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Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7
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Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7

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Egli ancora, come si disse, fra gli altri Ordini di Cavalleria istituì nel Regno un nuovo Ordine, chiamato dell'Armellino di cui soleva molti ornare. L'istituì per le gare ch'ebbe col Principe di Rossano, il quale, come s'è detto essendosi dato alla parte del Duca Giovanni d'Angiò, non potendo colla forza vincere il nemico, rivoltossi agl'inganni, ed a' tradimenti, perchè nell'istesso tempo che, per via di nuove parentele col Re, erasi con lui pacificato e mostrava aver lasciato il partito di Giovanni, ordinò contro al Re nuovi trattati col Duca: di che accortosi Ferdinando lo fece pigliare, e mandato prigione a Capua, lo fece poi condurre a Napoli. Molti consigliavano il Re, che lo facesse morire; ma non vi consentì Ferdinando, dicendo, che non era giusto tingersi le mani nel sangue di un suo cognato, ancorchè traditore. Volendo poscia dichiarar questo suo generoso pensiero di clemenza, figurò un armellino, il qual pregia tanto il candor della sua politezza, che più tosto da' cacciatori si fa prendere, che imbrattarsi di fango, che coloro sogliono spargere intorno alla sua tana per pigliarlo. Si portava per ciò dal Re una collana ornata di gemme e d'oro coll'Armellino pendente, cui motto: Malo mori, quam foedari. Per opporsi al Duca Giovanni ed alla sua Compagnia de' Cavalieri detta de' Crescenti, istituì perciò egli quest'altra detta dell'Armellino, ornando di questa collana molti, facendogli Cavalieri; ed il Pigna20 rapporta che fra gli altri, fece di questa Compagnia Ercole da Este Duca di Ferrara suo genero, al quale per Giovan Antonio Caraffa Cavalier napoletano mandò una di queste collane.

Oltre d'aver Ferdinando in tante maniere illustrato il Regno, come Principe provido ed amante dell'abbondanza e delle ricchezze de' suoi sudditi, egli facilitò i traffichi a' mercatanti, ed agevolò il commercio in tutte le parti non meno d'Occidente che d'Oriente; ma sopra tutto (di che Napoli deve confessar molto obbligo a questo Principe, e porre per una delle cagioni della sua grandezza, ed accrescimento de' suoi cittadini e delle ricchezze) fu l'avervi introdotte ed accresciute molte arti, e particolarmente l'arte di lavorar seta e tessere drappi e broccati d'oro.

Erasi quest'arte cominciata già ad introdursi in molte città d'Italia, ond'egli dopo la morte della Regina Isabella sua moglie nel 1456 pensò introdurla anche in Napoli, e fattosi da diversi luoghi chiamare più periti di quella, finalmente scelse Marino di Cataponte veneziano di quest'arte sperimentato maestro, il quale ricevuti dal Re in prestanza mille scudi per servirsene per lavorare, fece qui tessere drappi di seta e d'oro: e per maggiormente accrescerla fece franco ed immune d'ogni dogana e gabella tutto ciò che serviva per questo lavoro, concedendo che la seta, oro filato e la grana, ed ogni altra cosa bisognevole per servizio di quest'arte tanto per tingere quanto per tessere e far broccati e tele d'oro fosse esente da ogni pagamento21. Di vantaggio stabilì, che i lavoratori di quelli dovessero esser trattati e reputati in tutto come Napoletani: che nelle loro cause tanto civili, quanto criminali non possano essere riconosciuti da niuno Tribunale o Ufficiale, eccetto che da' loro Consoli: che tutti quelli di qualunque nazione si fossero, che in Napoli venissero ad esercitar quest'arte siano guidati ed assicurati e franchi e liberi da ogni commesso delitto, nè da altri potessero essere riconosciuti se non da' loro Consoli: che tutti coloro, che vorranno fare esercitare, o eserciteranno quest'arte, siano mercatanti, maestri, scolari o ajutanti, si debbano far scrivere nella matricola, o sia libro della lor arte, nel quale scritti che saranno, debbano godere di tutti i privilegi e capitoli conceduti o che si concederanno dal Re e suoi successori nel Regno: che in ogni anno nel dì di S. Giorgio, assembrati, dovessero eleggere tre Consoli per lo reggimento e governo di quella, i quali ogni Sabato dovessero tener ragione con amministrar loro giustizia. Molti altri privilegi furono da Ferdinando conceduti a quest'arte ed a Marino Cataponte. Altri ancora ne concedè a Francesco di Nerone fiorentino, al quale promise pagargli ducati trecento l'anno di provisione, acciò assistesse e la esercitasse in Napoli. Altri a Pietro de Conversi genovese, ed altri a Girolamo di Goriante pur fiorentino22. Li successori Re parimente nobilitarono quest'arte con nuove altre prerogative, tanto che si eresse perciò in Napoli un nuovo Tribunale, che si chiama della nobil arte della seta. Lo compongono i Consoli, il Giudice, ovvero loro Assessore e l'Avvocato fiscale di Vicaria vi puol anche intervenire23. Da' suoi decreti non dassi appellazione, se non al S. C. dove il Giudice fa le relazioni stando in piedi e con capo scoverto, nè se gli dà titolo di Magnifico, come rapporta il Tassoni nel suo universale magazzino.

