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Saving Grace
“Quanto manca?” chiesi.
“Dieci minuti,” disse.
Guidammo lungo la costa per un altro chilometro, poi ci addentrammo nell’entroterra, in salita. Non mi piaceva abbandonare la calma del litorale. Gli ultimi otto minuti di tragitto erano stati su strade sporche e dissestate che a cadenza regolare si trasformavano in foreste di cespugli.
“Non è un posto da esplorare da soli,” disse Ava, indicando una delle traverse. “Troppo isolato.”
“Però è bellissimo quassù,” dissi. Di fatto, ero scioccata da quanto fosse bello. Diverso dalla costa, ovviamente, ma diverso in senso buono, in modo perfetto. Gli alberi erano più alti e si intrecciavano sopra la strada, creando un tetto sopra di noi e smorzando il rumore dell’infrangersi delle onde sulla sabbia e sugli scogli, a un solo chilometro di distanza. Intravidi delle piume colorate fra gli alberi.
“È un pappagallo?”
“Yah mon. Vivono quassù.”
Al contrario di Ava, non credevo mi sarei mai abituata a questo tipo di flora e fauna. Ne venni assorbita: orchidee più belle di qualsiasi fiore cittadino, con venature fucsia e rosa, e Flamboyant da un arancione fiammeggiante, imponenti e maestosi, che mi ricordavano le mimose di casa.
“Gira qui,” disse Ava, così curvai velocemente, in direzione all’oceano, anche se a centinaia di metri più in alto.
Guidammo ancora mezzo chilometro, per poi uscire dalla boscaglia. Il cambio di scenario fu improvviso e spazzò via tutta la calma della foresta. Anche il mio umore cambiò. Ma chi voglio prendere in giro? Le mie emozioni erano grezze e il mio umore oscillava da su a giù più velocemente di Sarah Brightman nel Fantasma dell’Opera.
“Puoi parcheggiare dove vuoi,” disse.
Accostai l’auto e parcheggiai, spegnendo il motore e trattenendo il respiro.
Venire nel posto in cui i miei genitori erano morti era come entrare nelle chiese colorate della Navidad Valley, in Texas. Avevo visitato La Grange mentre ero alle medie, con la mia famiglia. In quelle antiche chiese di legno, sapevo di essere davanti a qualcosa di sacro e potente e che, sotto quei tetti, sofferenza e venerazione andavano di pari passo, proprio come era successo all’incontrarsi della foresta e degli scogli. Dove la vita incontrava la morte.
Ava era già scesa, di nuovo a piedi nudi, e stava procedendo verso la salita. Mi incamminai dietro di lei. Volevo sentire di nuovo i miei genitori, far loro sapere che ero venuta qui, che per me erano importanti. Che anche se non fossi riuscita a fare altro in questo viaggio, almeno avrei detto loro addio.
“Vi voglio bene, mamma e papà,” sussurrai.
Ava raggiunse la vetta della collina e in tre passi era già sparita, accelerai. Arrivando alla cima, mi mancò l’aria e feci un passo indietro per l’improvvisa vertigine. Il terreno scendeva per circa trenta metri, e poi semplicemente svaniva. All’orizzonte, solo il cielo, che si ricongiungeva in lontananza con il Mar dei Caraibi.
“Non sono i primi a cadere da questo promontorio,” disse Ava, con tono solenne.
“Oh mio Dio,” dissi, non riuscendo a pensare ad altro. Affondai nell’erba. Mi accovacciai in una collinetta, cercando di schiarirmi le idee. Perché? Perché erano venuti qui?
“Questo è come un ritrovo per gli innamorati, nel suo modo desolato e inaccessibile. Molte delle ragazze che conosco hanno perso la verginità qui. Alcuni si sono anche buttati per amore. Ha sempre avuto un fascino romantico a cui le persone non riescono a resistere.”
Rimuginai sulle sue parole. Era possibile che i miei genitori avessero cercato questo posto? Un’ultima avventura per concludere la vacanza? Li immaginai mano nella mano, testa contro testa. Speravo fosse così. Qualcosa dentro di me non ci credeva, ma Dio, se lo speravo.
