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Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano
Guido Pagliarino
Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano
Romanzo storico
Copyright © 2018 Guido Pagliarino
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Guido Pagliarino
Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano
Romanzo storico
3a Edizione a Stampa e in E-book
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1a edizione dell'opera, in formato cartaceo, Copyright © 2007-2012 Prospettiva Editrice
Dal 01-01-2013 i diritti su questâopera sono ritornati interamente allâautore
2a edizione , riveduta e variata, in e-book mobi ed epub, Copyright © 2015 Guido Pagliarino
2a edizione, riveduta e variata, cartacea, Create Space, Copyright © 2016 Guido Pagliarino
L'immagine inserita nella copertina è la riproduzione d'una tempera di Raffaello su carta, montata su tela, custodita al âVictoria and Albert Museum, Londonâ sotto il titolo âSt Paul before the Proconsulâ, 1515; l'opera è conosciuta in Italia anche come âElimas il mago viene accecato da Saul dinanzi a Sergio Paoloâ oppure âLa conversione del proconsoleâ con riferimento ad Atti degli Apostoli, 13, 8-11
INDICE
âLe indagini di Giovanni Marco cittadino romanoâ- Romanzo storico di Guido Pagliarino
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
âDizionarietto essenziale storicoâ di Guido Pagliarinoâ
Note al testo
Le indagini di Giovanni Marco cittadino roman o
Romanzo storico di Guido Pagliarino
Capitolo I
(Indice)
Stranamente il paesaggio era luminoso sebbene il cielo fosse plumbeo.
Giovanni Marco camminava lungo una strada diritta lastricata, come la via romana a lui familiare che da Gerusalemme scendeva a Cesarea Marittima; ma non era quella. Il tracciato si perdeva allâorizzonte, percorrendo un ignoto territorio piatto quasi deserto, con radi pruni giallastri e cespugli grigioverdi smossi dallâandare e venire di vipere e circondati da sciami di mosconi il cui ronzio continuo infastidiva i suoi orecchi; non un essere umano, a parte lui.
Allâimprovviso Marco sâera trovato in una zona colma di fosse, come quelle profonde che si scavano per seppellire immondizie o carogne; ed ecco che, prima inavvertito, aveva notato steso a terra, insepolto, il cadavere insanguinato dâun cane molosso nero, la lingua di fuori e gli occhi vitrei, e aveva udito un rumore provenire dalla buca più vicina, come uno scalpiccio, un fruscio, uno stropicciare con le unghie dâun vivente che si stesse penosamente arrampicando: forse un animale ferito e buttato sul fondo ancora vivo che cercava di risalire? Un altro temibile cane da combattimento? e se fosse stata una fiera in agguato?! Aveva sofferto unto sudore tiepido dietro al collo mentre unâaltra possibilità gli aveva causato un brivido alla schiena: se invece⦠fosse stato lì per mostrarsi un abitatore dello Sheòl?! Nel medesimo istante aveva fatto capolino dalla buca la testa dâun uomo; ed era Gionata Paolo, suo padre.
Uscito dalla fossa, il defunto se nâera trattenuto al limite. Appariva tal quale Marco lâaveva visto per lâultima volta tanti anni prima, quando il genitore era partito per il viaggio a Perge da cui non sarebbe tornato: trentasei anni, alto, snello, folti capelli e lunga barba castani con qualche filo già bianco; indossava la stessa tunica nocciola e il medesimo mantello verdino costretto alla vita da una cintura marrone.
Le braccia abbandonate lungo il corpo, fisso come un pertica aveva iniziato senza preamboli uno dei sermoni châera solito indirizzare al figlio: âCaro Marco, tu non sei sulla buona via ma sul cammino dellâaridità . I nazareni faticano senza posa per dare al mondo la buona notizia, mentre tu continui a occuparti solo dei tuoi interessi. Sì, è vero, rispetti i precetti della Legge, ma se questo era sufficiente per me che non sapevo, a te non può bastare: ora che la notizia sâè posata ai tuoi piedi, devi raccoglierla e sparpagliarla, e tanto più lo puoi, essendo tu favorito dalla cittadinanza di Roma che ti dà pieni diritti nellâimpero. Segui dunque lâesempio di tuo cugino Giuseppe Barnaba e, quando andrà a Perge per diffondere la notizia, vaâ con lui; una volta giunto, per prima cosa onora la mia tomba e quindi indaga: scoprirai chi mâassassinò e, grazie a te, sarà fatta giustiziaâ.
