
Полная версия
Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3
Nel decimo anno del Regno di Nerone la Capitale dell'Impero fu afflitta da un fuoco, che infierì oltre la memoria o l'esempio de' secoli precedenti28. Restarono involti in una comune distruzione i monumenti dell'arte Greca e del Romano valore, i trofei delle guerre Punica e Gallica, i tempj più santi, ed i palazzi più splendidi. De' quattordici rioni, o quartieri, ne' quali era divisa Roma, quattro solamente rimasero interi, tre furono livellati al suolo, e gli altri sette, che sperimentato avevano il furor delle fiamme, presentavano un tristo prospetto di desolazione e rovina. Pare che la vigilanza del Governo non trascurasse alcuna precauzione, che alleggerir potesse il sentimento di sì terribile calamità. Furono aperti alla sconsolata moltitudine i giardini Imperiali, si costruirono per loro comodo temporanei edifizj, e venne distribuita un'abbondante copia di grano e di provvisioni ad un prezzo assai moderato29. Sembra che la più generosa politica dettasse gli editti, che regolarono la disposizione delle strade, e la costruzione delle case private, e come suole per ordinario accadere in un tempo di prosperità, l'incendio di Roma produsse nel corso di pochi anni una città novella, più regolare e più vaga dell'antica. Ma tutta la prudenza ed umanità di Nerone furono insufficienti a liberarlo dal sospetto del popolo. Qualunque delitto imputar potevasi all'assassino della propria moglie e della madre, nè poteva un Principe, che prostituiva la sua persona e dignità sul teatro, esser creduto incapace della più stravagante follia. La voce della fama accusava l'Imperatore come un incendiario della sua Capitale, e siccome le più incredibili narrazioni sono le più confacenti al genio di un popolo infuriato, così raccontavasi gravemente, e senz'alcun dubbio credevasi, che Nerone, godendo all'aspetto della calamità di cui era stato cagione, si dilettasse in cantare sulla sua lira la distruzione dell'antica Troia30. Per allontanare un sospetto, che il potere del dispotismo non era capace di sopprimere, l'Imperatore pensò di sostituire in suo luogo alcuni finti rei. «Con questo scopo (continua Tacito) sottopose a più atroci tormenti quegli uomini, che sotto la volgar denominazione di Cristiani erano già notati con la meritata infamia. Essi prendevano il nome e l'origine da Cristo, che nel regno di Tiberio avea sofferto la morte per sentenza del Procuratore Ponzio Pilato31. Questa empia superstizione fu per un tempo repressa; ma ella si sparse di nuovo, e non solamente si diffuse per la Giudea, prima sede di questa malvagia setta, ma fu introdotta anche in Roma, comune asilo, che riceve e protegge tutto ciò ch'è impuro ed atroce. Le confessioni di quelli, che furon presi, scuoprirono una gran moltitudine di complici, e furono tutti convinti, non tanto del delitto di aver posto fuoco alla città, quanto dell'odio, che portavano al genere umano32. Morivano fra tormenti, e questi erano amareggiati dall'insulto e dalla derisione. Alcuni di essi furono inchiodati sopra croci, altri cuciti dentro pelli di bestie feroci, ed esposti alla rabbia de' cani, altri, coperti di materie combustibili, servivano come di torce per illuminare l'oscurità della notte. Furon destinati i giardini di Nerone pel tristo spettacolo che venne accompagnato da una corsa di cavalli, ed onorato dalla presenza dell'Imperatore, che si mescolava col volgo, in abito ed in attitudine di cocchiere. La colpa de' Cristiani meritava in vero il più esemplare gastigo, ma il pubblico abborrimento si cangiò in compassione, supponendosi che quelle infelici vittime venisser sacrificate non tanto al rigore della giustizia, quanto alla credulità di un geloso tiranno33.» Quelli che con occhio curioso rimirano le rivoluzioni dell'uman genere, posson osservare, che i giardini ed il circo di Nerone nel Vaticano, che macchiati furon dal sangue de' primi Cristiani, si son resi più famosi pel trionfo e per l'abuso della religione perseguitata. Nel medesimo luogo34 si è, dopo, eretto un tempio, che di gran lunga sorpassa le antiche glorie del Campidoglio, da' Pontefici Cristiani, i quali traendo il loro diritto di universal dominio da un umile pescatore di Galilea, sono succeduti al trono de' Cesari, han date leggi ai Barbari conquistatori di Roma, ed hanno estesa la spirituale loro giurisdizione dalle coste del Baltico fino a' lidi del mar Pacifico.