“Addio, mamma e papà,” sussurrai. Chiusi gli occhi di nuovo, contai fino a cento, cercando di non pensare a nulla, e offrii il mio cuore al cielo.
Undici
Promontorio di Baptiste, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Ce ne andammo dal Promontorio di Baptiste, rientrando nella foresta tropicale, mezz’ora dopo. Il mio umore era in fase di ripresa, tanto che la bellezza dei fiori mi estasiò nuovamente. Sembravano adesso come un tributo ai miei genitori. Un allestimento floreale. La foresta tropicale non era solo un toccasana per i miei occhi, mi faceva sentire più vicina a mamma e papà. Odiavo dovermene allontanare.
“Sai, un amico offre un tour guidato della foresta. Organizza una navetta proprio dal Peacock Flower. Dovresti andare con lui domani. Lo chiamo per dirgli che ti unisci.”
“Un’escursione? Non sono un’escursionista. Sono una brava guidatrice, però. C’è un tour in macchina?”
“No. È un botanico, e adesso chiudi il becco e vai con lui. Ti cambia la vita.”
L’intero viaggio mi stava già cambiando la vita, ed ero arrivata appena ventiquattro ore prima.
Cedetti ad un impeto di sincerità. “Sono qui per questo, sai. Per cambiare la mia vita. O, meglio, dovrei essere qui per questo, il più possibile, in una settimana. Mio fratello ha insistito. Pensa che beva troppo. Sto cercando di ignorare i sintomi per andare dritta alla fonte. Non è l’alcol in sé. Sono i miei genitori. Le mie cattive scelte. Lo struggermi per il ragazzo sbagliato. Etcetera etcetera.” Cercai di sviare il discorso, imbarazzata dalle parole che non potevo più rimangiarmi.
La mia confessione non turbò Ava. “Quasi tutti stanno scappando da qualcosa quando vengono qui. Spendono la maggior parte del tempo cercando di capire se stanno cercando di scappare dalla cosa giusta, o se la cosa sbagliata li ha seguiti qui.”
Era una frase profonda. Era stata una giornata abbastanza profonda, così rimasi in silenzio.
Ma non Ava. “Non hai detto che tuo padre era un alcolista? Penso di aver letto che è una questione genetica,” disse.
“Sì. Forse.” Ma io non ero un’alcolista.
“Molte persone che si trasferiscono qui diventano alcolisti,” disse. “Non è un posto facile per smettere di bere.”
“Me ne sono accorta.” Almeno non si era concentrata sulla parte del ragazzo sbagliato, ma ero pronta a lasciar perdere del tutto l’argomento dei problemi di Katie. Eravamo quasi arrivate in città. “Dove ti porto?” chiesi.
“Portami a casa, così posso cambiarmi. Ho un appuntamento più tardi, ma sono in cerca di compagnia fino ad allora.”
“Non canti stasera?” chiesi.
“Non ufficialmente.”
Qualunque cosa significasse.
Accostammo a casa di Ava e mi invitò dentro. Era piccola, ma pulita. Carina, la maggior parte dei mobili erano di vimini, con vaporosi cuscini bianchi. Gironzolai, guardando le sue foto, fino a che non uscì dalla camera indossando un vestito da bambolina color verde acqua con una scollatura a goccia. Indossava anche dei sandali bianchi dove tornava il motivo a goccia, sulla parte superiore in pelle.
“È chi penso che sia?” chiesi, indicando la foto di una giovane Ava con un bellissimo e famoso attore.
“Sì, sono andata all’Università di New York con lui. Non dire a nessuno che te l’ho detto, ma è gay. Tutti i più belli sono gay.” Infilò un tubetto di lucidalabbra nella borsetta bianca. “Pronta?”
“Dipende dalla cosa per cui dovrei essere pronta ma, in generale, sono pronta ad andare.”
“Sembri un avvocato.”
“In realtà, sono un avvocato.”
“Oh, questo spiega molte cose,” disse in un tono di voce che implicava ci fosse molto da spigare.
“Sì, sì, sì. Ma per cosa dovrei essere pronta?”
“Per cantare.”
Scoppiai a ridere. “Così, a caso. E no, non sono pronta.”
“Va bene. Allora andiamo al casinò. Hanno un open bar di cibo e bevande.”