âPerché non me lo dici tu adesso, chi tâuccise?!â.
Il padre non gli aveva risposto e, come se neppure avesse udito, aveva preso a salire adagio verso il cielo, mentre nel bigio delle nuvole sâera aperta lentamente una fessura di luce; e Marco sâera svegliato.
Capitolo II
(Indice)
Diciassette anni prima, in un giorno di marzo del 781 a.U.c.1 secondo il calendario di Roma, anno 4080 dalla creazione del mondo per glâisraeliti, Gionata padre di Marco, fariseo, era entrato raggiante nella propria bella dimora in Gerusalemme, di ritorno da Cesarea Marittima dove sedeva il rappresentante di Tiberio Cesare per la provincia di Giudea, Samaria e Idumea: dopo tanto tempo e denaro spesi in doni al suo protettore Marco Paolo Rufo, aiutante del procuratore Ponzio Pilato, finalmente gli era stata concessa la cittadinanza romana. I suoi affari ne sarebbero stati agevolati, tripudiava, ed egli si sarebbe arricchito ancora di più, nella piena benedizione dellâAltissimo.
Gionata era nato ad Asut, sul corso del basso Nilo, secondogenito di unâabbiente famiglia dâagricoltori. Alla morte del padre i terreni sarebbero andati al fratello maggiore ed egli sâera dedicato pertanto al commercio di vino e datteri facendo base a Gerusalemme, dove aveva contemporaneamente frequentato la casa di Hillel, maestro biblico originario di Babilonia. Durante questo soggiorno era entrato in amicizia con un altro allievo di quella scuola farisaica, Samuele, più anziano e padre della sua futura moglie, la tredicenne Maria: si trattava dâunâimportante famiglia appartenente alla tribù di Levi e addirittura discendente dal sommo sacerdote Aronne fratello di Mosè. Maria aveva avuto dal proprio padre una buona cultura, contrariamente allâuso del tempo verso le figlie femmine. Dopo il matrimonio, seguendo i propri commerci Gionata aveva preso domicilio con la sposa a Salamina, dove già risiedeva il fratello di lei, un levita proprietario dâun podere che li aveva provvisoriamente ospitati; ma già mesi dopo, di fronte a prospettive migliori la coppia sâera trasferita a Chairouan di Cirenaica dove, a buon prezzo, Gionata aveva comprato terre e dovâera nato Marco. Alcuni anni dopo però, la regione era stata invasa da bellicose tribù arabe costringendo la famiglia alla fuga. Senza perdersi dâanimo, il fariseo aveva condotto i suoi cari a Gerusalemme presso i genitori della moglie. Con monete e gioielli châegli e Maria sâerano nascosti addosso, aveva comprato un uliveto nei pressi della città , lungo una sponda del torrente Cedron in località Getzemani, piantando così di nuovo il benessere familiare. Entro pochi anni aveva allargato il podere acquistando una vigna sullâaltra riva, comprato casa e rilevato un bazar di tappeti.
âHo ritenuto bene aggiungere al mio nome quello di famiglia del mio patronoâ, aveva comunicato Gionata a Maria la moglie e allâunico figlio non appena era entrato in casa, ancor prima di farsi lavare i piedi sporchi per la lordura della via; âdâora in poi sarò Gionata Paolo; e anche al tuo nome, caro figliolo, ne seguirà uno latino, ché allâoccorrenza, presentandoti ai romani, possano riconoscerti come uno dei loro e favorirti. Da questo momento sei Giovanni Marco, cittadino di Romaâ.