Ma non sarebbe a proposito di lasciar questo racconto della persecuzion di Nerone, senza fare alcune riflessioni, che possono servire a rimuovere le difficoltà, onde si rende dubbiosa la susseguente storia della Chiesa, ed a rischiararla di qualche lume.
I. Non può la critica più scettica non rispettar la verità di tal fatto straordinario, e la genuina tempera di questo celebre passo di Tacito. La prima vien confermata dall'esatto e diligente Svetonio, che rammenta il gastigo da Nerone dato a' Cristiani: setta di uomini che abbracciato avevano una nuova e colpevol superstizione35. L'altra si può provare col consenso de' più antichi manoscritti; coll'inimitabil carattere dello stile di Tacito, con la sua riputazione, che ne ha reso immune il testo dalle interpolazioni della pia frode, e col tenore della sua narrazione, che accusa i Cristiani de' più atroci delitti, senza insinuare, ch'essi godessero alcun miracoloso o magico potere sopra il resto del genere umano36. II. Quantunque sia probabile, che Tacito nascesse qualche anno avanti l'incendio di Roma37, potè ciò nonostante rilevare dalla lettura e dalla conversazione la notizia di un fatto, che seguì nel tempo della sua infanzia. Avanti di esporsi al Pubblico, tranquillamente egli aspettò, che il proprio ingegno fosse giunto alla sua piena maturità, ed aveva più di quarant'anni, allorchè un grato riguardo alla memoria del virtuoso Agricola trasse da lui la prima di quelle istoriche composizioni, che diletteranno ed istruiranno la più remota posterità. Dopo di aver fatto una prova della propria forza nella vita d'Agricola, e nella descrizione della Germania, concepì, e finalmente pose in esecuzione un'opera più difficile, vale a dire l'istoria di Roma in trenta libri, dalla caduta di Nerone sino all'avvenimento al trono di Nerva. L'amministrazione di quest'ultimo introdusse un tempo di prosperità e di giustizia, che Tacito avea destinato per occupazione della sua vecchiezza38; ma quando più da vicino esaminò quel soggetto, stimando per avventura, che fosse un uffizio più onorevole, o meno invidioso quello di rammentare i vizi de' passati tiranni, che di celebrar le virtù di un Sovrano regnante, si determinò piuttosto a narrare in forma d'annali le azioni de' quattro immediati successori di Augusto. L'impresa di raccogliere, disporre, e adornare una serie di ottant'anni in un'opera immortale, di cui ogni sentenza contiene le più profonde osservazioni, e le immagini più vive, fu bastante ad esercitare il genio di Tacito stesso per la maggior parte della sua vita. Negli ultimi anni del Regno di Traiano, mentre il vittorioso Monarca estendeva la potenza di Roma oltre gli antichi di lei confini, l'Istorico nel secondo e nel quarto libro de' suoi annali descriveva la tirannia di Tiberio39, e dovè succedere al trono l'Imperatore Adriano avanti che Tacito, nel regolar proseguimento della sua opera, potesse riferir l'incendio della Capitale e la crudeltà di Nerone verso gl'infelici Cristiani. Alla distanza di sessant'anni era dovere dell'Annalista d'adottare le narrazioni de' contemporanei, ma era naturale pel Filosofo di spaziare nella descrizione dell'origine, del progresso e carattere della nuova setta non tanto secondo le cognizioni, o i pregiudizi dell'età di Nerone, quanto secondo quelli del tempo di Adriano. III. Tacito assai frequentemente confida, che la curiosità o la riflessione de' suoi lettori sia per supplire a quelle intermedie circostanze ed idee, che nell'estrema sua precisione ha creduto proprio di sopprimere. Noi possiamo dunque avventurarci ad immaginare qualche probabil motivo, che diriger potesse la crudeltà di Nerone contro i Cristiani di Roma, de' quali non meno l'oscurità che l'innocenza avrebbe dovuto porli al coperto dallo sdegno ed anche dalla cognizione di esso. Gli Ebrei, che si trovavano in gran numero nella Capitale, ed eran oppressi nel proprio paese, formavano un oggetto molto più confacente a' sospetti dell'Imperatore, e del Popolo; nè potea parere improbabile, che una vinta nazione, la quale già manifestava il proprio abborrimento pel giogo Romano, potesse ricorrere a' mezzi più atroci, per soddisfare il suo implacabile desiderio di vendicarsi. Ma gli Ebrei avevano molto potenti avvocati nel Palazzo, ed anche nel cuor del Tiranno, cioè la bella Poppea, di lui moglie e signora, ed un favorito commediante della razza d'Abramo, che avevano già impiegate le loro intercessioni a favore del colpevole Popolo40. Bisognava in loro vece offerire qualche altra vittima, e si potè suggerir