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Saving Grace
Tornai ad occuparmi delle mie e-mail. Non avrei dovuto avvisare Nick in prima persona? Forse si era comportato un po’ come Heathcliff ma, prima di Shreveport, gli avrei sicuramente mandato un avviso provocante sulla mia partenza. Se fosse stato lui a scomparire, avrei voluto saperne il perché. Ipso facto, non lo avrebbe voluto anche lui? Seguendo questo raziocinio logico scadente, mi buttai a scrivere un’e-mail veloce.
A: nick.kovacs@haileyhart.com
Da: katie.connell@haileyhart.com
Oggetto: Viaggio
Nick:
Volevo farti sapere, nell’eventualità in cui tu notassi che me ne sono andata, che sono partita per una vacanza ai Caraibi. Torno fra una settimana. Emily si occuperà dei miei casi mentre sono via. E, Nick, mi dispiace. Per tutto.
Katie
Dopo Shreveport, gli avevo promesso di dire sempre la verità. Beh, ero stata quasi completamente sincera, era una sorta di vacanza. Chiusi gli occhi con il dito su invia, esitante.
“Signora, dovrebbe spegnerlo e riporlo immediatamente, per favore.” L’assistente di volo dai capelli grigi si abbassò su di me, con un sorrisino sulla faccia. Doveva odiare ripetere le stesse cose in continuazione a persone come me che mentono, imbrogliano e fingono, solo per avere qualche secondo di connessione in più prima di decollare. Però, ero una brava ragazza questa volta.
“Nessun problema,” dissi. Premetti invia e spensi lo schermo. Beh, più o meno brava. Risistemai lo schienale e sistemai le pieghe dell’abito lungo che indossavo.
“Mi chiamo Guy,” disse l’uomo seduto vicino a me. Mi porse la mano.
Nooo. Volevo dormire. Gli strinsi la mano — una mano molto morbida, morbida come se facesse il bagno nella vaselina — e dissi, “Katie. Piacere,” e distolsi lo sguardo. Appoggiai la nuca sullo schienale. “Non pensare alla forfora, pidocchi e altre schifezze che ci sono in testa,” mi dissi. E immediatamente non riuscii a pensare ad altro.
Un bebè iniziò a urlare. Sollevai la testa per cercare il colpevole. Un giovane padre che viaggiava da solo nella prima fila della seconda classe. Non un grande inizio.
Tornò l’assistente di volo. La sua pelle sembrava più giovane di quanto indicassero i capelli e aveva degli occhi vivaci. “Posso portarle qualcosa da bere prima del decollo, signora?”
Dopo aver inviato quell’e-mail a Nick, ero ansiosa. L’enfant terrible e il potenziale problema pidocchi mi davano da pensare. Stavo andando a combattere i miei demoni e affrontare i miei problemi personali in una terra sconosciuta. Anche un bevitore responsabile avrebbe ordinato un drink in prima classe, date queste circostanze.
“Bloody Mary,” disse qualcuno. Ero io. Ops.
“Certamente, signora.”
Beh, non ero al resort, non ero nemmeno ancora a St. Marcos. Se ci pensate, questo era il conto alla rovescia, ma la partita non era ancora cominciata. Non dovevo guardarmi dal bere prima di arrivare là. In più, a cosa serve viaggiare in prima classe se non per i drink gratis? Certo, servivano anche una ciotola calda di frutta secca e ti portavano un asciugamano tiepido con un paio di pinze da cucina, forse anche un biscotto cremoso alle scaglie di cioccolato se eri fortunata, ma l’alcool era il vero motivo.
“Ne porti due,” disse il mio nuovo amico Guy. Si allungò leggermente verso di me e disse, “Tutto ciò che mi ci voleva. Sono stato a Los Angeles per incontrare dei produttori televisivi a proposito di uno show che voglio registrare a St. Marcos. Sono stanchissimo.”
“Ma non mi dire,” dissi.
Quando atterrammo a St. Marcos, mi sentivo brilla dalle concessioni del volo. Augurai a Guy una buona permanenza e mentii sia sul mio cognome che sul resort in cui avrei soggiornato, per assicurarmi di non imbattermi in lui nuovamente.