Il giovane aveva compiuto da poco i tredici anni, era un adulto oramai, un Bar Mitzwah, Figlio della Legge ammesso a leggere e commentare in sinagoga i rotoli della Sacra scrittura. Il padre tuttavia, come sâegli fosse stato ancora un piccolo bambino, non aveva mancato di raccomandargli: âAttenzione, però: anche se adesso sei cittadino romano, non dimenticare mai dâessere un giudeo, segui sempre i 613 Mitzvot, i santi Precetti della Legge! e mai acquista qualcosa degli usi dei nostri dominatoriâ. Qui di colpo un sospetto gli era saltato in mente. Sâera zittito e aveva guardato attorno circospetto, come se in casa o dietro al muro perimetrale potesse celarsi una qualche spia di Ponzio Pilato. Rassicurato, aveva ripreso slancio e sâera buttato appieno in uno dei suoi soliti, ridondanti insegnamenti al figlio, che spaziavano dallâetica alla storia e in cui paragonava i santi costumi farisaici a quelli biasimevoli dei gentili: âNoi ebrei, figliolo, siamo gli eletti del Cielo, mentre i romani, come i greci, per i loro corrotti costumi non risorgeranno: i nostri conquistatori videro la corrotta Grecia come culla di valori da inserire nella loro civiltà , ma insieme al sapere entrarono in Roma le abitudini morali nefande di quel popolo, che meritano punizione dal Signore!â La maledicente esclamazione non gli era di certo bastata; aveva continuato: âInvano il severo imperatore Augusto avversò quei costumi: corre voce a Cesarea Marittima che il suo erede Tiberio sâabbandoni a ogni vizio assieme alla sua corte, non differenziandosi più in nulla dagli ellenici maestri di dissolutezza. Così, presso i gentili è abominazione delle abominazioni. Che dire, dâaltronde, della cultura greco-latina in sé stessa?! Poesia, filosofia, diritto sono riservati a pochi privilegiati che trattano la plebe come una cosa, per non parlare di come considerano noi giudei, noi che siamo costretti a comprarci la cittadinanza dellâUrbe per prosperareâ â in fondo si sentiva in colpa per il suo recente acquisto â âe dietro agli umanisti greci e romani ecco, a perdita dâocchi, unâestensione eterogenea di miserabili popolani, a Roma come a Corinto, ad Alessandria come in Atene, ai quali, nella stragrande maggioranza dei casi, neppure viene insegnato a leggere e a fare di contoâ. Si gonfiò anche di più: âNoi ebrei, invece, fino ai dodici anni! siamo istruiti in sinagoga, noi figli dâIsraele tutti di stirpe regale, quella del Creatore, come sappiamo dalla sua Parola, e nientâaffatto una massa come la plebe della società pagana; e chiunque di noi, come il grandissimo mio rabbì Hillel di Babilonia châera un semplice tagliaboschi, può continuare gli studi se un maestro lâaccoglie come discepolo, e addirittura aspirare a divenire egli stesso un rabbì!â. Ripreso fiato, aveva finalmente concluso: âChe la giustizia dellâAltissimo fulmini i peccatori impenitenti per i secoli dei secoli!â.
âAmèn, amènâ, avevano fatto eco in coro figlio e moglie; e finalmente questa, châera rimasta per tutto il tempo con un catino in mano pronta a servire lo sposo, sâera accinta a lavargli i piedi.
Un paio di mesi dopo, il 23 di maggio, durante un soggiorno dâaffari a Perge dove intendeva acquistare pregiati tappeti locali in uno degli empori cittadini per rivenderli a prezzo maggiorato a Gerusalemme, Gionata Paolo era stato trovato cadavere da una ronda di polizia, steso a terra in uno dei vicoli cittadini, trafitto al cuore.
Lâassassino o gli assassini non erano stati rintracciati.
La borsa non gli era stata sottratta, difficile quindi pensare a un omicidio per rapina. Immorale concorrenza negli affari sino allâomicidio? Un banale litigio sulla via finito tragicamente? O forse era stato uno di quei fanatici patrioti ebrei detti zeloti? Lâaveva punito perché era divenuto cittadino di Roma? Queste le domande che Marco sâera posto. Solo diciotto anni dopo avrebbe avuto la risposta, e il movente che avrebbe scoperto non sarebbe stato fra quelli immaginati, ma qualcosa dâassolutamente inatteso.
Capitolo III
(Indice)
Tre giorni prima della morte di Gionata Paolo, la nave proveniente da Cesarea Marittima dove il fariseo sâera imbarcato aveva gettato lâancora nel porto di Salamina di Cipro, città dove viveva un suo nipote dâacquisto, il levita Giuseppe detto Barnaba, figlio del fratello di sua moglie e agricoltore come i defunti genitori.
