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Saving Grace
Che pensiero ridicolo. Non ero Cenerentola. Ero Glenn Close con il coniglio bollito. E lui Michael Douglas che cercava di scappare.
Non sapevo come rimediare. Ogni secondo che passava, il suo sguardo era sempre più ostile. Senza rivolgermi un’altra parola, se ne andò furioso, con quel maledetto tovagliolo stropicciato.
Tre
Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana
15 agosto 2012
Mi svegliai con violenti postumi, tanto colpa dell’umiliazione quanto della Amstel Light e del vino del minibar, e mi ricordai di Nick nella mia camera, e di come mi ero comportata. Era difficile immaginare uno scenario dove fosse andata peggio di così, ma almeno non l’avevo trovato nudo alla mia porta con una rosa fra i denti. Mi sarei alzata e mi sarei rimessa in sesto. Avrei sfoggiato il mio maglioncino verde muschio di Ellen Tracy. Avrei sistemato le cose.
Ma prima, avrei controllato i messaggi, perché il mio telefono stava esplodendo. A quest’ora del mattino?
“Dove CAVOLO sei?” Era Emily.
“?? Mi sto preparando.”
Una verità un po’ distorta, ma la regola fondamentale degli SMS è di essere concisi, per questo omisi qualche dettaglio.
“Abbiamo iniziato. Muovi il sedere!”
Forse non era così presto come pensavo. “Sto arrivando.”
Beh, farmi bella e riprendermi allo stesso tempo era ormai fuori questione, anche se penso ci sarei riuscita comunque date le circostanze, indipendentemente dalla fretta. Mi rimisi in sesto in conformità con le norme igieniche ed estetiche di base e mi unii alla conferenza di team building, giorno due. Speravo di riuscire a fingere abbastanza bene da ingannare i colleghi.
Mi fermai davanti alla porta aperta della sala riunioni e mi misi ad ascoltare il moderatore. Lo studio aveva assunto uno sdolcinato consulente per aiutarci a risolvere gli attriti fra di noi in modo positivo e costruttivo.
“Buona fortuna,” pensai. Mi chiesi se potesse aiutarmi a risolvere il mio “Voglio andare a letto con il mio forse ancora sposato collega che, oh sì giusto, tra l’altro mi odia”.
Questa non era però una conferenza hippie: il consulente era in realtà molto bravo. Oggi si imparava come richiedere uno sforzo maggiore o minore da un collega. Ci chiese di fare coppia con il collega con cui avevamo più bisogno di costruire una relazione di lavoro efficace.
Feci la mia entrata nella sala riunioni a tema floreale. Nel giro di pochi secondi, le coppie erano formate. Analizzai la stanza per individuare i pomposi capelli biondi alla texana di Emily, sperando che mi avesse aspettata, ma era già accoppiata con il capo dei consulenti legali, prendendo l’attività troppo sul serio. Le lanciai un’occhiataccia e lei scrollò le spalle, alzando le sopracciglia, come per dire “Non è colpa mia se mi dai buca e poi non riesci ad alzarti dal letto prima di mezzogiorno.” Sbuffai e mi misi a cercare un partner.
Mentre scrutavo la stanza, gli occhi senza vita di Nick incontrarono i miei. Non bene. Anch’io non lasciavo trasparire alcuna emozione, uno sforzo considerevole considerando che gli snack del minibar della notte scorsa cercavano di tornare fuori. Iniziai a girarmi, quando vidi che stava venendo verso di me. Mi aspettavo che mi superasse, ma non lo fece.
Non disse nulla, così lo feci io. Non riuscii a trattenermi. Conduco sempre io il gioco. Non c’è da stupirsi se mio fratello maggiore mi diceva che allontano gli uomini.
“Quindi, non ne hai avuto abbastanza di me?” E forzai un sorriso autocritico.
Lui non sorrise. “Sembra il modo migliore per risolvere ‘questa cosa’, così possiamo chiarirci prima di tornare in ufficio.” Agitava la mano indicando prima lui e poi me. Mi ricordava la scorsa notte, e non in senso buono.
Ci sedemmo. I fiori sulla carta da parati e sul pavimento non mi stavano risollevando il morale. Le vigne sul tappeto iniziarono improvvisamente ad alzarsi e ad incatenarmi alla sedia per le caviglie. No, testa di rapa, è la tua immaginazione, e troppo alcol. Ugh. Snervante. Sfregai le mani sulle braccia, cercando di smussare la pelle d’oca.