Non è da tralasciare ciò che ponderò il Summonte24 nella sua istoria di Napoli scritta, come ogni un sa, sono più che cento anni, che per quest'arte fu cotanto accresciuta Napoli e nobilitato il Regno, che concorrendo da tutte le parti molti a professarla, ed i naturali dandosi a quella, si vide la città accresciuta d'abitatori, e vivere la metà degli abitanti col guadagno d'essa, venendovi non pure dalle città e Terre convicine del Regno, ma anche intere famiglie da diverse parti d'Europa, tanto che a' suoi tempi, e' dice, che avea preso tanta forza, che per ciò la città si vide ampliata ed ingrandita forse un terzo più, che non era.

Così scrive quest'Autore quando i lussi e le pompe non erano arrivate a quella grandezza ed estremità, che abbiam veduto a' tempi nostri dopo un secolo e più ch'e' scrisse. Ora le cose sono ridotte al sommo e non vi è picciola donnicciuola, o vil contadino o artigiano, che non vestano di seta, quando ai tempi di questi Re d'Aragona, come ce n'è buon testimonio il Consigliere Matteo d'Afflitto, gli abiti serici non erano, che di Signore e Gentildonne25.

Non pure quest'arte introdusse Ferdinando fra noi, ma pochi anni appresso, nel 1480, v'introdusse l'arte della lana e quasi gl'istessi privilegi concedè a' suoi Consoli. Volle che i professori si scrivessero nella matricola e che non fossero riconosciuti se non da' Consoli26. Surse per ciò un altro Tribunale, detto dell'arte della lana, che si compone di Consoli e loro Giudice ovvero Assessore; ed ove, sempre che voglia, può intervenire l'Avvocato fiscale di Vicaria. Parimente da' suoi decreti non s'appella, che nel S. C. ove si fanno le relazioni, e tiene molta conformità col Tribunale della nobil arte della seta.

Parimente negli anni 1458 e 1474 innalzò Ferdinando l'arte degli Orafi, istituendo il lor Consolato, a cui diede la facoltà d'aver cura de' difetti, che si commettessero nell'arte27 e prescrisse il modo e la norma per evitar le frodi; ed ugual vigilanza praticò in tutte le altre arti, perchè maggiormente fiorissero, e le fraudi si togliessero.