Mi sedetti sulla navetta diretta al Peacock Flower Resort, dondolando la testa al ritmo di I Shot the Sheriff di Bob Marley. Arrivai all’hotel, che era ancora meglio di quanto avessi immaginato. Un’architettura fiera, imbiancata di rosa, due piani, circondata da maestose palme. Capii perché ai miei genitori piaceva soggiornare qui. Entrai di buon passo nella hall, dove il portiere mi allungò un bicchiere trasparente di punch al rum con una grande fetta di ananas. Frutta, Per cena. Le persone qui erano incantevoli.
Mi registrai e l’addetto alla reception chiamò un ragazzino gentilissimo per accompagnarmi alla mia camera. Riempì il mio bicchiere di rum prima di farmi strada. “Per non passare sete in questa lunga camminata alla stanza, signora,” disse facendomi l’occhiolino. Il suo accento era adorabile.
La mia camera era a ridosso della spiaggia, ma circondata da palme per preservarne la riservatezza.
“Molte persone famose occupano questa camera.” Mi fissava intensamente. “Dovrei forse conoscerla? È tremendamente bella, signora. È una modella?”
Scelsi di ignorare il fatto che mi aveva fatto questi commenti in procinto di lasciare la stanza, proprio quando stavo decidendo la somma che avrei dato di mancia. Dissi, “Macché, grazie,” mettendogli una banconota da venti dollari nel palmo della mano. Fece un mezzo inchino per ringraziarmi e mi augurò un “felice buon pomeriggio”.
Ispezionai l’ambiente. Ah, bene, lo studio era perfetto. Appoggiai la borsa in terra ai piedi della scrivania, il cui bordo si allineava perfettamente con quelli del mio portatile, proprio come piace a me. Controllai il telefono. Era senza batteria. Infilai la mano nella borsa del computer per cercare il caricatore e lo misi in carica. Chissà quanto tempo avevo perso aspettando di ricevere dei messaggi con il cellulare spento. Sicuramente proprio quando Nick avrebbe risposto alla mia e-mail, tra l’altro. Disfai la valigia, aspettando che il telefono si riaccendesse e connettesse.
Continuai il tour in solitaria della suite. Il sito del resort sosteneva che ci fosse una vasca grande abbastanza per due persone, ed era proprio così. Abbastanza larga da contenere me e il mio alter ego dalla lingua infuocata che beveva decisamente troppo. Delle mattonelle color terra in marmo, di diverse sfumature, trame, dimensioni, forme e fantasie riempivano il bagno. Sulla carta, la ricetta perfetta per un arredamento eccessivo, ma non lo era. Era mozzafiato.
La palette chiara del resto della suite si abbinava perfettamente con i toni naturali del bagno. Il meglio della natura portato delicatamente all’interno. I mobili e il ventilatore da tetto erano in bambù e le lenzuola rigate color avorio erano in un cotone egiziano, che sembrava avere mille fili, sotto un morbido piumone crema. Non vedevo l’ora di fiondarmi a letto e rotolarmi in quelle lenzuola, passandomi il cotone fresco sulla pelle. La maggior parte dei colori della stanza — giallo brillante, verde palma e fucsia — riprendevano piante e fiori locali.
Una portafinestra si affacciava dal bagno su un patio rivestito da piastrelle in travertino color mandorla. Il patio faceva poi spazio ad un piccolo giardino costellato di palme, che terminava con un accesso privato alla spiaggia. Oltre la spiaggia dorata si intravedeva il Mar dei Caraibi, color turchese e zaffiro. Sorrisi. Questo posto faceva per me.
Il mio iPhone si era caricato abbastanza da scaricare i dati. Lo presi in mano e mi misi a scorrere le e-mail. La mia segretaria aveva mandato qualche domanda e sia Collin che Emily mi avevano chiesto di avvisarli quando fossi arrivata. Lo feci, e mi rimisi a scorrere fra i messaggi, la maggior parte dei quali era spazzatura. E così giunsi a quello mi lasciò senza fiato: la risposta di Nick.
Misi giù il telefono fino a quando non ripresi a respirare normalmente. Asciugai i palmi sul vestito viola e ripresi in mano il cellulare. Niente di grave. Stavo bene. Il corpo della e-mail era breve:
“ok”
ok. OK!! Due lettere minuscole, una parola. Non molto a cui aggrapparmi. Avrebbe potuto cancellare l’e-mail senza leggerla. Avrebbe potuto leggerla senza rispondere. Avrebbe potuto leggerla e rispondere in modo maleducato (“ok” era maleducato?). O, avrebbe potuto leggerla e rispondere con qualcosa di incoraggiante, tipo “Ci vediamo quando torni” o “Buone vacanze”. Con la mente iniziai a ripercorrere tutti i possibili scenari che coinvolgevano Nick, un’aspirante NASCAR in un parcheggio di roulotte. Così non andava bene.