facilmente, che sebbene i veri seguaci di Mosè fossero innocenti dell'incendio di Roma, fra loro era insorta una nuova perniciosa setta di Galilei, ch'era capace de' misfatti i più orribili. Sotto il nome di Galilei si confondevano due distinte specie di uomini le più opposte fra loro ne' costumi e ne' principj, vale a dire i Discepoli, che avevano abbracciata la fede di Gesù di Nazaret41, e gli Zeloti, che aveano seguito la bandiera di Giuda Gaulonita42. I primi erano amici, i secondi nemici del genere umano; e l'unica somiglianza, che fosse tra loro, consisteva nell'istessa inflessibil costanza, che per difesa della lor causa li rendeva insensibili a' tormenti ed alla morte. I seguaci di Giuda, che inducevano i lor nazionali alla ribellione, restaron presto sepolti sotto le rovine di Gerusalemme; laddove quelli di Gesù, conosciuti sotto il più celebre nome di Cristiani, si diffusero per tutto l'Impero Romano. Quanto egli era naturale per Tacito, nel tempo d'Adriano, l'attribuire a' Cristiani la colpa ed i tormenti, che poteva con molto maggior verità e giustizia imputare ad una setta, della quale quasi era estinta l'odiosa memoria! IV. Qualunque sia l'opinione, che vogliamo avere di tal congettura (giacchè non è questa più che una congettura) egli è chiaro, che gli effetti non meno che la causa della persecuzione di Nerone furono ristretti alle mura di Roma43; che le religiose opinioni de' Galilei, o de' Cristiani, non furono mai un oggetto di pena, o anche di pura inquisizione; e che siccome l'idea de' lor patimenti fu per lungo tempo connessa con quella della crudeltà ed ingiustizia, così la moderazione de' seguenti Principi li dispose a risparmiare una setta oppressa da un Tiranno, il furore del quale ordinariamente s'era diretto contro la virtù e l'innocenza.
Egli è in qualche modo da notarsi, che le fiamme della guerra consumaron quasi nel medesimo istante il tempio di Gerusalemme ed il Campidoglio di Roma44; nè sembra meno singolare, che il tributo della devozione, destinato pel primo, convenir si dovesse dalla forza di un vincitore insultante in restaurare ed ornar lo splendore dell'altro45. L'Imperatore impose una tassa generale per via di capitazione sul popolo Ebreo, e quantunque la somma, che toccò a ciascheduno individuo, non fosse considerabile, pure l'uso pel quale era destinata, e la severità, con cui si esigeva, la facevano riguardare come un intollerabile peso46. Poichè i ministri di tal esazione estendevano le loro ingiuste ricerche a molti, che niente avevan che fare col sangue, o con la religion degli Ebrei, era impossibile che i Cristiani, i quali sì spesso eransi coperti sotto l'ombra della Sinagoga, evitassero allora quella rapace persecuzione. Ansiosi com'erano di sfuggire la più leggiera infezione d'idolatria, la lor coscienza vietava ad essi di contribuire all'onore di quel demonio, che aveva preso il carattere di Giove Capitolino. Siccome un assai numeroso benchè decadente partito fra' Cristiani, aderiva sempre alla legge di Mosè, gli sforzi, che facevano per nasconder la loro origine Giudaica, venivano scoperti dalla decisiva testimonianza della circoncisione47, nè i Magistrati Romani avean comodo d'investigare la differenza de' religiosi sentimenti. Fra' Cristiani presenti al Tribunale dell'Imperatore, o come par più probabile, avanti a quello del Procurator della Giudea, si dice che ve ne comparissero due distinti per la loro estrazione, ch'era veramente più nobile di quella de' più gran Monarchi. Questi erano i nipoti di S. Giuda Apostolo, fratello di Gesù Cristo48. Le lor naturali pretensioni al trono di David potevan forse attirar loro il rispetto del Popolo, ed eccitar la gelosia del Governatore; ma la bassezza del loro vestire e la semplicità delle lor risposte lo convinsero ben presto, ch'essi non erano desiderosi, nè capaci di turbar la pace del Romano Impero. Essi confessarono francamente la propria stirpe reale e la stretta parentela che avevano col Messia, ma rinunziarono ad ogni temporale oggetto, e si protestarono, che il regno, da essi devotamente aspettato, era puramente di una specie spirituale ed angelica. Quando esaminati furono intorno a' loro beni ed impieghi, mostrarono le loro mani indurite dalla giornaliera fatica, e dichiararono, che traevan tutto il loro mantenimento dalla coltivazione di un fondo vicino al villaggio di Cocaba dell'estensione di circa 24 acri Inglesi49 e del valore di 9000 dramme, o sia di trecento lire sterline. I nipoti di S. Giuda furon licenziati con compassione e disprezzo50.