CAPITOLO IV

Come si fosse introdotta in Napoli l'arte della stampa e suo incremento. Come da ciò ne nascesse la proibizione de' libri, ovvero la licenza per istampargli; e quali abusi si fossero introdotti, così intorno alla proibizione, come intorno alla revisione de' medesimi

Ma quello di che Napoli e 'l Regno, e tutti gli uomini di lettere devono più lodarsi di questo Principe, fu d'essere stato egli il primo che introdusse in Napoli l'arte della stampa. Ferdinando fu un Principe non pur amante delle lettere, ma fu egli ancora letteratissimo; onde è, che nel suo Regno fiorissero tanti letterati in ogni professione, come diremo. Erasi l'arte dello stampare trovata nel principio di questo secolo verso l'anno 1428. Ma se deve prestarsi fede a Polidoro Virgilio, fu inventata nel 1451 da Giovanni Gutimbergo Germano, il quale in Erlem città d'Olanda cominciò ad introdurla. Si divolgò poi nelle città di Germania e nella vicina Francia. Due fratelli alemani, secondo scrive il Volaterrano, la portarono in Italia nell'anno 1458; uno andò in Venezia, l'altro in Roma, ed i primi libri che si stamparono in Roma, furono quelli di S. Agostino De Civitate Dei, e le Divine Istituzioni di Lattanzio Firmiano. Non guari da poi fu fatta introdurre in Napoli dal Re Ferdinando. Il Passaro narra, che nell'anno 1473 Arnaldo di Brassel Fiammengo la portasse, il quale accolto dal Re con molti segni di stima, gli concedè molte prerogative e franchigie. Altri rapportano che nell'anno 1471 fra noi l'introducesse un Sacerdote d'Argentina chiamato Sisto Rusingeno28. Che che ne sia, Ferdinando accolse i professori, e fece porre in opra la loro arte, onde s'incominciarono in Napoli a stampar libri. Fra i primi libri che qui s'imprimessero, furono i Commentarj sopra il secondo libro del Codice del famoso Antonio d'Alessandro; ed i libri di Angelo Catone di Supino, Lettor pubblico di Filosofia in Napoli, e Medico del Re Ferrante, il quale avendo emendato ed accresciuto il libro delle Pandette della medicina di Matteo Silvatico di Salerno dedicato al Re Roberto, lo fece stampare in Napoli nel 1474 da questo tedesco, che poco prima avea quivi da Germania portata la stampa29. Indi di mano in mano se ne stamparono degli altri, come l'opere d'Anello Arcamone sopra le Costituzioni del Regno e di tanti altri.

(Di queste prime stampe fatte in Napoli non se ne dimenticò l'Autore degli Annali Tipografici, rapportandole alla pag. 454).

Venne poi Carlo VIII in Italia ed avendo conquistato il Regno di Napoli, dimorando qui per sei mesi, quanto appunto lo tenne, alcuni Maestri francesi esperti in quest'arte subito vi si condussero e la ripulirono assai, riducendola in miglior forma, e rimase non così rozza com'era prima. Così tratto tratto, come suole avvenire di tutte le altre arti, si ridusse fra noi in forma più nobile, siccome si vede dall'impressione di alcuni libri fatti a questi tempi e fra gli altri dell'Arcadia del Sannazaro, che Pietro Summonte suo amico, mentre l'Autore seguendo la fortuna del Re Federico suo Signore dimorava in Francia, essendosi in Venezia due volte stampata piena d'errori e scorrettissima, la fece ristampare in Napoli in carta finissima e di buoni caratteri; e pure il Summonte si scusava col Cardinal d'Aragona a cui la dedicò, se la stampa non era di quella bellezza, la qual altra volta vi solea essere, e secondo per l'altre più quiete città d'Italia si costumava allora; poichè trovandosi Napoli per le rivoluzioni di guerra difformata, appena avea potuto avere comodità di quel carattere.

