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Vivere La Vita
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Quando ha dichiarato chiusa l'assemblea e tutti insieme abbiamo cantato l'inno dei pionieri, è stato l'unico momento che mi è piaciuto di tutto quello incontro.

Nell'attimo dopo, ero già fuori.

Mentre camminavo da solo, pensavo che i miei amici erano già a casa, da più di un'ora.

Ero stato lì, dal mio tempo libero e come risultato, non vedevo niente di buono.

Era per la prima volta che sentivo delle cose che non conoscevo e che insieme alla paura di prima, facevano muovere tutto dentro me, in modo strano.

Un disordine totale.

Nella testa avevo un sacco di domande che venivano tutte insieme. Mancavano però le risposte ed in più, la pace e la tranquillità che tanto amavo, in quei momenti, mi chiedevo se mai le avrei ritrovate.

Appena entrato in casa, prima ancora di togliermi le scarpe e la divisa da pioniere, i miei genitori, senza neanche guardarmi, mi facevano un sacco di domande in modo allegro, scherzoso, vivace ma tranquillo, su come era andata la mia prima assemblea da "grande capo", insieme agli altri grandi capi della scuola.

Sembrava quasi che mi prendevano in giro.

Silenzioso e senza rispondere, sono andato a svestirmi.

Quando vestito da casa sono ritornato in cucina per mangiare, ho visto che all'improvviso hanno smesso di farmi domande sull'assemblea e dopo un attimo di silenzio, mio papà mi ha chiesto se volevo andare con lui sulla collina dove andavano a giocare i ragazzi grandi del condominio.

Aveva voglia di camminare un po' e non li andava di farlo da solo.

Soltanto in quel momento ho cominciato a rivedere che fuori era una bellissima giornata serena ed ancora molto luminosa, anche se autunno. Dentro di me, al' improvviso, sembrava che quel grande disordine che si muoveva in continuazione, cominciava a fermarsi, lasciando il posto alla tranquillità. In quei attimi, ho capito che anche il mio corpo tornava piano, piano ad essere meno rigido, caldo e vivo.

Piano, piano e finalmente dopo un po', cominciavo a vedermi e sentirmi come mi conoscevo.

Sarebbe stato per la prima volta che andavo sulla collina.

Mi è bastato, per far ritornare in me la vita.

Quando ho provato a spiegare a mio papà che prima avrei avuto dei compiti da fare e lui mi ha risposto che aveva fiducia in me ed era sicuro che li avrei fatti tutti e fatti bene al nostro ritorno, l'ultimo pezzo di disordine ancora rimasto dentro me, è stato spazzato via da un'esplosione di entusiasmo, di gioia.

I piedi che prima sentivo pesanti come il piombo, erano diventati leggeri e pronti alla camminata e prima di dire, oppure sentire qualsiasi altra cosa ero nel' ingresso, d'avanti alla porta di casa, con le scarpe già ai piedi.

Pronto per partire.

Prima di uscire, mio papà ha soltanto preso nello sgabuzzino una cosa che sembrava un bastone, spiegandomi che era una piccozza da montagna.

Era per la prima volta che la vedevo.

Mi è subito piaciuta tanto.

Ha poi preso anche un piccolo borsellino da minatore, un po’ più grande di quello che avevo al' asilo, dicendo che era il periodo buono, per la maturazione delle noccioline selvatiche.

Siamo usciti.

All'improvviso, quello era appena diventato uno dei giorni più felici ed importanti della mia vita.

Quando d'avanti al condominio, qualcuno dei miei amici che era già sul nostro “Maracana”, mi ha chiamato a fare due tiri, con tanta fierezza ho risposto che non potevo, perché andavo con il mio papà sula collina dei ragazzi grandi.

Appena attraversato il corso, quasi subito, siamo scesi in una piccola vallata e dopo aver attraversato il letto abbastanza grosso del piccolo fiumiciattolo che passava di lì, abbiamo cominciato la salita. Una salita dolce, tranquilla e mentre la stavamo facendo, mio papà ha cominciato a farmi vedere e spiegare tante cose.

Dove si poteva camminare perché era la collina di tutti e dove non si poteva, perché apparteneva alle persone che abitavano nelle case all'ingresso della città.

