna fece mentalmente una smorfia. Questa era sempre la parte della missione che odiava di più.

Cominciò a diffondersi nello spazio immediatamente vicino alla stella. Le sue fibre mentali si espansero come una rete, diventando sempre più sottili mentre spingeva i frammenti della sua mente all’esterno in tutte e tre le dimensioni nella sua ricerca di pianeti.

Eccolo! Ne raggiunse uno quasi immediatamente, e, altrettanto velocemente, lo scartò. Si trattava solo di una sfera rocciosa senza aria, e neanche all’interno della zona di abitabilità della stella possibile per le forme di vita protoplasmatica. Sebbene fosse vagamente concepibile che lì vi potesse esistere qualche forma di vita, non se ne preoccupò. Continuò a espandere la sua rete verso l’esterno.

Un altro pianeta. Fu contento di trovarne un secondo, perché con i tre punti di cui ora era in possesso —il sole e i due pianeti— era in grado di determinare il piano dell’eclittica del sistema. Da tempo si era scoperto che i sistemi planetari si muovevano generalmente su un singolo piano con solo piccole deviazioni da quello standard. Ora che conosceva il suo orientamento, poteva terminare la sua espansione tridimensionale e concentrarsi, invece, nell’esplorazione di tutta l’area all’interno del piano eclittico.

Anche il secondo pianeta fu una delusione. Era all’interno della zona di abitabilità, ma questa era l’unica cosa che si poteva dire in suo favore. L’atmosfera era coperta di nuvole e piena di anidride carbonica, mentre la superficie era così incredibilmente calda che oceani di alluminio e fiumi di stagno erano la normalità. Neppure lì poteva esistere alcuna vita protoplasmatica. Garnna continuo nella sua Esplorazione.

La cosa successiva che incontrò lo colse un po' di sorpresa: un pianeta doppio. Due grandi oggetti con la dimensione di un pianeta che giravano intorno alla stella con un'orbita comune. Dopo un'ispezione più da vicino, uno dei pianeti apparve molto più grande dell'altro; Garnna cominciò a pensare che uno fosse il principale e l’altro un suo satellite.

Cercò di porre la massima attenzione possibile su questo sistema mantenendo comunque attiva la rete che aveva diffuso nello spazio. Il satellite era solo un’altra sfera rocciosa senza aria, anche più piccolo del primo pianeta visto vicino al sole, e sembrava decisamente privo di forme di vita, mentre il pianeta principale sembrava più promettente. Dallo spazio aveva un aspetto a macchie bianche e blu. Il bianco era formato da nuvole e il blu, almeno apparentemente, sembrava formato da masse d'acqua. Grandi quantità di acqua allo stato liquido. Questo faceva pensare all’esistenza di vita protoplasmatica lì. Controllò l'atmosfera e fu ancor di più piacevolmente sorpreso. C'erano grandi quantità di ossigeno disponibili per essere respirate. Si annotò mentalmente di investigarlo più a fondo, se non avesse trovato nulla di meglio, e continuò a espandersi verso l'esterno nella sua ricerca di altri pianeti.

Il successivo che scoprì era piccolo e rosso. La poca atmosfera presente sembrava composta soprattutto da anidride carbonica, quasi senza ossigeno rilevabile. La temperatura della superficie era accettabile per forme di vita protoplasmatica, ma sembrava esserci ben poca, se non nulla, disponibilità di acqua —un segnale molto negativo. Sebbene questo posto avesse delle potenzialità, il principale dei pianeti doppi ne aveva di più. Garnna continuò nella sua espansione.

La rete stava diventando sempre più fine, man mano che lo Zartico si allungava sempre di più. Le immagini stavano diventando sempre più sfocate e la sua mente sembrava trattenere solo un lieve contatto con la propria identità. Incontrò alcune piccole rocce che galleggiavano nello spazio, ma si rifiutò di prenderle in considerazione. Il mondo successivo era un gigante gassoso. Era molto difficile distinguerlo bene perché la sua mente a quel punto era tesa al massimo, ma non era necessario. La ricerca di pianeti in quel sistema era terminata, lo sapeva, poiché era andato ancora una volta oltre alla zona di abitabilità. Un gigante gassoso di quel tipo non poteva esistere all’interno di quella zona, secondo la teoria. Potevano esserci altri pianeti al di là dell’orbita di questo, ma neppure loro avevano importanza. Gli Offasii non sarebbero stati interessati a loro, e quindi neppure Garnna lo era.

Ritornò con la sua attenzione al sistema del pianeta doppio. Sentì un enorme sollievo quando cominciò a raccogliere tutte le parti della sua mente che aveva espanso così lontano nello spazio. Era sempre una bella sensazione quando terminava l’iniziale ricerca planetaria, la sensazione di riunire insieme una serie di elementi diversi per formare ancora una volta un tutto unico. Una sensazione simile a quella di comporre un Branco di individui, solo su una scala più piccola a più personale.