Ma venuto da poi in Napoli l'Imperador Carlo V ai conforti ed istanze del famoso Agostino Nifo da Sessa celebre Filosofo e Medico dell'Imperadore e suo famigliare, fu questa arte favorita molto più, e posta in maggior polizia e nettezza; poichè questo Imperadore nel 1536 concedè alla medesima, ed a' suoi professori grandi privilegi e franchigie, facendogli esenti da qualunque gabella, dogana o altro pagamento, tanto per la carta bianca che serve per la stampa de' libri e figure, quanto per tutte quelle cose che bisognano a perfezionarla; del qual privilegio, oltre il Summonte30, ne rendono testimonianza fra' nostri Scrittori, Toro31 ed il Consigliere Altimari32. Tanto che per li favori di questo Principe s'accrebbero in Napoli le stamperie: ed i letterati, vedendosi cotanto favoriti, s'ingegnarono mandare i parti de' loro ingegni in istampa; ed imprimendosi i libri degli Antichi, che prima scritti a penna, ed in membrane erano rari e non per tutti, recò ad essi grandissimo giovamento, non solo per aver libri con facilità, ma anche ben corretti. Quindi si videro fiorire per l'Accademie e crescer il numero de' letterati non solo in Napoli, ma nelle altre città del Regno, ove furon ancora introdotte le stamperie, come nell'Aquila, in Lecce, in Cosenza, in Bari, in Benevento ed in alcune altre. E l'edizioni riuscivan perfettissime in carte finissime e d'ottimi caratteri, come si può vedere da alcuni libri stampati in quei tempi, e fra gli altri dalle poesie di Bernardino Rota, dall'opere legali di Cesare Costa Arcivescovo di Capua e di tante altre, delle cui prime edizioni se ne veggono moltissime nella libreria di S. Domenico Maggiore di questa città.

Siccome la invenzione di quest'arte fu riputata a questi tempi la più utile e necessaria per lo commercio delle lettere, così ancora ne' susseguenti tempi venne ad apportarci danno; poichè gli uomini dati alla lezione di tanti libri che uscivano, caricavano sì bene la lor memoria d'infinite erudizioni, ma la riflessione mancava; onde non si videro, se non rari uomini di ingegno grande, e che facendo buon uso de' loro talenti, avessero potuto per se medesimi stendere le cognizioni e le scienze. Ancora presso di noi, nel precedente secolo, cominciò a recarci degli altri incomodi e delle confusioni: poichè tutti pretendendo esser dotti e savj, vedendo la facilità della stampa e la poca spesa che vi bisognava, venne uno stimolo universale agli uomini di lettere di stampar ciò che loro usciva di capo di penna in qualunque professione: onde nel secolo 17 si videro in istampa infiniti volumi impressi per la maggior parte da' Frati e da' Legisti, per lo più insipidi e pieni di cose vane ed inutili. Gli Stampatori davano loro fomento, e fecero, per non isgomentargli della spesa, fabbricar una carta d'inferior qualità, della quale regolarmente si servivano nella impressione de' loro libri, che poi chiamarono carta di stampa. Ma perciò non si tralasciarono da' più culti le edizioni in carte finissime e di ottimi caratteri. Tanto ha bastato all'avidità ed ingordigia de' pubblicani de' nostri tempi, che con tutto che l'Imperador Carlo V avesse conceduto privilegio di franchigia agli Stampatori per la carta bianca che dovea lor servire per uso di stampa, di pretendere che questa franchigia di dogana e d'ogni altra gabella dovesse ristringersi per la carta di stampa, non già ad altre carte di miglior qualità: quasichè in queste non si potesse stampare, ovvero prima d'introdursi questa diversità di carte, non si fosse stampato in carta finissima, ed in tutti i tempi dai più culti letterati non si fosse quella adoperata.