Nick lesse le istruzioni a voce alta. Dovevamo fare una lista di esercizi a turno. Per prima cosa, dovevamo dirci a vicenda le cose che apprezzavamo a vicenda; poi, le cose di cui avevamo più o meno bisogno da parte dell’altro; e infine, cosa volevamo impegnarci a fare di più o di meno. In caso ci fossimo scordati le istruzioni, erano state stampate a caratteri cubitali e incollate in tutte le pareti. Grazie, poster, per smorzare questo incubo floreale, pensai.
“Inizia tu, Nick. Credo tu abbia bisogno di ricordare cosa ti piace di me.” Dissi in tono giocoso.
Non ricambiò, né esitò. “Apprezzo che tu sia una professionista che fa un buon lavoro e lavora sodo. Sei importante per lo studio.” Non proprio caloroso.
“Grazie, Nick. Nient’altro? Puoi andare avanti quanto vuoi con i complimenti.” Provai a sfoggiare un altro sorriso, con la testa inclinata a destra. Il mio lato migliore.
“Ho finito.”
Stava andando alla grande.
“Okay, allora, di te apprezzo che…” mentre lui aveva scelto un atteggiamento puramente professionale, io mi rifiutavo di essere così impersonale, “… la tua creatività e sesto senso, e il lavoro che abbiamo svolto così bene sul caso Burnside.” Internalizzai le frasi fatte di cui trasudava l’atmosfera, come in una versione giuridica di un brutto episodio del Dr. Phil. “E apprezzo che tu non abbia un tovagliolo da bar con te oggi.” Ding, ding — Forza Nick, lasciamocelo alle spalle.
Impossibile. “Adesso passiamo alla seconda parte, più o meno bisogno di.” Si passò le mani fra i capelli. Oh-oh. “Cosa vorrei tu facessi di più è informare Gino quando hai bisogno di aiuto da parte mia, e me ne occuperò io. Cosa vorrei tu facessi di meno è,” esitò, e poi disse, “mettermi all’angolo.”
Avevo sentito male o Nick mi aveva appena scaricata? E accusata di stalking? In altre parole. Anche dopo la fine infelice della nostra serata, le ricadute professionali sembravano esagerate. Stava forse insinuando che l’avessi molestato sessualmente? In meno di un secondo, passai da zero a sessanta in una scala di rabbia.
“Non vuoi più lavorare con me? Ti metto all’ANGOLO? Abbiamo una conversazione difficile a livello personale e tu ti rifiuti di lavorare con me?”
“Puoi abbassare la voce per favore?” sibilò. Gettai le braccia in aria. Lo prese come un sì e continuò. “Voglio solo minimizzare i contatti,” disse. La sua voce rifletteva lo sguardo.
“Assurdo.” Nick alzò la mano, e io aumentai di nuovo il volume. “Siamo un’ottima squadra. Quando lavoriamo insieme portiamo grandi benefici allo studio. Non capisco perché lo stai facendo. Tutto a causa di ieri notte?”
Cento occhi mi stavano guardando mentre cadevo a pezzi emotivamente. No, era solo paranoia. Portai le mani al colletto per cercare di allentarlo.
“Non intendo parlare del perché. Ho solo bisogno di spazio. Se hai un problema con me, devi rivolgerti a Gino.”
Tempo di decisioni e autocontrollo. Se avessi fatto una scenata, l’avrei messo in imbarazzo e non sarei mai riuscita a rimettere le cose a posto. Avevo passato metà della notte prima a fare pace con il fatto che non ci sarebbe mai stato un “noi”, un “Nick e Katie”. Non mi piaceva l’avvocatura, ma nell’ultimo anno, avevo amato lavorare con Nick. Lavorare con lui era meglio di niente. Forse era anche abbastanza. Ma se me l’avesse impedito, l’unica cosa che mi sarebbe rimasta sarebbero stati pensieri che volevo continuare ad ignorare.
Dovevo anche essere realistica. Ero importante per lo studio. Ma il futuro ex-suocero di Nick era il nostro maggior cliente. Questo screzio doveva rimanere fra di noi. Non mi sarei “rivolta a Gino”. Inoltre, cosa gli avrei detto? Gino, Nick non vuole lavorare con me perché pensa che voglia andare a letto con lui. Fai in modo che sia gentile con me o faccio la matta.