Barnaba aveva ospitato lo zio per la notte e, avendo già intenzione dâacquistare a Perge, nellâimmediato futuro, certe sementi pregiate, aveva deciso, lì per lì, dâunirsi a lui nel resto del viaggio.
Sâerano imbarcati il giorno dopo sopra una nave più piccola di quella che aveva portato Gionata Paolo a Salamina, imbarcazione che, una volta superato il braccio di mare che divideva Cipro dalla regione di Panfilia, avendo breve immersione poteva risalire il fiume Cistro fin al piccolo ancoraggio di Perge, invece di doversi mettere alla fonda ad Attalia, il porto marino della città .
Una volta a destino, usciti dal porticciolo i due avevano visto, lungo la via che portava allâinterno, donne di varie età e giovinetti imberbi, seminudi gli uni e le altre, offrirsi ai passanti tanto con la parola che toccandosi il sesso o le terga e dondolando i bacini in una pantomima sessuale. Il rigido fariseo, che sullâesperienza dei precedenti viaggi se lâera attesa, aveva eruttato, indicando il cielo con lâindice ultore della mano destra: âObbrobrio davanti al Signore! O tu che cammini sulla sfera di cristallo del firmamento! Manda il tuo angelo di morte su tutti questâimpudichi!â.
âAmènâ, sâera unito il nipote, ma a bassa voce e senzâenfasi.
Per quel suo fiacco tono, il fariseo non era rimasto soddisfatto del parente: âInsomma Barnaba! lo vedi bene, no? cosa devo soffrire ogni volta che vengo qui. A Perge trovo il meglio dei tappeti o non ci metterei piede, sai? Lo hai notato o no, che vâimperversano addirittura gli efebi sodomiti?!â
Il nipote, socchiudendo gli occhi e piegando la bocca in una smorfia amara, aveva assentito doppiamente con la testa.
Finalmente confortato, lo zio aveva allora levato il viso il più in alto possibile e fiondato la propria voce fin alla sfera del cielo, o almeno questa ne era stata lâintenzione: âAbominazione delle abominazioni! Altissimo Signore, salva i peccatori pentiti, ma scaglia le tue maledizioni su quelli che non si pentono! Falli bruciare dal tuo angelo di morte con una tempesta di fiamme, come su Sodoma e Gomorra!â.
âAmènâ, aveva fatto eco unâaltra volta il nipote, stavolta alzando di molto la voce; poi però non sâera trattenuto e, sorridendo, aveva fatto seguire: âLa tempesta ardente solo quando saremo ripartiti, eh? perché se qualche lingua di fuoco andasse fuori bersaglioâ¦â
âBeh, beh⦠si capisceâ, aveva concordato Gionata Paolo che mancava del tutto dâumorismo.
Dividendo le spese, i due avevano affittato una stanza in un alberghetto dove il fariseo era solito soggiornare, gestito dallâebreo Matteo Bar Beniamino, in cui, secondo le norme di purità , veniva servito cibo kosher ottimamente cucinato ai correligionari di passaggio, e pure a diversi avventori non ebrei che, pur non soggetti alle regole giudaiche, ne apprezzavano lâottimo sapore.
Poco dopo il sorgere del sole sul suo ultimo giorno di vita, Gionata Paolo aveva assunto la prima colazione nella locanda in compagnia del nipote, poi i due sâerano divisi per occuparsi ciascuno dei propri affari; così, al momento dellâaggressione lo zio sarebbe stato solo col suo assassino. Avevano stabilito di ritrovarsi verso il tramonto alla locanda, châera non lontana dalla viuzza dove il padre di Marco sarebbe stato trovato da una ronda di polizia morto ammazzato, per far cena e riposare fino allâalba, dopo di che il fariseo avrebbe pagato e ritirato i suoi tappeti e il levita i propri sacchi di sementi e, coi rispettivi carichi, i parenti sarebbero ripartiti quella mattina con la stessa nave che li aveva portati a Perge.