Era abbastanza brutto essere uno Zartico da solo nello spazio, tagliato fuori dall’intero Branco per non parlare della sicurezza e della tranquillità del proprio gruppo iff. Il lavoro era necessario, certo, per il bene del Branco, ma la sua necessità non lo rendeva per nulla più piacevole. E quando un singolo Zartico doveva estendere la sua mente fino a quasi non lasciar nulla di sé, era quasi insopportabile. Per questo motivo Garnna odiava più di tutte questa parte della missione. Ora, però, era finita, e poteva concentrarsi sul reale motivo dell’Esplorazione.

* * *

Wesley Stoneham era un uomo grande, ben oltre il metro e ottanta, con spalle larghe e robuste e un volto da eroe di mezza età. Aveva ancora tutti i capelli, una folta criniera nera, tagliata in modo disordinato per essere ancora più alla moda. La fronte sotto i capelli era relativamente stretta ed evidenziava grandi sopracciglia folte. I suoi occhi grigi simili all’acciaio erano determinati, il suo naso dritto e prominente. In mano portava una valigia di medie dimensioni.

“Ho il tuo appunto,” fu tutto quello che disse, prendendo dalla tasca un foglio di carta piegato e gettandolo a terra ai piedi di sua moglie.

Stella sospirò piano. Conosceva fin troppo bene quel tono, e sapeva che sarebbe stata una serata lunga e amara. “Perché la valigia?” gli chiese.

“Mentre guidavo per venire qui, ho pensato che potevo anche passare la notte.” La sua voce era piatta e tranquilla, ma c’era una punta di autorità mentre appoggiava la valigia sul pavimento.

“Non ti sei neanche preoccupato di chiedere il permesso della padrona di casa prima di trasferirti?”

“Perché avrei dovuto? Questo è il mio cottage, costruito con il mio denaro.” L’enfasi sul “mio” in entrambi i casi era leggera ma inequivocabile.

Lei gli voltò le spalle. Anche rivolgendogli la schiena, tuttavia, poteva sentire ancora il suo sguardo penetrargli l’anima. “Perché non completi il pensiero, Wes? ‘Il mio cottage, il mio denaro, mia moglie,’non è così?”

“Tu sei mia moglie, lo sai.”

“Non più.” Poteva già sentire gli angoli interni dei suoi occhi che cominciavano a scaldarsi, e cercò di controllare le sue emozioni. Piangere ora non avrebbe portato alcun vantaggio, e avrebbe potuto farle perdere di vista il suo scopo. Inoltre, aveva imparato da dolorose esperienze passate che Wesley Stoneham non si faceva commuovere dalle lacrime.

“Lo sei fino a quando la legge dirà altrimenti.” Attraversò la stanza con due lunghi passi per andare verso di lei, la afferrò per le spalle e la girò. “Guardami quando parli con me.”

Stella cercò di liberarsi dalla presa, ma le dita di lui penetrarono ancor di più nella sua pelle, e una di loro (lo faceva intenzionalmente?) le colpì un nervo, così una scossa di dolore le corse su tutta la spalla. Stella smise di contorcersi e alla fine lui lasciò la presa.

“Ora va un po’ meglio,” disse. “Il minimo che un uomo può aspettarsi è un po’ di educazione da parte della propria moglie.”

“Mi dispiace,” disse lei dolcemente. Ci fu una lieve inclinazione nella sua voce mentre tentava di metterci con forza della gioia. “Dovrei correre in cucina e preparare una grande torta di bentornato a casa.”

“Risparmia il sarcasmo per qualcuno che apprezza quella merda, Stella,” ringhiò Stoneham. “Voglio sapere perché vuoi il divorzio.”

“Perché, mio bene mio prezioso—” cominciò a parlare con gli stessi toni sdolcinati. Stoneham le diede uno schiaffo secco sulla guancia. “Ti ho detto di piantarla,” disse.

“Credo che i miei motivi dovrebbero essere più che evidenti,” disse Stella amaramente. Sentiva che il rossore stava lentamente crescendo sulla guancia dove era stata colpita. Alzò la mano per toccare il punto più per la vergogna e l’imbarazzo che per il dolore.

Le narici di Stoneham fiammeggiavano, e il suo sguardo era gelido. Stella evitò di osservarlo negli occhi e cercò ostinatamente di fissare il terreno. C’era il gelo nelle parole di suo marito mentre le chiese “Hai una storia con quell’hippie fuori età?”

Le ci volle un momento per capire di chi parlasse. A circa un miglio dal cottage, nel Totido Canyon, un gruppo di giovani si era trasferito in un campeggio estivo abbandonato e avevano formato quello che chiamavano con orgoglio la “Comune di Totido.” A causa dei loro comportamenti e del loro abbigliamento non convenzionale, erano ritenuti degli hippie dai residenti della zona e condannati di conseguenza. Il loro capo era un uomo più anziano, quasi quarantenne, e sembrava riuscisse a tenere il gruppo entro i limiti della legge.

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