Misurai le mie parole. “Immagino di non avere scelta. Rispetterò le tue richieste, ma lasciami essere chiara al cento per cento: questa è una tua decisione. Non la capisco e non è ciò che voglio. Inoltre, prometto di essere sincera con te. Iniziando da adesso.” Sembrava un bell’inizio, dato che gli avevo mentito la sera prima e lui lo sapeva. “Questo mi ferisce. Mi tratti come se mi odiassi. Abbiamo avuto un momento spiacevole questo fine settimana. Penso ne dovremmo riparlare in ufficio.”
“Non la penserò diversamente,” disse Nick. Fece per alzarsi, ma lo fermai.
“Aspetta. Devo dire cosa vorrei tu facessi di più e di meno.”
Si rimise a sedere. Ignorai il dolore lancinante allo stomaco e cominciai. “Vorrei che tu tenessi una mente più aperta, giudicassi meno e prendessi meno decisioni impulsive.”
“Okay.”
“Okay, ti impegnerai a farlo?”
“Sì, ho capito.”
Ci guardammo negli occhi per molti altri secondi. Poi Nick si alzò. Le gambe della sua sedia emisero un orribile “criiiic” sfregando contro il pavimento in resina. Rabbrividii. Probabilmente al momento sbagliato, visto come aggrottò la fronte e strinse le labbra. Se ne andò.
Rimasi inchiodata alla mia sedia.
Un po’ di tempo dopo — secondi? minuti? — Emily interruppe la mia imitazione di un blocco di ghiaccio.
“Terra chiama Katie. C’è la pausa. Vieni?” chiese. Il suo tono era nervoso, ma non quanto i messaggi di questa mattina.
Rivolsi lo sguardo verso di lei. Con le sue gambe lunghissime, aveva messo degli stivaletti texani e un paio di jeans, che aveva poi abbinato ad una giacca in denim della Gap e una camicetta di cotone viola. “Ehm, no, grazie. Ci rivediamo dopo qui,” dissi.
Emily uscì dalla sala riunioni con un gruppo di consulenti legali. Mi precipitai al bar. Qual è un cocktail che sia accettabile bere alle dieci del mattino? Ordinai un Bloody Mary, un drink che non avevo mai provato. E chi lo sapeva quanto fosse buono il Bloody Mary? Il primo mi piacque, così ne ordinai un altro. Con l’aiuto del mio nuovo amico Bloody Mary, decisi che potevo rimettere le cose a posto con Nick. Solo, non riuscivo a trovarlo.
Una volta finita la paura, presi Emily da parte. “Hai visto Nick?” le chiesi.
Emily sospirò. “Se n’è andato. Ho sentito che diceva a Gino di avere un’emergenza familiare.”
Un fiasco.
La giornata voltò al termine. Non mi ricordo molto. Penso di aver fatto espressioni e commenti opportuni quando richiesto. O forse no. La lavatrice che avevo al posto del cervello stava centrifugando pensieri su Nick.
Ad una certa ora del pomeriggio, Emily mi riaccompagnò a casa sulla mia vecchia Honda Accord metallizzata. Il giorno si trasformò in notte, e la notte di nuovo in giorno, e quando mi svegliai il giorno seguente al sentire la voce di mio fratello, mi ritrovai stravaccata sul divano del soggiorno.
Quattro
Appartamento di Katie, Dallas, Texas
16 agosto 2012
“Hai una buona scusa per non aver riposto a nessuna delle mie chiamate?” disse Collin in un austero tono da fratello maggiore. Mi sforzai di aprire gli occhi abbastanza da vederlo gesticolare per il soggiorno del mio – una volta – bellissimo appartamento. Collin era come un gemello, più grande di me di undici mesi. Avevamo finito le superiori insieme, però, dato che nostro padre, un vero texano, aveva insistito che Collin aspettasse un anno per avere un vantaggio fisico nella squadra di football. Perciò non solo eravamo identici, ma anche compagni di classe. Eppure, Collin ha sempre avuto uno spirito paterno nei miei confronti, specialmente nell’ultimo anno, dopo aver perso mamma e papà.
Aprii leggermente gli occhi, abbastanza da vedere il casino che avevo lasciato. Non doveva avere un bell’aspetto. Normalmente sono inverosimilmente maniacale per quanto riguarda la pulizia. Collin ha sempre sostenuto che avessi un disturbo ossessivo-compulsivo, ma io non ero d’accordo. Passo l’aspirapolvere al contrario perché non mi piacciono le impronte sulla moquette. Organizzo i miei vestiti per stagione e li suddivido per scopo e colore, chi non lo fa? E anche se non tutti pettinano le frange dei cuscini come me, credo che dovrebbero faro. Frange aggrovigliate. Che orrore. Queste ultime settimane, però? Beh, non così tanto.