Nessuna obiezione.
Dopo esserci fermate al mio hotel più a lungo del previsto, dovendo io rispondere a delle e-mail di lavoro, arrivammo al Casinò Porcus Marinus. Il casinò si trovava sulla costa sud dell’isola, vicino all’omonimo resort e a pochi passi da una spiaggia di sabbia bianca. La luna piena si rifletteva sulla superficie increspata dell’acqua. Si trattava di un enorme edificio simil-bunker, accompagnato dal più grande parcheggio dell’isola. Salimmo gli scalini per il bunker e passammo sotto ad un grande cartellone sulla porta che leggeva “Serata Karaoke”.
“Serata Karaoke?” chiesi ad Ava, con sguardo sospetto.
“È il destino,” rispose.
Entrammo, e io tossii immediatamente. Una nube di fumo aleggiava sul tetto del casinò. Per la prima volta da quando ero arrivata a St. Marcos, avevo la sensazione di essere in un posto senza tempo. Nessuna finestra. Rumori continui: il rumore bianco delle campanelle delle slot machine e i boati che erompevano dai tavoli da gioco come a comando.
E un altro rumore. In sottofondo, riuscivo a distinguere solo la voce di un DJ che cercava di convincere le persone a prendere parte al karaoke. “Chi sarà il prossimo? Sarà lei, bella signora? O lei, signore, là con la camicia rubata a Jimmy Buffett?”
Ava mi diede una piccola spinta fra le scapole, in direzione al palco. Il posto era affollato e non erano neanche le nove di sera. Ci snodammo tra la folla di caraibici confusi e turisti barcollanti. Sembrava che la maggior parte di loro avrebbe fatto meglio a spendere i propri soldi in un buon pasto o alcuni vestiti puliti.
Fui colpita da un’angosciante e indesiderata epifania. Il Porcus Marinus non era diverso dal breve assaggio che avevo avuto del casinò dell’Eldorado a Shreveport. Cercai di distrarmi. Era diverso. Un altro mondo. Diverso in un modo di cui non dovevo vergognarmi. Camminai a testa alta.
Quando arrivammo al palco, Ava non fece una piega. Mi passò davanti e raggiunse il DJ. “Signorina Ava,” disse lui al microfono. Alcune persone nel pubblico applaudirono e gridarono. “Cosa ci canterà stasera, bellissima?”
“Metti qualcosa dei No Doubt, dei Fugees, e,” si girò verso di me, “cos’altro?”
“Sono del Texas. Dammi qualcosa delle Dixie Chicks e di Miranda Lambert.”
Il DJ disse, “Miranda chi?”
“Non importa. Delle Dixie Chicks.”
“Quelle tre ragazze bionde?” chiese.
Sono sicura che avrebbero amato venire descritte così, ma gli era andata meglio che a Miranda. “Sì.”
“Yah, ce le ho.”
Ava lanciò il portafoglio alla postazione del DJ come fosse un frisbee. Io mi avvicinai e lasciai il mio sul tavolo. “Va bene?” chiesi.
Aveva già fatto iniziare Underneath It All dei No Doubt e stava muovendo la testa a ritmo della musica che usciva dalle casse e dalle cuffie che indossava in un orecchio solo. Neanche mi guardò. Il suo sguardo era fisso su Ava.
“Che cavolo,” dissi, e mi diressi verso un tavolo di fronte al palco per guardarla.
“Oh no,” disse al microfono. “Porta il tuo bana sul palco, amica.” Il suo accento si stava facendo sempre più forte.
Il pubblico applaudì ancora di più.
“Ottimo,” dissi fra me e me. “Sono l’americana incapace. La turista imbranata.”
“Il tempo passa quassù,” disse Ava, battendosi una mano sul fianco. Okay.
Sospirai e mi diressi verso il palco nello stesso prendisole bianco che stavo indossando da quando ero uscita quella mattina, salii quei tre scalini sventurati e la raggiunsi davanti al telone nero di fondo. Ero tutta angoli retti e spigoli vivi, vicino al suo vavavoom e curve. Se devi farlo, fallo con stile, pensai, e alzai di nuovo la testa.