Dove si poteva accendere un fuoco per fare alla brace delle buone patate oppure lardo di maiale affumicato, il cibo preferito dei montanari, e dove non si doveva mai accendere un fuoco.

Quale era il legno buono per fare gli archi, come quelli dei ragazzi grandi e quale era il legno buono per fare le frecce.

Dalle piccole fonti di acqua che ogni tanto vedevo uscire da sotto terra, da quale si poteva bere tranquilli e quali era meglio evitare.

Quale pianta, oppure foglie di alberi potevano andare bene per qualche cura naturale e per quale cura.

Era tutto bellissimo.

Stavo vivendo una lezione di "conoscenze della natura", in mezza alla natura e scoprivo in quei momenti quante cose nuove mi stava insegnando mio papà senza nessuna fatica.

Quante cose sapeva.

Ci siamo fermati in un grosso spiazzo.

La città si vedeva già dall'alto ed il rumore era rimasto lontano.

Eravamo su un bel prato ancora molto verde e molto morbido.

Intorno allo spiazzo, non molto lontani, c'erano tantissimi alberi dai più piccoli, a molto grandi. Riempivano tutta la collina e lo spettacolo che davano era splendido. Visto da vicino, era ancora più bello di quanto era quando lo vedevo dalla finestra della nostra cameretta.

Le loro chiome erano fatte di tantissimi colori.

Sembrava che tutti i tipi di verde ed alcuni di giallo erano scesi dal cielo e si sono posati sopra, per dipingerle. Verso l'alto della collina si vedevano tanti con delle chiome di un colore quasi rosso. Mentre il leggero vento passava, le loro foglie si muovevano tutte insieme nello stesso momento e nella stessa direzione in un modo tranquillo, molto delicato.

Era per la prima volta che sentivo il loro fruscio.

Il loro canto armonioso, portatore di pace.

Quando il leggero vento veniva verso di noi, anche se molto tranquillo, oltre aria più fresca, portava anche un bel po’ di foglie gialle piccoli e grandi che scendevano a terra leggere e tranquille come i fiocchi di neve.

Mentre respiravo a bocca chiusa ma a polmoni pieni, per poter assorbire tutti i profumi buoni che sentivo, per riempirmi più che potevo di quel' aria, mio papà mi spiegava che quella specie di sentiero molto, molto largo, quasi una strada, che partiva dal nostro spiazzo e salendo sulla collina, si perdeva in alto dentro la foresta, era il posto che d'inverno, con la neve, diventava la pista di slitta di tutta la nostra zona.

Cominciando a salire anche noi su quella che diventava d'inverno la pista delle slitte, sentivo l'erba corta sotto i piedi cosi morbida, che ogni tanto, mi sembrava quasi, di perdere l'equilibrio.

Era come camminare sopra un morbido e spesso tappetto persiano della migliore qualità.

Mi sembrava di essere entrati, nel regno della natura e che lei, ci aveva dato gratuitamente e con tanta generosità il permesso di farlo, per poterci gustare da vicino tutto.

I suoi colori, profumi, suoni.

Tutta la sua vita.

Di dentro, in un modo tranquillo e naturale, sentivo che l'unica cosa da offrire in cambio come ringraziamento a tutta quella ricchezza, a tutto quello che ci donava e ci permetteva di vivere, era il mio più profondo rispetto per lei.

Per la natura.

La mia testa non si fermava mai, perché a destra, a sinistra, su e giù, c'era sempre qualcosa di nuovo, di bello e di interessante da vedere. Anche se non lo guardavo sempre, sentivo molto bene la voce di mio papà che ogni tanto interrompeva il grande silenzio per insegnarmi come si doveva respirare, come si doveva camminare e cosa si doveva fare in alcune situazioni di difficoltà in montagna.

Mentre mi parlava, all'improvviso si è fermato e con la parte curvata della piccozza di montagna, dopo averla alzata, ha piegato con attenzione e senza spezzarla, una pianta non spessa, fino a portarmela quasi d'avanti al naso ed appena fatto, ho sentito la voce di mio papà, che mi diceva di guardare come erano belle le noccioline sui rami d'avanti a me.