§. I. Abusi intorno alle licenze di stampare e di proibire i libri

Il buon uso della stampa, che produsse al Mondo tanti comodi ed utilità, per la pravità degli Autori, e per la facilità e prontezza che molti aveano di pubblicare ciò che loro usciva dalla penna, si converti da poi in un altro mal uso. L'eresia di Lutero che sparsa per la Germania minacciava le altre parti di Europa, per questa via della stampa si disseminava per varj libri: onde bisognò che i Principi vi ponessero occhio, e regolassero colle loro leggi l'uso di quella. I Pontefici romani vi badarono assai più e con maggiore oculatezza, come quelli che colla libertà della stampa potevano ricevere maggior danno che i Principi secolari: per ciò, e dagli uni e dagli altri, furon in diversi tempi, dopo essersi quest'arte introdotta, fatte molte proibizioni e divieti.

Ma i Pontefici romani tentarono anche da poi sopra ciò far delle sorprese; poichè pretesero che di lor sulamente fosse il proibire le stampe, anche con pene temporali, e conceder le licenze per le impressioni. Il Cardinal Baronio nel XII tomo de' suoi Annali, scrivendo per la propria causa, quando da Filippo III gli fu proibito il suo tomo XI nel quale, quando men dovea, volle combatter la Monarchia di Sicilia, fu il primo a dirlo arditamente33. Ma essendosegli dato da quel Principe conveniente gastigo, niuno ardì difendere l'impresa del Cardinale; poichè, siccome fu da noi rapportato nel secondo libro di quest'istoria, l'antica disciplina della Chiesa era, che trattandosi di Religione, la censura apparteneva a' Vescovi, ma la proibizione al Principe. Gl'Imperadori, dopo la censura de' Vescovi o del Concilio, proibivano con pene temporali i libri degli Eretici e gli condennavano al fuoco: di che nel Codice Teodosiano abbiamo molti esempj. l Padri del Concilio Niceno I dannarono i Codici d'Ario; e poi Costantino M. fece editto proibendogli, e condennandogli ad essere bruciati; e lo stesso fu fatto de' libri di Porfirio34. I Padri del Concilio Efesino dannarono gli scritti di Nestorio, e l'Imperadore promulgò legge proibendone la lezione e la difesa35. Il Concilio di Calcedonia condennò gli scritti d'Eutiche: e gl'Imperadori Valentiniano e Marciano feron legge, dannandogli ad esser bruciati36. Il medesimo fu praticato da Carlo M.37, e così dagli altri Principi ancora ne' loro dominj. E per non andar tanto lontano, Carlo V nel 1550 promulgò in Brusselles un terribile editto contro i Luterani, nel quale, fra le altre cose, proibì rigorosamente i libri di Lutero, di Giovanni Ecolampadio, di Zuinglio, di Bucero e di Giovanni Calvino, li quali da 30 anni erano stati impressi, e tutti quelli di tal genere che da' Teologi di Lovanio erano stati notati in un loro Indice a questo fine fatto38; poichè a' Principi appartiene che lo Stato non solamente da' libri satirici, sediziosi e scostumati o pieni di falsa dottrina non venga perturbato, ma anche da perniziose eresie. E siccome a' Vescovi s'appartiene la censura, perchè la disciplina o la dottrina della Chiesa non sia corrotta; così a' Principi importa che lo Stato non si corrompa, e che li suoi sudditi non s'imbevino d'opinioni, che ripugnino al buon governo: nel che ora più che mai è bisogno, che veglino per le tante nuove dottrine introdotte contrarie all'antiche ed a' loro interessi e supreme regalie; poichè da quelle ne nascono le opinioni, le quali cagionano le parzialità che terminano poi in fazioni, e finalmente in asprissime guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza han sovente tirati seco eserciti armati.

Nel nostro Regno i nostri Re ributtaron sempre con vigore questi attentati, e si lasciò a' Vescovi la sola censura, ma non che sotto pene temporali potessero vietar le stampe: nè che queste proibizioni s'appartenessero ad essi unicamente, ma furon anche dai nostri Re fatte o da' loro Vicerè, ed in cotal guisa fu mai sempre praticato.