Ora il pubblico si unì ad Ava nell’urlare e applaudire per me. Mi passò il microfono e indicò lo schermo. “Canta,” ordinò.
Così cantai. E anche lei cantò, così cantammo insieme, e fu incredibile: la mia voce vibrante, capace di raggiungere le note più alte ma troppo esile da sola, intrecciata e ispessita dalla sua voce più profonda e espressiva. Armonizzavo con lei, la accompagnavo, e lei mi restituiva il favore. Mi rilassai e immaginai i miei spigoli che si smussavano, anche solo un po’. Fu divertente.
Lasciammo il palco dopo venti minuti con una standing ovation, che rimaneva tale anche se formata da dieci uomini ubriachi e una signora dai capelli blu che si era persa tornando dal bagno nel tragitto alle slot machine.
“Chi sarà così coraggioso da seguirle?” chiese il DJ. La folla urlante rispose, “Non io”, “Niente da fare”, “No, signore”. Mise su una playlist, ci fece le congratulazioni e andò in pausa.
Collassai sulla sedia. “Champagne,” dissi alla cameriera che ci aveva seguite al tavolo.
“Anche per me,” disse Ava.
Scarabocchiò il nostro ordine e se ne andò dondolando, dandomi la miglior lezione su come vivere la mia vita con calma finora.
“Abbiamo spaccato, Katie Connell,” disse Ava. “E cavolo, sei ancora più alta sul palco.”
Non avevo più cantato, eccetto in macchina e nella doccia, da anni ormai. Ero elettrizzata. Viva in un modo che fare l’avvocato non mi faceva sentire, questo sicuramente. “Siamo da sballo,” dissi, per poi mettermi a ridere. Da sballo. Come se l’avessi mai detto prima.
“Yah mon,” disse Ava.
La cameriera stava dondolando di nuovo verso di noi, portando i nostri drink su un vassoio. Mentre passava davanti ad un tavolino rotondo dall’altra parte della sala karaoke, una donna si alzò e la prese per il braccio che aveva libero. La sua voce echeggiò tra il rumore della folla.
“Dov’è il mio drink? Ho ordinato cinque minuti fa,”
“Lo porto al più presto,” disse la cameriera, togliendosi il braccio della donna di dosso.
“Voglio il mio drink adesso. Che cosa ridicola. Dov’è il tuo capo?” chiese la donna, lasciando trapelare dal suo accento di essere di New York o dintorni.
La cameriera annuì, sorrise, e disse, “Oh, sì, signora, glielo porto subito.”
Riprese a camminare verso di noi, ancora più lentamente. Quando ci raggiunse, Ava le disse, “Wow, qualcuno si crede speciale.”
“Davvero,” concordò la cameriera. “Sta per passare una bella sete.”
Lasciò i nostri drink sul tavolo e se ne andò. “Cosa ti ho detto?” mi disse Ava.
“Me la devo prendere comoda,” dissi.
Bevemmo il nostro champagne da dei bicchieri di plastica con dei delfini blu disegnati sui lati. Presi un sorso e le bollicine mi solleticarono il naso. Ridacchiai di nuovo. Non bevevo mai questa roba. Non ridacchiavo neanche. “Salud,” dissi, alzando il bicchiere. Ava ed io battemmo i bicchieri, schizzandoci lo champagne sulle braccia. Ridacchiai di nuovo.
“Questa sedia è occupata?” chiese una voce profonda. Uno dei nostri ammiratori, forse? Le sue spalle larghe bloccavano i raggi del sole, wow. Peccato non ci fossero raggi di sole nel casinò. Bloccavano la luce dei dozzinali lampadari. In controluce, non riuscivo a vedere il volto a cui apparteneva la voce.
Ava però la riconobbe. “Jacoby, siediti, meh son.” Diede una pacca alla sedia rivestita in ecopelle accanto a lei. Che piccola quest’isola.
Darren Jacoby, ancora in uniforme, si sedette davanti ad Ava e i due si scambiarono baci sulla guancia.
“Salve, signora Connell,” disse, da sopra la spalla.
Sembrava proprio non volesse chiamarmi Katie. E vabbè. “Salve, Agente Jacoby.”