Sembrava che soltanto in quel momento i miei occhi si sono aperti.

Ho visto attaccate alla pianta, tante coppie di noccioline di colore giallino, quasi bianco in dei gusci di un verde molto fresco.

Con l'aiuto di mio papà, che uno dietro l'altro piegava e poi rilasciava i rami delle piante, ho raccolto le noccioline finché abbiamo riempito la piccola borsetta che avevamo.

Dopo aver finito e senza aver fatto nessun danno alle piante, abbiamo ripreso il nostro cammino e quasi subito dopo, seguendo mio papà, abbiamo lasciato quella specie di largo sentiero, per andare in mezzo agli alberi. Entrati nella foresta, il canto delle piante era ancora più bello e forte.

Il profumo della foresta e di terra umida, me l'ho gustavo tutto e fino in fondo.

Ad ogni respiro.

Camminando, ho capito che si sentiva sempre più chiaro e sempre più vicino, come una voce fuori dal canto della foresta, un rumore non forte e molto delicato di acqua che scorreva.

In un piccolo spiazzo, da sotto una pianta, usciva dalla terra un bel filino di acqua.

Sembrava un filo di argento.

Dopo che toccava la terra e cominciava la sua discesa verso vale, ho visto che era cosi limpida e chiara da riuscire a vedere bene tutti i colori di tutte le cose sopra quali scorreva.

Mentre beveva, insegnandomi come dovevo fare, mio papà mi spiegava di bere piano, piano, perché era molto fresca, ma soprattutto per poter gustarla bene.

Appena toccata, mi è sembrato che le labbra, la lingua si erano subito congelate e stavano per rompersi.

Era così fredda che sentivo molto bene come scendeva dentro il mio corpo.

Cosi buona che l'avrei bevuta tutta.

Dopo aver bevuto, siamo usciti dalla foresta sullo stesso sentiero di dove eravamo entrati.

Appena fuori, mio papà, dopo aver alzato gli occhi verso il cielo, ha detto che era l'ora di prendere la via del ritorno, perché il sole, stava cominciando a prepararsi per "andare a dormire".

Arrivati d'avanti al condominio c'era tanta vita come sempre.

A tutti quelli che incontravo, piccoli e grandi, non vedevo l'ora di raccontare che ero già andato sulla collina dove giocavano i ragazzi grandi e con tanta fierezza, spiegavo anche le cose belle che ho visto, vissuto ed imparato.

Per dare subito la prova che era tutto vero.

I compiti, mi sono sembrati ancora più belli ed interessanti del solito.

Alla fine, ho anche avuto il tempo, ma soprattutto la voglia, di leggere i fogli su quali era scritto come dovevo organizzare l'assemblea di classe e quale era l'ordine del giorno di quella assemblea. Ho capito subito tutto, ma non volevo approfondire niente in quel momento. Non volevo disturbare quanto di bello ho avuto dalla vita in quel meraviglioso pomeriggio.

Volevo conservare tutto com'era.

Non potendo fermare il tempo, è arrivato anche il giorno in quale, dopo l'orario di scuola, ci siamo fermati nella nostra classe.

Era il giorno per l'assemblea dei pionieri.

Dopo aver dichiarata aperta l'assemblea, la mia maestra, mi ha chiamato d'avanti alla classe e mi ha dato la parola e farmi guidare tutto, come compagno comandante di classe.

Mentre stavo andando, lei ha preso la sua sedia che di solito stava dietro alla cattedra e si è messa nell'angolo più lontano.

Tra la lavagna e la finestra.

Sembrava quasi che non voleva intromettersi in quello che dovevamo fare.

Sembrava che non voleva far' parte.

Appena arrivato e girato verso i miei amici, in quei momenti, compagni pionieri, dentro ho cominciato a sentire cose mai sentite prima.

Ero già andato tante volte d'avanti alla classe, vicino alla lavagna.

Ogni volta per essere interrogato e non ho mai avuto paura, o problemi.

In quel momento era tutto diverso.

Era per la prima volta che guardavo in faccia, da quella posizione e nello stesso momento, tutti i miei colleghi.

Tutti i miei amici.