C’erano — oh — involucri di cibo pronto sul tavolo della cucina e un paio di bottiglie di Grey Goose vuote sul piano di lavoro. Per gli standard di Dennis la Minaccia, non era così antigenico, ma se mi conosceste come mi conosce mio fratello, vi preoccupereste. Avevo dormito con gli abiti da lavoro di ieri e i vestiti dei giorni precedenti erano in una pila che non avevo ancora portato in lavanderia, a lato del sofà — lo stesso sofà sul quale il cuscino dalle frange aggrovigliate mi stava innervosendo, con i suoi nodi e le sue trecce. Sulla televisione passava Runaway di Bon Jovi da un canale di musica anni ‘80. Un quasi prosciugato Bloody Mary si prendeva gioco di me dal tavolino da caffè, dove sedeva vicino al mio portatile Vaio, una bottiglia di Excedrin e il mio iPhone.
Mi misi a sedere nel modo più decoroso possibile e stiracchiai i vestiti. “Perché non ho sentito l’allarme quando sei entrato?” gli chiesi. Collin aveva una copia delle chiavi del mio appartamento, ma l’allarme avrebbe dovuto suonare quando aveva aperto la porta.
Senza mezzi termini, Collin disse, “Devi essere stata troppo ubriaca per ricordarti di impostarlo. O forse c’era un ospite che se n’è andato tardi?”
Si guardò intorno cercando un secondo bicchiere, ma avevo bevuto da sola. Collin iniziò a mettere a posto il casino.
“Collin, ci penso io,” dissi.
“No. Vai a darti una rinfrescata,” disse. “Ti porto a fare colazione. È un ordine.”
Lo guardai con i miei occhi tristi. Indossava i soliti jeans 501 con una maglietta della Hooters, e sprizzava la frase Io non ho problemi da tutti i pori. Non volevo fare colazione con lui. Volevo mettermi in posizione fetale. Volevo dormire e stare da sola. Volevo stare così ferma da non esistere più.
Mi guardò mentre rimanevo immobile sul divano e qualcosa gli fece mettere giù la mia roba e venire lì da me. Prendendomi la mano, mi mise in piedi. Trattenne il mio corpo rigido in un abbraccio da orso, dondolandomi piano per qualche secondo. Oh oh. In un primo momento, provai a trattenermi, ma poi mi ripiegai su di lui e iniziai a singhiozzargli sulla spalla. Dal singhiozzare passai a tirare su col naso, poi iniziarono i gemini e dopo i vennero i respiri irregolari. Mi inclinò la testa all’indietro mettendo il pollice sotto al mio mento e mi guardò negli occhi, scrutandomi.
“Vai a farti una doccia calda. Mangiamo in posto tranquillo, ma esco — con te in macchina — tra venti minuti.” Mi diede una pacca sulla spalla. “Hop hop. Sai che se devo ti vengo a prendere nella doccia. Non costringermi a farlo.”
Con una spinta leggera, mi spedì in fondo al corridoio, al bagno, da dove lo sentii mentre ricominciava a mettere a posto. Le lacrime mi scorrevano sul naso e sulle guance. Cavoli, avrei dovuto bere litri e litri d’acqua a colazione; visto il ritmo del mio pianto e la quantità di vodka che avevo bevuto la sera prima, ero ad un passo da un violento mal di testa per disidratazione.
Quarantacinque minuti dopo, ci sedevamo all’IHOP di Mockingbird Lane. Da sempre uno dei nostri posti preferiti da bambini, oggi notai che aveva molte rifiniture arancioni nell’arredamento, e per questo iniziò a piacermi meno. Collin mi sorprese quando chiese un tavolo per tre, ma non avevo le energie per fare domande. Capii solo quando vidi i capelli da sfilata di Emily all’entrata. Camminò verso di noi nei suoi pantaloni plissettati blu notte e la sua camicetta in seta gialla, stretta alla vita da una cintura in pelle che si abbinava ai tacchi marroni.
“Ciao, Katie.” Mi guardò per un secondo, poi distolse lo sguardo.
Alzai la mano in segno di saluto. Ottimo. Un’altra persona a vedermi in questo stato. Avevo evitato di fermarmi davanti allo specchio a casa, ma la rapida occhiata che avevo dato mi era bastata. Una coda di cavallo bagnata. Dei vecchi pantaloni della tuta e una maglietta. Occhi gonfi e giallastri. Bleah.