“Non posso fermarmi a lungo,” disse ad Ava. “Sono in servizio. Il mio turno finisce alle dieci. Ero qui di pattuglia, quando ti ho vista. Cosa fate?”
“Siamo state dall’investigatore privato che ci ha consigliato,” dissi al suo profilo.
Si girò verso di me, senza espressione sul viso. “Beh, spero che si dimostri utile. Quando torna negli Stati Uniti?”
Non andava per il sottile. “Tra cinque giorni,” dissi.
“Faccia attenzione, allora.” Spostò nuovamente l’attenzione su di Ava. “Vuoi fare qualcosa dopo? Ho il DVD di Love and Basketball.”
Oh mamma, ancora meno per il sottile. Ormai poteva anche farle un cartellone.
“Oh, Jacoby, non posso. Ho un appuntamento.”
Strinse la mascella e la rabbia gli riempì gli occhi così velocemente che quasi non me ne accorsi. “Sempre con qualcuno, eh, Ava?” Rilassò la mascella. Le sue grandi spalle si fecero piccoline. “Beh, un’altra volta.”
“Certo,” rispose.
“Me ne vado, allora.”
Si scambiarono di nuovo baci sulle guance, lui si girò, chino il capo verso di me e se ne andò, con la sua stazza da orso delle nevi. Non mi piaceva molto, ma mi dispiaceva comunque per lui.
Ava aveva una faccia triste. “Non cambia mai. Non si arrende facilmente.” Tirò fuori il telefono e disse, “Fammi controllare per l’appuntamento”. Qualche click più tardi, disse, “Guy ha prenotato una stanza qui, sulla collina. Una suite. Oh là là.”
“Me lo farai conoscere?” chiesi.
“No. È molto discreto su di noi.” Indicò l’anulare della mano sinistra e sussurrò la parola sposato. “Non mi contatta nemmeno personalmente. È come avere una relazione con il suo assistente, Eduardo.”
“Mi dispiace,” dissi, dal momento che non sapevo che altro dire. Sembrava un viscidone.
“Oh, va tutto bene,” disse Ava, allontanando con la mano il problema immaginario. “È un senatore. Le persone lo conoscono. È un’isola piccola.”
L’avevo notato.
Ripensai a come mi sentivo quando Nick mi ignorava in pubblico. E non eravamo nemmeno in una “relazione”. Anche Jacoby non stava con Ava, ma questo non gli impediva di avere opinioni forti sui suoi appuntamenti. “Ma non ti fa stare male?”
Ava serrò le labbra. “Non lo amo, Katie. È carino, e sta cercando di far girare uno show televisivo sull’isola, con la sottoscritta come protagonista. Otteniamo ciò che vogliamo l’uno dall’altra. Preferisco la ricchezza al potere, comunque, e lui non è ricco.” Prese un altro sorso di champagne.
Sistemai i capelli dietro le orecchie. Uno show televisivo? Il senatore Guy doveva essere il mio compagno di bevute sull’aereo. Decisi di non raccontaglielo, dal momento che ci aveva provato spudoratamente con me. Ehi, se il loro accordo stava bene ad Ava, avrei dovuto farlo stare bene anche a me. Forse sarei più felice se fossi distaccata quanto lei. Forse. Ma probabilmente no.
“Quindi, chi è il ragazzo sbagliato che mi dicevi?” disse.
“Cosa?” chiesi, pensando per un momento che stessimo ancora parlando del suo ragazzo sbagliato.
“Quello per cui non dovresti struggerti.”
Ah, lui. Feci segno alla cameriera di portare più champagne. Poi, scrupolosamente, iniziai a raccontare la storia, cercando di non attivare nessuna bomba che potesse far andare in frantumi lo statuto di pace tra me e Nick.
Ava disse, “Stai meglio senza di lui. Mi prenderò cura io di te, e troverò un uomo che possa farti tenere la mente occupata questa settimana.”
“Niente uomini, Ava.”
“Uhm. Quindi continuerai a struggerti? Sembra che tu non voglia allontanarti da lui.”
“Non mi struggerò. Mi voglio allontanare. Davvero.”
Ava non sembrò convinta. “Se lo dici tu, Katie. Se lo dici tu.”
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