Erano tanti.

Vestiti tutti di bianco con la divisa dei pionieri, sembravano ancora di più.

I loro occhi e la loro attenzione che di solito erano sulla nostra maestra, in quei momenti, era su di me.

Le loro facce erano molto incuriosite, ma belle, tranquille e questo mi faceva stare anche a me più tranquillo.

Con la maestra non vicina, quasi assente e sapendo che mi ero preparato bene a casa da quei fogli che avevo letto più volte, abbastanza sicuro di me, ho cominciato a parlare.

Dopo le prime parole, ho visto che i miei compagni erano ancora più attenti a me e sembrava un gruppo ancora più unito, più compatto, soprattutto quando dicevo loro, “davo gli ordini”, su cosa e come dovevano fare, come la maestra compagna comandante aveva scritto.

Dal farli venire tutti d'avanti ai banchi vicino a me, prima i quattro comandanti di gruppo e poi uno alla volta, nell'ordine già deciso, tutti i compagni pionieri - ognuno dietro al suo comandante -, fino all'ingresso delle bandiere. Dal cantare l'inno nazionale del paese, all'ascoltare “il rapporto” di ogni comandante di gruppo al comandante della classe. Dal' ascoltare "in formazione", l’ordine del giorno della nostra assemblea, fino a “rompere le righe” e tornare in silenzio, ognuno al suo posto nel banco, per cominciare ad approfondire l'ordine del giorno.

Il primo punto di quel ordine del giorno, che stavamo già vivendo ed andava anche molto bene, era di imparare tutti insieme come si doveva svolgere un'assemblea.

Tutte le cose da fare.

Tutto il protocollo.

Il secondo era di spiegare che cos'era e come si doveva fare “I Piano Economico della classe”.

Quando a casa avevo letto questo punto, con tutte quelle parole nuove e che di solito non venivano usate dai bambini, subito non ho capito nulla. Dopo aver letto finché mi sono sentito sicuro di me, ho anche deciso senza dire o chiedere niente a nessuno, che nell'assemblea della classe, avrei spiegato tutte quelle cose ai miei amici, al modo mio.

Con parole che usavamo noi, per farmi capire bene da tutti.

Ero il loro comandante e mi sembrava giusto aiutarli a capire.

Mentre parlavo, lì dove sapevo di aver messo parole mie, ogni tanto guardavo la maestra per vedere se era d'accordo, oppure no, ma non riuscivo a capire niente.

Non diceva nulla e la sua faccia era sempre la stessa, come in quel giorno quando siamo diventati pionieri, ma questo non mi disturbava, anzi mi dava la sicurezza per andare avanti, perché non mi ha mai fermato.

Più andavo avanti, più mi sentivo sicuro e certo che spiegavo bene ai miei compagni.

In ognuno dei tre trimestri di scuola che si facevano in ogni anno scolastico, dovevamo raccogliere dei soldi, cioè, “il piano economico della nostra classe”, che poi venivano tutti versati nel “piano economico della nostra scuola”.

Tutti quei soldi, venivano usati per i lavori di qualsiasi tipo nella nostra scuola, che si facevano ogni anno nella vacanza grande, quella del' estate.

In un trimestre, ogni bambino doveva versare al proprio comandante di gruppo, nel momento in qui voleva, anche un po' alla volta, una cifra che a me sembrava molto piccola.

Con quei soldi si sarebbe potuto andare al cinema per neanche tre volte, oppure mangiare due dolci e mezzo nella confetteria, comperare la metà di uno dei palloni con qui giocavamo a calcio, oppure dieci dei gelati più piccoli che esistevano.

La cosa importante, era che quei soldi non potevano e non dovevano essere dati dai nostri genitori.

Ognuno di noi, per mettere insieme quella cifra, doveva dedicare del tempo.

Del suo tempo.

Ognuno doveva lavorare.

Un terzo della cifra, doveva essere ottenuto da residui di carta raccolti e portati in uno dei centri di raccolta nella città.

Andando nei vari centri, dovevamo avere dietro come segno di riconoscimento il nostro libretto di allievo, quello dove di solito si mettevano i voti per farli vedere e firmare dai genitori a casa.