Ma quantunque l'oscurità della casa di David la potesse far sicura da' sospetti di un tiranno, tuttavia la presente grandezza della propria famiglia pose in agitazione la pusillanime indole di Domiziano, il quale non poteva quietarsi, se non se col sangue di que' Romani, che egli temeva, o detestava, o stimava. De' due figli di Flavio Sabino51 suo zio, il maggiore fu tosto convinto di meditare tradimenti, ed il minore, che aveva il nome di Flavio Clemente, dovè la propria salvezza alla mancanza di coraggio e di abilità52. L'Imperatore distinse per lungo tempo un sì innocente congiunto col suo favore e con la sua protezione, gli diede in isposa la sua nipote Domitilla, adottò i figli di quel matrimonio, dando loro la speranza della successione, ed investinne il padre degli onori del Consolato. Appena però ebbe finita l'annuale sua magistratura, che per un leggiero pretesto fu condannato e posto a morte; Domitilla fu bandita in un'Isola abbandonata sulle coste della Campania53; e furon pronunziate sentenze di morte, o di confiscazioni contro un gran numero di persone, che si trovarono involte nell'accusa medesima. Il delitto imputato loro fu quello di Ateismo, e di costumi Giudaici54; singolare associazione d'idee, la quale non può con alcuna verosimiglianza applicarsi, che a' Cristiani presi in quell'aspetto, nel quale venivano oscuramente ed imperfettamente risguardati da' Magistrati e dagli scrittori di quella età. Sulla forza di una interpretazione così probabile, che ammette con troppa violenza i sospetti di un tiranno, come una prova del lor onorevol delitto, la Chiesa ha posto Clemente e Domitilla fra' suoi primi martiri, ed ha infamati gli atti di Domiziano chiamandoli seconda persecuzione. Ma questa (se pur merita questo nome) non fu di lunga durata. Pochi mesi dopo la morte di Clemente e l'esilio di Domitilla, Stefano, liberto del primo, che aveva goduto il favore, ma sicuramente non aveva abbracciata la fede della sua Padrona, assassinò l'Imperatore nel proprio di lui palazzo55. La memoria di Domiziano fu condannata dal Senato; furono annullati i suoi atti; gli esiliati da lui, richiamati; e sotto il dolce governo di Nerva, mentre si restituirono gl'innocenti ai gradi ed alle sostanze loro e fortune, anche i più colpevoli ottennero il perdono, o evitarono la punizione56.
II. Circa dieci anni dopo, sotto il regno di Traiano, fu affidato a Plinio il Giovane dal suo amico e signore il governo della Bitinia e del Ponto. Egli si trovò tosto perplesso nel determinare a qual regola di giustizia o di legge dovesse appigliarsi nell'esecuzione di un uffizio il più ripugnante alla sua umanità. Plinio non si era mai trovato presente ad alcun processo giudiciale contro i Cristiani, de' quali sembra che non conoscesse che il nome, e gli era del tutto ignota la natura del lor delitto, il metodo di convincerli, e la misura delle pene, che si dovevano ad essi applicare. In questa dubbiezza ricorse, com'era solito, allo spediente di esporre alla saviezza di Traiano un imparziale, ed in alcuni capi favorevol ragguaglio della nuova superstizione, supplicando l'Imperatore a degnarsi di sciogliere i suoi dubbi, e d'illuminare la sua ignoranza57. Plinio avea impiegato la sua vita nell'acquisto della scienza e negli affari del mondo. Fin dall'età di diciannove anni avea perorato con distinzione ne' tribunali di Roma58, occupato un posto nel Senato, goduto gli onori del Consolato, ed acquistate moltissime relazioni con ogni ceto di uomini così nell'Italia come nelle Province. Dalla perplessità di lui possiam quindi trarre qualche utile indizio; possiamo assicurarci, che quando egli prese il governo della Bitinia, non erano in vigore leggi universali, o decreti del Senato contro i Cristiani: che nè Traiano, nè alcuno de' suoi virtuosi predecessori, de' quali erano in uso gli editti nella giurisprudenza civile e criminale, avevan dichiarato pubblicamente le loro intenzioni rispetto alla nuova setta, e che per quante processure si fosser fatte contro i Cristiani, non ve n'era alcuna di peso ed autorità sufficiente per determinar la condotta di un Magistrato Romano.