Barnaba aveva passato la giornata visitando alcuni grossisti di granaglie, con una breve pausa verso mezzodì per un leggero pasto di frutta consumato in piedi presso il venditore. Aveva trovato i chicchi giusti, per qualità e prezzo, solo a fine pomeriggio. Lasciata una caparra al fornitore, era tornato alla pensione, giungendovi quando il sole era da poco sceso dietro lâorizzonte. Non appena entrato aveva saputo dallâalbergatore, senzâalcun delicato preambolo, dellâomicidio dello zio: Matteo Bar Beniamino, tornando poco prima a casa da una commissione, era passato per la stradina dove giaceva il cadavere, attorniato da uomini dâuna ronda di polizia, e aveva riconosciuto nel morto il proprio cliente: âEra stato ucciso da pocoâ, aveva precisato allâattonito levita, âlo so perché una delle guardie stava dicendo ai colleghi che il corpo era ancora tepido; poi lâavevano caricato sopra un carretto, immagino requisito lì per lìâ. Era prassi delle ronde dâordine pubblico portare in caserma ogni salma ignota raccolta per via, fatto tuttâaltro che infrequente, dovâera tenuta in deposito in una cantina fin allâalba del dopodomani, nellâeventualità che un parente si fosse presentato a riconoscerlo e reclamarlo; se no, il morto veniva seppellito nelle prime ore del posdomani nella fossa comune di Perge.
Le funzioni dellâorganismo di polizia della città , composto da un centinaio dâuomini al comando dâun centurione, erano simili a quelle della Milizia dei Vigili dellâUrbe, creata nel 758 1bis da Ottaviano Cesare Augusto e imitata in varie città dellâimpero. Venivano esercitate mansioni generali di polizia e la prevenzione e lo spegnimento dâincendi nonché, legati alle prime, lâindividuazione e lâarresto di chi li avesse provocati per dolo o anche solo per negligenza. Alla base dellâattività della centuria stavano ronde continue per la città di squadre di dieci uomini. Gaio Tullio, comandante della decuria che sâera imbattuta nella salma di Gionata Paolo, dopo aver interrogato brevemente gli abitanti della zona, i quali avevano dichiarato di non aver visto né udito nulla, aveva rinunciato a indagare: in quei tempi era normale che la maggior parte dei delitti restasse impunita, trovare i colpevoli non sorpresi in flagrante era improbabile quasi come individuare una particolare formica in un formicaio.
Il locandiere aveva riportato ancora a Barnaba dâaver detto al decurione che la vittima era stata sua cliente, aggiungendo che avrebbe avvisato della tragedia un altro avventore, che aveva stanza con la vittima e ne era parente, perché, volendo, ne richiedesse la spoglia.
La sera stessa, nonostante lâoscurità , ottenuta una lanterna dallâalbergatore il nipote del morto sâera presentato alla sede dei militi, non eccessivamente distante, per reclamare il corpo dello zio. Aveva parlato con un decurione in servizio al corpo di guardia. Il sottufficiale lâaveva condotto dal comandante della caserma, un giovane centurione di nome Giunio Marcello. Costui, dopo aver ascoltato la richiesta di Barnaba, aveva convocato il decurione Gaio Tullio e, in sua presenza, aveva detto al levita: âBene, mi hai detto di chiamarti Giuseppe Barnaba e dâessere di Salamina; adesso voglio sapere cosa siete venuti a fare a Perge tu e la vittimaâ.
âIo a comprare sementi per i miei campi e lo zio tappeti per il suo bazar in Gerusalemmeâ.
âPoiché câè anche una borsa del morto da ritirare, dimmi come puoi dimostrare dâessere suo nipoteâ.
âLo può confermare Matteo Bar Beniamino, padrone della locanda dove io e lo zio abbiamo preso una stanza assiemeâ.
Sâera intromesso Gaio Tullio: âComandante, Matteo Bar Beniamino è lâindividuo che ho citato nel mio rapporto, che ha riconosciuto la vittima dellâomicidio e mi ha detto ne avrebbe informato il nipoteâ.
âVa bene, comunque tra poco controlleremo se quel nipote è proprio costuiâ. Sâera volto a Barnaba: âTu, intanto, dimmi dove e con chi hai trascorso oggi le ultime ore di luceâ.
A quanto sembrava sospettava di lui, come aveva recepito il levita con preoccupazione; e aveva fatto il nome del grossista di granaglie.