Papa Lione X a' 4 maggio del 1515 pubblicò una Bolla, che fece approvare dal Concilio Lateranense, colla quale proibì che non si potessero stampare libri senza licenza degli Ordinarj ed Inquisitori delle Città e Diocesi, dove dovranno stamparsi: ponendovi pena che quelli che gli stampassero senza questa approvazione, perdessero i libri, li quali dovessero pubblicamente bruciarsi. Di vantaggio impose pena pecuniaria, di doversi pagare da trasgressori ducati cento alla fabbrica di S. Pietro di Roma, e che gli Stampatori per un anno restassero sospesi dall'esercizio di stampare: gli dichiara ancora scomunicati, e persistendo nella censura, che siano gastigati conforme i rimedj della legge.

Ma questa Bolla, per quello che s'attiene alla pena pecuniaria e sospension dell'esercizio e perdita dei libri, non fu fatta valere nel nostro Regno, e sol ebbe vigore nello Stato della Chiesa.

Il Concilio di Trento nella sessione 439, che fu celebrata a' 8 Aprile del 1546, ancorchè avesse proibito agli Stampatori di stampare senza licenza de' Superiori ecclesiastici libri della Sagra Scrittura, annotazioni e sposizioni sopra di quella: e che non si stampassero libri di cose sagre senza nome dell'Autore, nè quelli si vendessero o tenessero, se prima non saranno esaminati ed approvati dagli Ordinarj, sotto quelle pene pecuniarie e di scomunica apposte nell'ultimo Concilio Lateranense; nulladimanco questo capo, per ciò che riguarda la pena pecuniaria, non fu ricevuto nel Regno, ed agli Ordinarj si è lasciato di poter solo imporre spiritual pena, non già pecuniaria o temporale.

Si mantennero ancora i nostri Re, ovvero i loro Vicarj nel possesso di proibirli, stabilendo molte prammatiche e editti, colle quali proibirono le stampe senza lor licenza; ed abbiamo che D. Pietro di Toledo Vicerè, mentre regnava l'Imperador Carlo V, diede ancor egli provvedimenti intorno alla stampa de' libri, ed a' 15 ottobre del 1544 promulgò una prammatica, colla quale ordinò che i libri di teologia e sagra scrittura, che si trovassero stampati nuovamente da 25 anni in quà, poichè per la pestilente eresia di Lutero sparsa per la Germania, cominciava a corrompersi la dottrina e disciplina della Chiesa romana, non si ristampassero, e quelli stampati non si potessero tenere nè vendere, se prima non si mostrassero al Cappellan maggiore, acciò quelli visti e riconosciuti potesse ordinare quali si potessero mandar alla luce. Di vantaggio, che quelli libri di teologia e sagra Scrittura, che fossero stampati senza nome dell'autore, e quegli altri ancora, i di cui Autori non sono stati approvati, che in nessun modo si potessero vendere nè tenere. E poi nel 1550 a' 30 novembre stabilì un'altra prammatica, colla quale generalmente ordinò, che non si potesse stampare qualsivoglia libro senza licenza del Vicerè, nè stampato vendersi.

Il Duca d'Ossuna Vicerè, nel medesimo tempo che il Pontefice Sisto V stabilì in Roma la Congregazione dell'indice, a' 20 marzo del 1586, regnando Filippo II, promulgò altra prammatica colla quale ordinò, che gli autori del Regno o abitanti in esso, non facessero stampar libri nè in Regno, nè fuori senza licenza del Vicerè in scriptis. E finalmente il Conte d'Olivares, che fu Vicerè nel Regno di Filippo III, a' 31 agosto del 1598 fece anche prammatica, proibendo agli Stampatori di poter aprire stamperie nè casa per istampare, senza espressa licenza del Vicerè in scriptis.