La risposta di Traiano, alla quale hanno frequentemente appellato i Cristiani de' posteriori tempi, dimostra tanto riguardo per la giustizia e l'umanità, quanto si potea conciliare con le false idee della religiosa politica59. Invece di far vedere l'implacabile zelo d'un inquisitore, ansioso di scoprire le più minute particolarità dell'eresia, ed esultante nel numero delle sue vittime, l'Imperatore manifesta molto maggior premura per proteggere la sicurezza dell'innocente, che per impedire lo scampo del colpevole. Riconosce la difficoltà di stabilire alcun sistema generale; ma pone due regole salutari, che spesso diedero sollievo ed aiuto agli angustiati Cristiani. Quantunque ordini a' Magistrati di punir quelle persone che son legalmente convinte, proibisce però loro con una incoerenza molto umana di far veruna ricerca intorno a' supposti rei. Nè si permette al Magistrato di procedere in qualunque specie d'accusa. Rigetta l'Imperatore le accuse anonime come troppo ripugnanti all'equità del suo governo; ed affinchè si abbiano per convinti coloro, a' quali viene imputato il delitto di professare il Cristianesimo, rigorosamente richiede la positiva testimonianza di un onesto ed aperto accusatore. Egli è probabile ancora, che quelli che assumevano un uffizio sì odioso, fossero obbligati a dichiarare i fondamenti de' loro sospetti, a individuare, tanto rispetto al tempo quanto al luogo, le segrete assemblee, che avevan frequentato i Cristiani loro avversari, ed a scuoprire un gran numero di circostanze, che si nascondevano con la gelosia più vigilante agli occhi profani. Se riuscivano in tal impresa, si esponevano allo sdegno di un attivo e considerabil partito, alla censura della porzione più culta dell'uman genere, ed all'ignominia, che in ogni tempo e paese ha sempre accompagnato il carattere di un accusatore. Se mancavano per l'opposto nelle lor prove, incorrevano la severa, e forse capital pena, che secondo una legge dell'Imperatore Adriano, infliggevasi a quelli, che falsamente attribuivano a' loro concittadini il delitto di Cristianesimo. Potea qualche volta la violenza di una superstiziosa o personale animosità prevalere alle più naturali apprensioni della disgrazia e del pericolo; ma non si può senza dubbio supporre, che accuse di un'apparenza così infelice fossero leggermente o con frequenza intraprese da' sudditi pagani del Romano Impero60.
Dall'espediente, che si usava per eludere la prudenza delle leggi, rilevasi una sufficiente prova di quanto efficacemente sconcertarono esse i malvagi disegni della privata malizia, o dello zelo superstizioso. In una grande e tumultuosa assemblea i freni del timore e della vergogna, così potenti nelle menti degl'individui, perdono la massima parte della loro influenza. Il devoto Cristiano, a misura che desiderava d'ottenere o d'evitar la gloria del martirio, aspettava, o con impazienza o con terrore, le occasioni de giuochi pubblici e delle solennità. In queste gli abitanti delle grandi città dell'Impero adunavansi nel Circo o nel Teatro, dove ogni circostanza, del luogo non meno che della ceremonia, contribuiva ad accenderne la devozione, e ad estinguerne l'umanità. Mentre i numerosi spettatori, coronati di ghirlande, profumati d'incenso, purificati col sangue delle vittime, e circondati d'altari e di statue delle lor tutelari Divinità, si davano al godimento de' piaceri, che risguardavan come un'essenzial parte del culto lor religioso; vedevano che i soli Cristiani abborrivano gli Dei delle Genti, e con l'assenza e tristezza loro in tali solenni feste pareva che insultassero, o deplorassero la pubblica felicità. Se l'Impero era afflitto da qualche nuova disgrazia, da peste, da fame, o dal cattivo esito di una guerra; se aveva il Tevere dato fuori o il Nilo non era uscito dalle sue sponde; se la terra s'era scossa, o se interrotto s'era il solito corso delle stagioni, i superstiziosi Pagani non dubitavano, che i delitti e l'empietà de' Cristiani, che risparmiavansi dall'eccessiva lenità del Governo, finalmente avessero provocato lo sdegno della divina giustizia. Non era da sperare, che in mezzo ad una licenziosa ed inasprita plebaglia si osservasse la forma di procedere