Il centurione, avuti glâindirizzi del commerciante e dellâalbergatore, aveva ordinato a Gaio Tullio di prendere una guardia con sé e accompagnare il levita alle residenze dei due testimoni, per un confronto.
Il grossista aveva testimoniato che quel suo cliente era stato da lui fin al tramonto, lâalbergatore che Barnaba era arrivato alla locanda a sole appena calato, col cielo non ancor del tutto buio, e che il giorno prima lâuomo e il defunto sâerano presentati come parenti nel prendere stanza.
Ascoltato il rapporto di Gaio Tullio, il comandante aveva concesso allâaccertato nipote di ritirare, alle prime luci, la salma dello zio. Sùbito gliene aveva consegnato la borsa, contenente solo monete dâoricalco, sei sesterzi e due dupondi, in uno dei due scomparti, per gli spiccioli, mentre lâaltro, per le monete dâoro e i denari dâargento, era vuoto. Barnaba sapeva che il parente avrebbe dovuto possedere ancora molta pecunia per saldare i tappeti e pagarsi il viaggio di ritorno e aveva pensato a un furto, non da parte omicida, però, ma di guardie, il centurione stesso? Aveva ragionato: perché mai un rapinatore di strada avrebbe dovuto attardarsi a togliere le monete di valore lasciando la minutaglia, invece di carpire semplicemente la borsa come tutti i grassatori fanno, e fuggire prima che qualcuno potesse sopraggiungere? Nondimeno, per evitare contrattempi e forse guai, il levita aveva tenuto il sospetto per sé.
Dopo una notte di sonno sbattuto, allâapertura dei bazar Barnaba aveva acquistato una sindone, un sudario e unguenti sepolcrali e preso accordi con un paio di greci, di professione scalpellini, tagliapietre e affossatori, che avevano bottega nella stessa zona. Era giunto al posto di polizia coi due sul loro carro, trainato, come il levita aveva notato con disagio, da una coppia di muli: le norme ebraiche di purità vietavano dâincrociare specie diverse di bestie e anche dâavvalersi dei loro ibridi nati, ma Barnaba non aveva scelta in quella città in maggior parte pagana. I necrofori, esperti tanto di funerali gentili che ebrei, avevano caricato sul loro carro lâoccorrente per una sepoltura giudaica. Il levita aveva ordinato ai due operai di lavare il corpo di suo zio e ungerlo con gli oli; quindi, dopo aver personalmente posato il fazzoletto funebre sul capo del defunto e aver elevato una preghiera, aveva comandato dâavvolgere la salma nella sindone. Col carro i tre vivi e il morto avevano raggiunto il sepolcreto, che si trovava a un mezzo miglio da Perge: si trattava dâun canalone coperto di sassi, pruni e arbusti che passava, per la lunghezza dâun terzo di miglio e la larghezza media dâun centinaio di cubiti, fra due pareti rocciose butterate da piccole caverne a varie altezze; le tombe erano state ricavate, aggiungendo alla natura lâopera dellâuomo, sfruttando le grotte che sboccavano a livello del suolo. Dopo che il levita, in piedi accanto al carro, aveva recitato le ultime orazioni per il defunto, i necrofori avevano portato il corpo, con la sindone che lâavvolgeva, in una grotta ancora libera dove lâavevano deposto supino; quindi avevano chiuso lâantro con pietre raccolte sul luogo, a moâ di mattoni naturali, legandole fra loro con calce; avevano lasciato unâapertura, grossolanamente quadrata, a livello terra con lato di poco più dâun cubito e mezzo, dalla quale, strisciando, si sarebbe potuto accedere allâinterno; quindi avevano scavato sul terreno, accosto alla tomba, una guida lunga cinque cubiti e larga circa un palmo, lâavevano ricoperta con piccoli ciottoli piatti e vi avevano posto e ruotato, a chiusura dellâingresso, una lapide cilindrica, appena più stretta del corridoio e di diametro un poâ maggiore della diagonale dellâapertura, ruota tombale che avevano preso in bottega tra altre preventivamente lavorate e dove, su quello che sarebbe stato il lato esterno, Barnaba aveva fatto incidere, sia in aramaico sia traslitterato in alfabeto greco, il nome dello zio.