Scolai il mio punch al rum e cenai con la fetta d’ananas decorativa. Guardai dentro al minibar. Jackpot. Un’intera caraffa di punch al rum mi stava aspettando. Purtroppo, non c’era frutta. Il succo di frutta fa abbastanza bene però. Il punch al rum sarebbe stato un degno sostituto del Bloody Mary. Mi servii un bicchiere.
Nick. Quell’impassibile idiota. Dovetti sforzarmi per non rispondergli. Punch al rum. Mi sforzai più duramente. Più punch al rum. E così presi la mia decisione. Dovevo andarmene da lì. Presi la borsa, il telefono e la chiave della camera e mi diressi al bar che avevo intravisto durante il check-in.
Il bar in questione era un patio coperto in cima ad una collina con vista sulla spiaggia e sull’oceano. Mi trascinai su per gli scalini di pietra e scoprii una grande concentrazione di gente, sia davanti al bancone in mogano che ai tavoli, sparpagliati sul pavimento in ceramica. Alcune persone ballavano, una danza lenta e sensuale, sulle note della musica di un gruppo reggae che non sembrava niente male. Stavano suonando una canzone sui trentacinque gradi all’ombra. La cantante borbottava il ritornello — “Molto caldo, anche all’ o-o-o-ombra.” Mi sedetti al bancone e mi girai ad osservarli, mentre aspettavo che il barista dai rasta biondi mi servisse il mio Bloody Mary. Dopo il primo sorso, mi resi conto che così non andava bene, e ordinai del punch al rum.
“Butti via cocktail perfetto? Qual è tuo problema, amica?” Disse qualcuno, pronunciano “amica” in un modo tipo “amuica”. Ci misi un po’ a capire che era stata la cantante a parlare.
“Ho cambiato idea,” dissi.
“A meno che tu no abbia qualche strana malattia, dà me quella roba,” disse.
Le allungai il bicchiere, ignorando quanto fastidio mi desse il condividere germi con una sconosciuta. Non volevo fare la maleducata. “Ne ho bevuto un sorso,” la avvisai.
Tirò fuori la cannuccia dal bicchiere e la lanciò verso il bidone dall’altro lato del bancone. Non entrò. “Grazie. Cantare fa sete.” Mi porse la mano. “Io Ava.”
Le strinsi la mano. “Katie.”
“Mia gente loro via prima che finiamo nostro ultimo set. Problema.”
Provai a seguire, ma il suo accento spezzato non aiutava. Mi persi metà di quello che disse. Le feci pena.
“Lah, tu non mi capisci.” Buttò giù un po’ di Bloody Mary. “Ho detto che la band se n’è appena andata e non abbiamo finito il nostro ultimo set. Finiremo nei guai col proprietario,” disse con un accento impeccabile, pronunciando ogni parola perfettamente.
“Oh, wow, sì, adesso capisco.”
“Mi dispiace. Uso la parlata locale quando mi esibisco, o quando parlo con altri locali. Ma posso americanizzarmi al bisogno.”
“Americanizzarti?”
“Parlare come gli americani. È come essere bilingue. Parlare la lingua come la parlano i locali facilita le cose e fa colpo sui turisti. Fa parte dell’essere baan ya.”
“Cosa significa baan ya?”
“Tradotto, significa ‘nato qui.’ Puoi vivere a St. Marcos da quarant’anni, ma sei davvero dell’isola se sei baan ya. Come me. Ora, ti devo un drink,” disse, facendo un segnale al barista, “E con i miei amici, pago sempre i miei debiti.”
Sei
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Mi risvegliai su una chaise longue il mattino seguente, con ancora addosso il vestito lungo del giorno precedente. Stessa storia, posto diverso. Ma ero disgustata da me stessa anche più del solito. Ero qui per approfondire la morte dei miei genitori e rimettermi in sesto, il che doveva comprendere darci un taglio col bere. E pensare a qualcos’altro, anziché a Nick. Sembrava che l’unica cosa che avessi fatto finora fosse prendere i miei problemi e portarli in una realtà diversa, facendo del passato il mio presente. Bel lavoro, Katie.