Il responsabile del centro ci pagava la carta, ma la cosa che a me, sembrava molto più importante dei soldi, era la ricevuta che ci doveva dare, con il nostro nome e cognome, la quantità di carta portata, i soldi pagati, la data, la sua firma e soprattutto il timbro del centro di raccolta.

L'altro terzo della cifra si doveva ottenere, portando bottiglie, oppure barattoli di vetro vuoti e puliti. L'ultimo terzo, portando del ferro vecchio.

Ognuno di noi, appena aveva la cifra giusta, ma soprattutto le ricevute dei centri di raccolta, doveva dare tutto al proprio comandante di gruppo.

Il comandante, aveva il compito di creare la statistica del proprio gruppo. e poi, di consegnare tutto a me.

Dopo aver fatto la statistica della classe, controllando che la soma dei soldi, era la stessa con la somma scritta sulle ricevute, dovevo consegnare tutto alla compagna comandante dei pionieri per la scuola.

Più andavo avanti, più mi rendevo conto che stavo spiegando bene, perché vedevo le facce e gli occhi dei miei compagni molto attenti.

Nella nostra aula, c'era un silenzio profondo in qui si sentiva soltanto la mia voce.

Nessuno mi chiedeva nulla.

La maestra non stava più dritta sulla sedia, ma era piegata un po' in avanti, come facevo nel banco quando lei ci spiegava un qualcosa che mi interessava di più e volevo capire bene.

Ero così tranquillo, sereno e soddisfatto, che mentre parlavo sono anche riuscito a chiedermi perché quella maestra compagna comandante è stata cosi rigida ed aggressiva quando ci ha spiegato tutto, visto che io piccolo bambino, ci riuscivo a farlo da amico con tutti e le cose andavano molto bene.

Quando ho finito e ho chiesto se hanno capito, oppure se c'erano delle domande, la mia soddisfazione è stata ancora più grande.

Non avevano domande, ma prima uno, poi un altro, poi un po' tutti insieme, i miei amici hanno cominciato a dire ognuno un qualcosa, su tutte quelle novità.

Quando il rumore e diventato un po' troppo forte, è intervenuta la nostra maestra e con tanta tranquillità ci ha ricordato che dovevamo ancora chiudere l'assemblea.

Mentre cantavamo l'inno dei pionieri ed i due porta bandiere, portavano le bandiere della classe al loro posto, mi sentivo molto fiero di me stesso per come erano andate le cose.

Mi piaceva di nuovo essere pioniere ed il comandante della mia classe, poi, la ciliegina sulla torta l'ha messa la mia maestra.

Prima di andare via, mentre stava quasi prendendo la mia guancia nella sua mano destra, con la sua dolcezza mi stava dicendo che ero stato molto bravo a guidare ed a tenere tutti uniti i miei amici, i miei compagni, nella mia prima assemblea.

Anche se fuori pioveva e la giornata era molto grigia, fredda, con le nuvole molto basse e con poca luce, come tutte le giornate in pieno autunno sotto la montagna, dentro di me, c'erano delle immense esplosioni solari.

Una luce, fortissima e molto luminosa.

Impegnato come ero, con i miei compiti, con il lavoro di comandante della classe, con le grandi cose da fare insieme ai miei amici del condominio, mi è sembrato troppo presto quando un giorno mio papà mi ha detto che era arrivata l'ora di cominciare a preparare l'albero.

Tra non molto, doveva venire Babbo Natale e li serviva l'albero per poterci lasciare i regali.

Per la prima volta sono andato anch'io insieme ai miei genitori a comprare l'albero.

Erano tantissimi.

Tutti grandi e molto grandi ed intorno si sentiva un profumo di pino molto buono, molto forte.

Sulla neve bianca che copriva già tutto con uno strato molto spesso, le loro chiome verdi, erano come una macchia di vita nel gelo dell'inverno. Dopo aver guardato un po’, come tutta la gente che era lì per lo stesso motivo, mio papà ha scelto uno che piaceva a tutti noi. Lo ha legato bene, ma delicatamente, per non spezzare i rami, e ci siamo incamminati per tornare a casa.