Quindi nacque presso noi il costume di destinarsi dal Vicerè, Ministro o altra persona per la revisione de' libri: e ciò vedesi praticato sin da' tempi del Duca d'Alcalà Vicerè, il quale a' 23 novembre del 1561 spedì commessione, che fu poi rinovata a' 8 maggio 1562, al P. Valerio Malvasino persona da lui ben conosciuta d'integrità e dottrina, deputandolo Regio Commessario a vedere e riconoscere i libri, che venivano da Germania, dalla Francia e da altre parti nel Regno di Napoli, perchè trovatili infetti d'eresia proibisse di venderli o di tenerli40. Fu da poi destinato Ministro regio di sperimentato zelo verso il servizio del Re, e d'eminente dottrina: questo costume l'abbiam veduto continuato sin a' tempi de' nostri avoli; ma ora queste revisioni soglionsi commettere anche ai privati, e sovente a persone di poca buona fede e di molto minor dottrina: ciò ch'è un abuso, che meriterebbe un conveniente rimedio.

Si è ritenuto ancora presso noi il costume di proibirli, quando o contra i buoni costumi, o contra i diritti del Principe della nazione, ovvero contra la fama e riputazione d'alcuni, siansi composti; siccome a dì nostri dal Vicerè e suo collateral Consiglio fu proibito un libro, per altro sciocchissimo e pieno di inezie, che il Marchese Gagliati diede alle stampe sotto il titolo di capricciose fantasie.

Queste proibizioni erano praticate, siccome tuttavia si pratica sopra qualunque libro o scrittura anche dei Prelati o altre persone ecclesiastiche, che venisse preteso di stamparsi. Nel Regno di Filippo II il Nunzio del Papa residente in Ispagna portò querela al Re Filippo contro il Duca d'Alcalà suo Vicerè in Napoli, il quale avea proibito agli Stampatori d'imprimer cosa alcuna senza sua licenza, e che perciò l'Arcivescovo di Napoli e tutti gli altri Prelati del Regno non potevano far stampare cosa alcuna, anche concernente al loro uficio: di che il Re Filippo ne scrisse al Duca, il quale a' 17 aprile 1569 l'informò di ciò che occorreva con piena consulta, dicendogli che egli avea fatto quell'ordine, perchè il Vicario di Napoli, siccome tutti gli altri Prelati del Regno, stampavano molti editti pregiudiciali alla regal giurisdizione, e sovente facevano imprimere Bolle, alle quali non era stato conceduto l'Exequatur Regium41. Quindi postosi silenzio alle pretensioni del Nunzio, nacque che poi i Vescovi quando volevano stampare i loro Sinodi, i loro editti, insino i calendarj circa l'osservanza delle loro diocesi, anche i Brevi dell'indulgenze concedute dal Papa alle loro chiese e cose simili, ricorrevano al Vicerè e suo collateral Consiglio per la licenza. Così leggiamo, che volendo l'Arcivescovo di Napoli Annibale di Capua stampar un Concilio provinciale, cercò licenza di farlo, e dal Collaterale, a primo febbrajo del 1580, gli fu data con riserba, che se in quello vi era alcuna cosa contro la regal giurisdizione, si avesse per non data nè consentito a quella in modo alcuno. L'Arcivescovo di Capua per mezzo del suo Vicario chiese il permesso di poter far stampare un nuovo Calendario circa l'osservanza delle feste della sua Diocesi, e rimessane la revisione al Cappellan maggiore, questi a' 5 novembre del 1582 fece relazione al Vicerè, che poteva darsi la licenza. Il Vescovo d'Avellino dimandò l'Exequatur Regium e la licenza di poter far stampare un Breve d'indulgenze concedute dal Papa alla sua Chiesa nel dì di S. Modestino, e commessosi l'affare al Cappellan maggiore, questi a' 26 aprile del 1577 fece relazione al Vicerè che potevasi dare l'Exequatur al Breve e la licenza di stamparlo42. Ciò che poi si è inviolabilmente osservato, sempre che i Ministri del Re han voluto adempire alla loro obbligazione ed aver zelo del servigio del loro Signore.

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