In un momento di panico, mi tornò alla mente la notte prima. L’e-mail di Nick. Il punch al rum. Il bar dell’hotel. Gli avevo mandato un altro messaggio? Oh, ti prego, no.
Mi fiondai in piedi, con il cuore che mi batteva in gola. L’acqua azzurra giocava con la sabbia marrone proprio nella spiaggia davanti ai miei occhi. In lontananza, due bambini piccoli giocavano con i secchielli sul bagnasciuga. Sopra di me, il sole del mattino brillava attraverso le foglie di palma e baciava il tappeto d’erba davanti al patio. La pace di questo posto mi rasserenò. Sarebbe andato tutto bene.
Trovai il cellulare vicino a me e mi misi a scorrere tra messaggi ed e-mail inviate. Nulla, grazie Signore. Ieri sera avevo mandato tutto all’aria. Ma, oggi, avrei iniziato ad indagare sul mistero della morte dei miei genitori e avrei riiniziato da zero, sul fronte personale. Dopo un paio di altre ore di sonno. Mi riaccasciai sulla mia chaise longue.
“Lah, amica, una serata da rock star,” disse la voce di una donna. Una donna praticamente davanti a me, a quanto pare.
Mi alzai di nuovo, ancora più velocemente. Riconobbi quella voce roca. Anche se il nome della donna a cui apparteneva era un mistero. Mi sforzai. Abigail? Ariel? Eva? No. Ava. Era Ava.
Finsi una risata. “Sì, che serata. Almeno ciò che ricordo.”
Mi affacciai e scrutai la chaise longue dall’altra parte del patio e, eccola, c’era Ava. Si alzò in punta di piedi e stiracchiò le braccia sopra la testa, azione che può avere conseguenze inaspettate se svolta in quel suo mini-vestitino giallo in lycra. Distolsi lo sguardo. Una volta finito, si ributtò sulla sedia, stropicciandosi gli occhi.
“Beh, immagino dovremmo iniziare a prepararci,” disse, gettando le ciglia finte sul tavolino del patio e iniziando a lavorare sull’altro occhio. “Però io voto per una tanica d’acqua e due Excedrin con delle uova strapazzate prima.”
Non avevo la minima idea di cosa stesse parlando. Provai a liberare la mente dalla nebbia della sbornia. Dovevo preoccuparmi? Avevo letto a proposito dei pirati e dei furfanti dei Caraibi. Forse era una truffatrice di qualche tipo. Potevo essenzialmente essere sua prigioniera. Era un po’ esagerato, ma possibile. Per un momento i miei neuroni stavano per ricordare qualcosa, che poi svanì.
Ava continuò a parlare. “Conosco lo chef del ristorante. Ci penserà lui.” Ava si allungò per prendere il telefono dal tavolino del patio al suo fianco.
La ascoltai ordinare nel suo dialetto locale. Nonostante fosse al telefono, continuò il suo rituale — tolse orecchini, un braccialetto e una collana — e si alzò di nuovo finita la chiamata.
“Hop hop, Katie. Ci aspettano giù alla stazione.” Si tolse il vestito in un’unica mossa veloce, rivelando le proprie impeccabili curve color caffelatte, imbrigliate in un completo intimo leopardato in raso. Le mie mani si posarono sulle mie anche sporgenti, Pippi Calzelunghe e Beyoncé. Si infilò nella mia stanza.
Rimisi la mascella al suo posto e ripensai alle sue parole. Stazione, stazione di polizia. Sì. Doveva essere questo. Alcuni frammenti di ieri sera iniziarono a tornarmi alla mente, tra i quali io che racconto ad Ava di essere qui per scoprire cos’è successo davvero ai miei genitori, e lei che chiama un qualche agente di polizia con cui era uscita o che voleva uscire con lei, qualcosa così. Sì. Era così. Mi ricordavo. Sollievo.
Si affacciò dalla portafinestra e racchiuse i suoi lunghi capelli ricci in uno chignon. “Ti dispiace se faccio la doccia per prima?”
“Tranquilla,” dissi.
Sollevò un sopracciglio. “Stai bene?”
Balzai in piedi. “Certamente. Cerchiamo di darci una mossa con le docce e finire prima che passi il servizio in camera.”
“Yah mon,” disse, scomparendo di nuovo.