Evitammo di parlare, guardando ognuno il proprio menù, fino a che la cameriera di mezza età, che avrebbe dovuto indossare un’uniforme di una taglia in più, non venne a prendere l’ordine. I muscoli dello stomaco mi si strinsero mentre se ne andava. Quasi la richiamai indietro per farle togliere il succo d’arancia dal mio ordine, ma non lo feci. Perché ritardare l’inevitabile. Collin ci aveva riunito per un motivo e, per quanto spiacevole, la cosa stava per venire fuori.
“Emily ed io abbiamo parlato, e mi ha raccontato cosa ti sta succedendo,” Collin.
Speravo che Emily avesse omesso alcuni dettagli, ma non potevo incolparla per avere la mia salute a cuore. O per aver spettegolato con Collin. Era un poliziotto, aveva seguito la scia di nostro padre, e c’era testimone che non riuscisse a far crollare, gli piaceva dire.
Collin continuò a parlare. “Siamo preoccupati per te. Sei nei casini. Ti stai facendo del male.”
Volse lo sguardo ad Emily in cerca di una conferma e lei abbassò lo sguardo verso il copritavolo in formica. Conoscendo Collin, l’aveva trascinata in questa piccola sessione di terapia e, conoscendo Em, era venuta a malincuore. Emily era spigliata, ma dare ordini non era il suo stile.
Non avevo le forze di contrariare Collin e, sinceramente, non ero neanche in disaccordo con lui. Ero un disastro in questo momento, senza dubbio. Mi aveva presa in uno di quei rari momenti in cui la parte di me senza peli sulla lingua non era lì a difendere la parte più fragile. Probabilmente era ancora stravaccata sul divano a riprendersi dalla sbornia.
“Hai ragione,” ammisi. Queste parole erano come polvere sulla mia lingua secca. “Devo rimettermi in sesto.”
“Penso tu debba andare in un centro di disintossicazione.” Le parole di Collin erano forti, anche perché non c’è un modo per addolcire l’espressione “centro di disintossicazione”.
Quindi era così che si era sentita Amy Winehouse. E adesso era morta. Questo mi diede da pensare. Però io non ero Amy Winehouse.
“Sto passando un brutto periodo, sì, e sto bevendo troppo, ma solo da alcune settimane. Non penso sia il caso di mandarmi in un centro.” Il solo pensiero di dover parlare dei miei problemi con tutti quegli alcolisti mi faceva sentire claustrofobica. Gli Alcolisti Anonimi forse aiutano la maggior parte delle persone, ma io non sono una ragazza da lavori di gruppo. E poi, non ero un’alcolista.
“Queste ultime tre settimane sono state particolarmente dure, ma sei su questa strada da molto più tempo.” disse Collin. “Tipo un anno. Riesci a ridurre o smettere? Scommetto che ci hai già provato, vero?” Evitavo il suo sguardo. “E scommetto che non ha funzionato.”
No, stronzo, non ci ho provato stavo per dire. Stavo per. Invece, dissi, “Non ci ho provato. So che posso, quando sarò pronta.”
Arrivò la mia omelette al formaggio, ma non avevo fame. Nessuno di noi toccò il proprio cibo.
“Ammetto che avrei dei problemi a farlo qui a Dallas, anche se ci provassi. Quando ci proverò. Ma so che, se riuscissi a mettere in pausa la mia vita per qualche settimana, potrei tenere tutto sotto controllo. Sono disposta a cominciare da qui. I centri non fanno per me. Forse se un giorno mi trovaste a dormire in un cassonetto allora sì, ma non adesso.”
“Va bene. Ti darò una possibilità, fanne tesoro. Hai in mente qualcosa?” chiese Collin.
Inspirai tutta l’aria che potevo, per poi sforzarmi a espirarla tutta, fino a quando il mio stomaco non crollò. “St. Marcos. Ho bisogno di superare ciò che è successo a mamma e papà.” Iniziai a piangere, poi mi trattenni. Aprii la bocca per parlare e le lacrime iniziarono a sfociare di nuovo.
“Ne sei sicura?” chiese Collin.
Annuii e usai la parte pulita del tovagliolo per asciugare le lacrime. Come alzai lo sguardo, una giovane donna nera attirò la mia attenzione, un po’ perché mi stava fissando, e un po’ perché era scalza all’IHOP e i suoi vestiti sembravano di centocinquanta stagioni fa. Ora, lei aveva un problema. Droga, a quanto sembrava. Un’ottima candidata per un centro di disintossicazione. Non io. Mi asciugai gli occhi di nuovo e quando li aprii, non c’era più. Niente di niente. Stavo impazzendo. Deglutii.