Il mercato non era molto lontano e tornando, mio papà ha avuto il tempo di spiegarmi che prima di cominciare a preparalo, dovevamo tagliarlo alla base, perché forse era troppo alto e non ci stava dentro casa.

Finiti tutti i preparativi, finalmente lo abbiamo messo al suo posto e dopo averlo fissato bene nel suo piedistallo, abbiamo messo soltanto le luci.

A tutto il resto: cioccolatini, addobbi, regali, ci avrebbe pensato Babbo Natale.

Come sempre.

Preparare per la prima volta l'albero insieme al mio papà, dentro mi faceva sentire un po' più grande.

Ero molto felice.

Ancora di più di quello che ero già, perché quell'anno, Babbo Freddo, mi portava i patini da ghiaccio.

Ne ero sicuro.

I miei risultati nello studio erano molto buoni. Ho lavorato nel mio tempo libero anche per gli altri. Come comandante della classe, avevo aiutato alcuni dei miei amici che avevano bisogno. Ho aiutato nel fare i compiti, altri amici della mia classe, che andavano meno bene a scuola. Ero stato bravo a casa. Sono andato a comprare il pane per i nostri vicini anziani, ogni volta quando me lo hanno chiesto.

Ho fatto sapere in tempo il mio desiderio al Babbo Freddo, cioè, i patini e lui non aveva nessun motivo per non portarmeli.

Lavorando, mi sono ricordato molto bene, quello che pochi giorni prima avevo visto fare agli uomini che erano venuti a dare una mano ai miei genitori, per ammazzare e poi preparare il grosso maiale comperato per Natale ed anch'io, ho provato a fare nello stesso modo. Cioè, mentre stavamo facendo le ultime cose, mentre stavamo lavorando, ho cominciato a parlare con il mio papà e li ho fatto subito una domanda che volevo farli da un po' di tempo.

Per me, quello era il momento giusto.

Non riuscivo a capire perché in televisione, facevano vedere sempre e soltanto un “Babbo” che portava i regali, se in realtà, erano due “Babbi”.

A scuola, ci insegnavano quasi tutti i giorni e più di una volta al giorno, che i regali li portava il "Babbo Freddo".

A casa, i miei genitori e le altre persone grandi che conoscevo, le sentivo dire che da loro, come da noi, viene il "Babbo Natale".

Ho sempre pensato che ognuno ha il suo “Babbo”.

Babbo Freddo, soltanto per i piccoli che andavano ancora a scuola.

Babbo Natale, a casa, per tutti.

Per me andava bene.

Ero molto tranquillo e contento, ma volevo sapere di più, volevo capire meglio.

Subito nel momento dopo, quando per la prima volta di sempre, ho visto che il mio papà non ha risposto ad una mia domanda, le cose sono cambiate.

Non perché non mi ha risposto, ma perché l’ho visto diverso.

Era diventato meno sereno, meno sorridente, meno gioioso di come era l'attimo prima e dandomi una carezza sulla testa, mi ha detto di non avere fretta. Di non voler sapere troppo, in troppo poco tempo. Ogni cosa al suo tempo. Avrei capito tutto da solo ed al modo mio, quando ero pronto.

Era meglio così.

Il buon profumo di pino che si sentiva già forte nella camera e che mio papà mi ha fatto notare, in quel momento è diventato più interessante della confusione sui due Babbi.

Poi, quando una mattina mi sono svegliato e con il mio fratello abbiamo cominciato ad aprire i regali sotto l'albero, ho trovato i miei patini da ghiaccio.

In quel momento, non era molto importante se me li aveva portati Babbo Freddo, oppure Babbo Natale.

Neanche il colore degli scarponi che erano bianchi invece di essere neri, come li avevo chiesto, non contava più.

Finalmente avevo i miei patini.

In quella vacanza, con l'aiuto della tanta neve che era scesa, avrei imparato ad usarli bene.

Faceva abbastanza freddo e nei posti con tanta ombra, c'era ancora della neve, quando mio papà mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto vedere una partita di calcio dal vivo. Non ha finito di farmi la domanda, che la risposta era arrivata subito e chiara, mentre lo aspettavo già con le scarpe ai piedi, pronto per uscire di casa.

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