Buttai la testa all’indietro con gli occhi chiusi e mi tappai il naso. Solo perché iniziavo a ricordarmi di ieri sera, non voleva dire che passare la giornata insieme fosse una buona idea. Non conoscevo nemmeno Ava. Stavo esagerando? Riportai su la testa.
Beh, lo stavo per scoprire.
Sette
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
“Non riesco a credere che tu stia mollando tutto per aiutarmi,” dissi.
Ava aveva ingabbiato le sue curve in un bikini e una minigonna di jeans azzurra, entrambi miei, e si era messa una delle mie camicette facendo un nodo sopra l’ombelico. Rimase scalza.
“La migliore offerta del giorno,” disse. “Sono appena tornata sull’isola, sei mesi fa. Faccio la ballerina/cantante/attrice/morta di fame a New York, ma i miei genitori stanno invecchiando e, beh, non posso allontanarmi da St. Marcos per sempre. Ce l’ho nel sangue.” Prese in mano il telefono, si mise a cercare qualcosa fino a trovarla, poi me lo passò. Aveva aperto una sua fotografia, dove si trovava tra un uomo bianco molto più vecchio di lei e una donna dalla pelle scura, con un’età compresa fra quella di Ava e del marito. “I miei genitori,” spiegò. “Quindi capisco perché sei qui. Se qualcosa succedesse a mamma o papà, farei lo stesso.”
Evidentemente, le avevo detto tutto la sera prima.
“Siete molto belli,” dissi. “Sei l’esatta combinazione fra i due.” E le restituii il telefono.
Lo era. Ava trasudava sensualità, con la sua pelle cappuccino e i suoi ricci scuri poteva passare per ogni etnia. Italiana, egiziana, messicana, o tutte insieme. Una bella combinazione.
Tirò fuori un rossetto dalla sua minuscola borsetta e si diresse al bagno, continuando a parlare. “Yah, sono fantastici. Comunque, sono a casa, ma non c’è molto lavoro sull’isola per una laureata all’Università di New York con una specializzazione in musical di Broadway e nessun’altro tipo di competenze professionali.”
Alzai la voce per farmi sentire dall’altra stanza. “Ti capisco. Ho seguito un corso di musica all’università, prima di rinsavire. Tre anni spesi a farmi dire quanti pochi soldi avrei guadagnato come cantante.”
“Sai cantare? Amica, perché non me l’hai detto ieri sera? Avrei potuto farti salire sul palco.”
“Assolutamente no,” dissi, ridendo. “È passata una vita.”
“Non vuol dire nulla. Beh, comunque, sono contenta che tu sia qui. Questo è molto meglio che guardare Oprah con mia mamma.” Ava tornò in camera da letto e si mise a studiarmi, con un dito sulle labbra. “Il fatto è, penso tu sia una tipa a posto.”
Mi piaceva, anche se eravamo agli antipodi. E adoravo ascoltarla parlare, e stavo anche iniziando a capire meglio il suo dialetto. Yah era “sì” e Yah mon poteva essere “sì” o “nessun problema”, ad esempio. Non era poi così difficile.
Le dissi, “Beh, di nuovo, grazie dell’aiuto.”
Ava mise il piede vicino al mio e alzò la testa. “Mi serve un paio di scarpe. Le uniche che ho sono quei tacchi da rimorchio che avevo messo ieri sera. Ho i piedi abbastanza grandi, che ne pensi se proviamo il paio più piccolo che hai?”
Fui un attimo turbata da questa dichiarazione, data l’educazione impartitami dalla mia maestra d’asilo/madre, ma il commento sui miei piedi non mi offese. Ero dieci centimetri più alta di lei. “Cosa ne dici di queste?” chiesi, lanciandole dei sandali infradito della Reef che erano mezza taglia più piccoli di quanto avrei dovuto comprarli.
Vi infilò il piede dentro e si mise in posa come in un negozio di scarpe. “Cosa ne pensi?”
“Penso che la tua roba stia meglio a te che a me, e che dobbiamo sbrigarci, altrimenti inizierò a odiarti per questo.”
Rise e mi posò un braccio sulle spalle. “Yah, o io ti odierò per fare sembrare il mio bana ancor più grande di quanto già non sia,” disse, sculacciandosi il sedere con l’altra mano. “Dai, andiamo.”