Avevo un disperato bisogno di andarmene. Questo viaggio, questa disintossicazione in solitaria o periodo sabbatico o qualunque cosa fosse, sarebbe stato una manna dal cielo.
E così concordammo che sarei partita. Immediatamente. Tipo, domani. Porca miseria. Un po’ prima di quanto avevo previsto, ma Collin insistette, e Emily promise di aiutarmi a renderlo possibile. Collin mi fece promettere con una stretta di mano, quando mi riaccompagnò all’appartamento, e Emily era proprio dietro di noi a testimoniare.
Emily ed io ci presentammo a lavoro alla Hailey & Hart a metà mattinata, dopo essermi messa un tailleur estivo color crema, più adatto all’ufficio. Non facemmo molto se non pianificare il mio viaggio e liberare la mia agenda. Chiesi a Gino i giorni di ferie, aspettandomi di dover litigare, ma non fu così. Mi diede una pacca sulla mano. Ugh.
“Un po’ di tempo libero ti farà molto bene,” disse. “Hai lavorato sodo quest’anno, in circostanze terribili, hai bisogno di ricaricarti e riportare qui la migliore versione di te stessa.”
Ottimo. Che nella lingua dei capi, significava Sei un disastro, vai via da qui. Beh, lo ero. Un disastro mortificato. Domani non era poi così presto per andarsene, dopotutto.
Sotto richiesta di Collin, Emily passò la notte da me a sorvegliarmi, lasciando il marito a casa da solo. Emily era un’amica molto migliore di quanto meritassi, ma, tanto tempo fa, avevo fatto lo stesso per lei quando Rich aveva temporaneamente annullato il loro fidanzamento. Il karma.
Più tardi quella notte, finalmente menzionai il nome che nessuno aveva pronunciato per tutto il giorno. “Se Nick dovesse chiedere dove sono, per favore dagli la versione censurata.”
Emily era seduta su uno sgabello ed io ero in piedi all’altro lato del piano cucina. Si sporse verso di me. “Non pensarci nemmeno. Da quando siamo andate a Shreveport, Nick si sta comportando come Heathcliff di Cime Tempestose. Forza. Lascia perdere.”
Stavo ricevendo un sacco di consigli velati oggi. Questo era: la verità è che non gli piaci abbastanza. Ahia, ma aveva ragione.
Ma sarei davvero riuscita a lasciare qui i miei sentimenti per lui ed andare a St. Marcos con la mente sgombra? Mi rigirai tutta la notte nel letto, in balia dei pensieri sui miei genitori e su Nick.
Cinque
Aeroporto Internazionale DFW, Dallas, Texas
17 agosto 2012
“Si pregano i gentili passeggeri di spegnere e riporre tutti i dispositivi elettronici,” disse la voce dell’assistente di volo dall’altoparlante dell’American Airlines. Merda. Stavo scrivendo un’e-mail ad Emily, promettendo di offrirle una costata di manzo da Del Frisco, se avesse tolto gli avanzi di sushi dal frigo di casa mia, e arrivai a premere invia per il rotto della cuffia.
Mi ero sistemata al mio posto in prima classe, in attesa di arrivare a St. Marcos, con le cose più essenziali a portata di mano: passaporto, il mio portatile rosso della Vaio e iPhone, nella sua cover zebrata della Otter Box. So che la maggior parte degli avvocati preferisce i dispositivi della Dell e Blackberry, ma mi piaceva pensare che non ero come gli altri. Certo, ultimamente ero diventata il peggiore degli stereotipi sugli avvocati: quello che beve troppo. Purtroppo per me.
L’e-mail che avevo mandato ieri agli amici esterni al lavoro spiegava la mia partenza improvvisa come una vacanza. Potevano immaginarmi a sorseggiare una Piña Colada sulla spiaggia, ballando tutta la notte sulle note di musica calypso con un attraente uomo caraibico, mentre mi davo alla pazza gioia. Emily si sarebbe occupata di dare la notizia al lavoro questa mattina.
A proposito di uomini caraibici, l’uomo al mio fianco in prima classe stava cercando di leggere quello che scrivevo al telefono. Mi girai dall’altro lato. Dove sono le tue maniere da passeggero di prima classe?