legalmente; nè l'anfiteatro, asperso del sangue delle bestie feroci e de' gladiatori, era il luogo dove potesse farsi udire la voce della compassione. Le grida impazienti della moltitudine denunziavano i Cristiani come i nemici degli uomini e degli Dei, li condannavano a' più atroci tormenti, ed avanzandosi a nominare alcuni dei più ragguardevoli fra nuovi settari, con irresistibil veemenza chiedevano, che nell'istante medesimo fossero presi ed esposti a' leoni61. I Governatori delle Province, ed i Magistrati, che presedevano a' pubblici spettacoli, eran per ordinario disposti a soddisfare le inclinazioni, ed a quietare la rabbia del popolo col sacrifizio di poche vittime, soggette all'odio di esso. Ma la saviezza degl'Imperatori proteggeva la Chiesa dal pericolo di simili tumultuarj clamori ed illegittime accuse, ch'essi a ragione disapprovavano come ripugnanti sì alla fermezza che all'equità della loro amministrazione. Gli editti di Adriano e di Antonino Pio dichiararono espressamente, che la voce del popolo non dovesse mai risguardarsi come una prova legale per convincere, o per punire que' disgraziati, che abbracciato avevano l'entusiasmo del Cristianesimo62.
III. Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere alcuno stato convinto; e que' Cristiani dei quali si era con la maggior chiarezza provato il delitto, mediante il deposto di testimoni, o anche per la volontaria lor confessione, ritenevano sempre in lor mano la facoltà di scegliere o la vita o la morte. Non tanto la trasgressione passata, quanto la resistenza presente eccitava lo sdegno del Magistrato. Concedevasi un facil perdono al pentimento, e se acconsentivano di gettar pochi grani d'incenso sopra l'altare, venivan licenziati dal Tribunale salvi e con applauso. Un Giudice umano stimava suo dovere di procurare il ravvedimento piuttosto che la pena di que' delusi entusiasti. Prendendo diverso stile secondo l'età, il sesso, o la situazione de' prigionieri, spesso adattavasi a mettere loro davanti agli occhi ogni circostanza, che potesse rendere o più piacevol la vita, o più terribil la morte, ed a sollecitarli, anzi a pregarli a voler mostrare qualche compassione verso se stessi, le lor famiglie ed i loro amici63. Se le minacce e le persuasive non avevano effetto, si ricorreva spesse volte alla forza; supplivano i flagelli e le torture alla mancanza degli argomenti, e impiegavasi ogni sorta di crudeltà per domare quell'inflessibile, e come, sembrava a' Pagani, colpevole ostinazione. Gli antichi Apologisti hanno censurato con ugual verità che rigore l'irregolar condotta de' lor persecutori, i quali, contro qualunque principio di giudicial processura, servivansi de' tormenti per ottenere non già la confessione, ma la negazione del delitto, che formava l'oggetto di lor ricerche64. I Monaci de' secoli posteriori, che nelle tranquille lor solitudini si occuparono a variare le morti ed i patimenti de' primi Martiri, hanno spesso inventato tormenti di una specie molto più raffinata ed ingegnosa. È piaciuto lor di supporre in particolare, che lo zelo de' Magistrati Romani, sdegnando di avere qualunque riguardo per la virtù morale, o per la pubblica decenza, procurasse di sedurre quelli, che non eran capaci di vincere, e che per lor ordine si esercitasse la più brutale violenza contro coloro, de' quali trovavano impossibile la seduzione. Si racconta, che talvolta alcune pie donne le quali erano preparate a disprezzar la morte, furono condannate a sostenere un esperimento più duro, e forzate a deliberare, se dovessero valutar più la religione che la lor castità. I giovani, a' lascivi abbracciamenti de' quali venivano abbandonate, erano solennemente esortati dal Giudice a fare i loro più vigorosi sforzi per sostener l'onore di Venere contro quell'empie vergini, che ricusavano di bruciar l'incenso sopra i suoi altari. La lor violenza però comunemente restava delusa, e l'opportuna interposizione di qualche miracolo preservava le caste spose di Cristo anche dal disonore di una involontaria caduta. Non si dovrebbe in vero tralasciar di osservare, che le più antiche ed autentiche memorie della Chiesa sono rade volte macchiate con queste indecenti e stravaganti finzioni65.