Ava tolse il braccio dalla mia spalla. Si mise i miei occhiali da sole, prese la mia borsa dalla scrivania e mi infilò i piedi dentro ai sandali di Betsey Johnson che per fortuna erano troppo grandi per la mia nuova amica. Ava uscì dopo di me. Camminavo a passo sostenuto per i marciapiedi, alimentata dalla splendida mattina, per raggiungere l’auto a noleggio che il portiere aveva fatto recapitare qui per me.
“Rallenta e rilassati un po’, Katie. Stai andando troppo veloce per i ritmi dell’isola,” disse Ava dietro di me.
Aprii la portiera dell’adorabile Chevrolet Malibu verde. “Rilassarmi, ci posso riuscire. Fatto.”
Lungo il tragitto, Ava mi istruì sui convenevoli dell’isola, sottolineando quanto fosse importante integrarmi per la riuscita della mia missione.
“Non dire ciao. Dì buongiorno, buon pomeriggio, e buona sera. Lo dici quando entri in una stanza piena di gente, non alle singole persone. Non c’è bisogno di stabilire un contatto visivo. Dopo averlo detto, fai una lunga pausa, per dare la possibilità all’altra persona di rispondere e chiederti come state tu e la tua famiglia. Dopo, e solo dopo, puoi parlare di affari. Se non segui questo rituale, non otterrai mai nulla.”
“Sì, signora,” dissi, portando la mano alla fronte.
“Sono seria. Se fai le cose di fretta, parli velocemente e non dici le cose giuste, faranno finta di ascoltarti e anche se crederai che stia andando tutto bene, non sarà così.”
Tenni a freno la mia allegria. “Lo so che sei seria, e apprezzo il tuo aiuto.”
“Comunque, lascia che parli io.”
Non ero molto brava a lasciare che qualcuno parlasse per me, ma ci avrei provato.
Eravamo ormai nel centro della città e dovetti improvvisamente sterzare per evitare una limousine che stava uscendo da un parcheggio proprio davanti a noi. Mentre mi rimettevo a sinistra, sentii uno scricchiolio sotto una delle ruote. Suonai il clacson. Già era difficile guidare a sinistra, e adesso questo. Diedi uno sguardo allo specchietto retrovisore per leggere la targa. Una targa personalizzata. Ovviamente. Diceva, “BondsEnt”.
“Quello è il mio futuro marito,” disse Ava, indicando la limousine.
“Sul serio?”
“Nah, è solo abbastanza ricco da mantenermi.”
Un isolato più avanti, sentii un tum, tum, tum. Gomma a terra.
“Merda,” dissi, accostando.
“Domenica mattina,” disse Ava, come se in qualche modo spiegasse l’accaduto. Devo averla guardata con fare interrogativo, poiché aggiunse, “Vetri rotti delle feste in città.”
“Ah,” dissi. Una donna di molte parole.
“Non è un problema,” disse Ava, balzando fuori.
La seguii sul marciapiede. Scossando appena i capelli, una folla di uomini caraibici si fiondarono lì per darle una mano.
“Ah, mehson, i tuoi muscoli stanno facendo un ottimo lavoro.” Lusingò i suoi aiutanti, chinandosi in avanti in modo da mostrare la scollatura.
“Posso mostrarti altri modi di usarli, se vuoi,” rispose.
“Lah, sei troppo per una ragazza come me. Le altre donne devono litigare per te giorno e notte.”
“Sei l’unica ragazza per me, Ava. Sai che se mi vuoi, io sono qua.”
Una volta finito di cambiare la ruota, Ava si liberò della folla senza troppi sforzi. Rientrammo in auto.
“Sei stata incredibile,” dissi.
Ava si limitò a sorridere.
Continuammo a guidare per il centro e i suoi edifici in stile danese. Predominavano pareti in stucco e archi di diversi colori e dimensioni. Praticamente tutte le altre costruzioni erano ridotte allo sfacelo. Ad alcune mancava il tetto. Colpa degli uragani, forse? Altre avevano appena una pila di macerie al posto dei muri. La gente del posto si ritrovava a piccoli gruppi agli angoli delle strade. Più spesso di quanto mi aspettassi, sorpassammo dei senzatetto sgangherati che spingevano carrelli pieni di oggetti di fortuna. I turisti, in maglietta e pantaloncini, si facevano strada tra i locali con le loro straripanti buste della spesa e coni gelato tra le mani.
Presto, però, superammo il centro. Ai margini della città, arrivammo ad un edificio in stile danese a due piani, color carta da zucchero. Quartier generale della Polizia. Entrammo nel parcheggio e uscimmo dall’auto.