bannerbanner
Due. Dispari
Due. Dispari

Полная версия

Due. Dispari

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
Добавлена:
Настройки чтения
Размер шрифта
Высота строк
Поля
На страницу:
4 из 4

La cosa che più lo faceva imbestialire, in queste situazioni, era che gli improperi non subivano l’effetto balbuzie: gli uscivano dalla bocca chiari, netti, indiscutibili, a prescindere dall’intensità della pioggia.

Accese la radio e iniziò a tamburellare con i polpastrelli a ritmo di musica sul volante, procedendo, come suo solito, a velocità bassissima, incurante degli sguardi di disprezzo, talvolta accompagnati da insulti, degli autisti più giovani che lo sorpassavano.

Andare in macchina era uno dei pochi momenti in cui il suo cervello si staccava dai pensieri quotidiani, in una sorta di zona franca che gli permetteva di analizzare le situazioni da un punto di vista esterno e in più di un’occasione questo distacco era stato la chiave di volta per trovare la soluzione dei casi che seguiva.

Arrivò in breve tempo nel parcheggio di Calle Arenal, scese con calma dall’auto, comprò un quotidiano all’angolo della strada, se lo infilò sotto il braccio e, attraversando Plaza Allende, procedette a passo tranquillo verso l’ufficio, poco distante.

Sembrava che la chiesa di San Isidro e la locanda Hermosa si guardassero in cagnesco, ognuna affacciata sul proprio lato della piazza.

Nel frattempo aveva smesso di piovere e questo gli dava maggior tranquillità per il rientro al lavoro anche se, dopo tutti quegli anni, la balbuzie aveva smesso di costituire un problema insormontabile per lui.

Entrò in ufficio aprendo la porta di soppiatto, quasi non volesse farsi notare, ma il volume della radio che sparava You shook me all night long lo avrebbe comunque coperto.

Trovò lo Slavo intento ad armeggiare con il modem, accucciato a fianco del suo computer; aveva la testa incassata fra le spalle per non sbattere con la nuca contro il tavolo e, stando alla smorfia del volto, la posizione innaturale non doveva essere proprio comoda.

Si schiarì la voce, ma questo non servì a far sì che lo Slavo si rendesse conto del suo arrivo.

Optò allora per l’intervento radicale, spegnendo lo stereo proprio un attimo prima del ritornello.

Un gesto di una violenza inaudita, per un amante del rock come lui, che una volta, ai tempi dell’università, telefonò alla radio nazionale per lamentarsi con il deejay di aver malamente sfumato Sultans of Swing prima dell’assolo finale.

L’improvviso silenzio nell’ufficio ebbe l’effetto sperato, richiamando l’attenzione dello Slavo, che emerse da sotto al tavolo stirandosi la schiena, sempre con il modem in mano.

«Quindi? Non l’hai ancora riportato indietro quell’aggeggio?» attaccò Castillo, appendendo l’impermeabile verde all’attaccapanni posizionato di fianco all’entrata.

«Buongiorno ispettore, ben tornato» rispose sorridendo lo Slavo, tendendogli la mano, che l’ispettore strinse con il solito vigore accompagnato dal sorriso bonario che non lesinava mai agli amici.

«Per il rientro ci vuole subito un quiz, ragazzo».

Con una perfetta pausa finalizzata ad aumentare il climax della situazione, Castillo si fermò un attimo, senza distogliere lo sguardo dal suo interlocutore e scandì con voce roca i versi di un brano che lo riempiva di emozioni.

Take your time

Hurry up

The choice is yours

Don’t be late

Take a rest

As a friend

As an old memoria.

Lo Slavo ci mise un secondo per capire il brano.

«Ispettore, troppo facile! Come as you are, Nirvana».

«Lo so che è facile, ma non volevo avvelenarti il mio rientro con cose troppo complicate… pensa che ascoltavo questa canzone quando la signora Conchita era incinta di Carmen e ogni volta che la sento mi si drizzano i peli sulle braccia! Ah, la mia bambina! E ora lasciami leggere un attimo il giornale, tu intanto vedi di sistemare quel maledetto modem, ok?».

«D’accordo ispettore, d’accordo».

Lo Slavo si rimise al lavoro, accucciandosi sotto il tavolo del computer con un accenno di sorriso sulle labbra, e rendendosi conto di quanto il rientro dell’ispettore lo rallegrasse; poco dopo, si rimise all’ascolto di Radio Reloj, che trasmetteva buona musica rock senza interruzioni di assoli, come amava sottolineare Castillo.

Ma quella mattina, il deejay fece un’eccezione, tagliando bruscamente l’estasi di Slash nella versione dal vivo di Knocking on Heavens Door.

«Interrompiamo la programmazione, cari ascoltatori, per comunicare purtroppo una tragica notizia. Il parroco di Burgos, Padre Juan, è stato trovato morto questa mattina in Calle del Tesoro, a seguito di una caduta dal balcone dell’appartamento nel quale viveva. Non si hanno al momento elementi per valutare con precisione la dinamica dell’accaduto. Vi terremo aggiornati in tempo reale, come sempre».

La ripresa immediata dell’assolo provocò all’ispettore un brivido freddo che gli percorse la schiena come una scossa elettrica.

Appoggiò la testa sullo schienale della propria poltrona da ufficio e fissò lo sguardo sulle dense nuvole nel cielo, che garantivano di lì a breve nuovi acquazzoni.

Mentalmente, imprecò.

«Slavo, andiamo subito a vedere cosa è successo, ho voglia di muovermi e di far andare un po’ la testa su questo suicidio» sentenziò, infilandosi l’impermeabile e raccattando dal portaombrelli l’unico ombrellino rimasto.

«Sempre che di suicidio si tratti» pensò poi fra sé e sé, dubbioso.

Attraversarono piazza Allende di buon passo, Castillo davanti, lo Slavo un mezzo metro dietro, arrancando.

Camminava zoppicando in modo quasi impercettibile, ma Castillo, fine osservatore, non aveva perso quel dettaglio e si era più volte ripromesso di chiedergli quale ne fosse la causa, ma per un motivo o per l’altro non l’aveva mai fatto.

E anche in quel caso i suoi pensieri erano stati subito calamitati dalla notizia di Padre Juan, lasciando l’andatura sbilenca dell’amico in un lontano secondo piano.

Castillo era un vecchio conoscente del prete, con cui aveva condiviso gli anni dell’università, a San Josè e, nonostante le loro strade avessero poi seguito percorsi diversi, quasi divergenti, fra i due si era mantenuta una stima reciproca che portava l’ispettore a definire Padre Juan come il proprio unico amico in ambito clericale.

Era un parroco atipico, con una folta chioma di capelli ricci in perenne disordine e una barba poco curata.

Vestiva moderno, spesso in jeans e anfibi, tanto che in molti stentavano a credere che fosse veramente un ecclesiastico, ma forse proprio per quello nel paese era diventato un punto di riferimento imprescindibile per tutti, cattolici e non.

La sua capacità oratoria era proverbiale e le prediche domenicali costituivano un appuntamento importante per la comunità, a prescindere dal credo dei singoli.

Castillo e lo Slavo arrivarono al parcheggio di Calle Arenal in pochi minuti, non sufficienti però a evitare le prime gocce di pioggia sulle loro teste.

«G-guida tu, per favore, che io ho b-bisogno di riflettere» disse l’ispettore, lanciando le chiavi dell’Alfa allo Slavo e alzandosi il colletto dell’impermeabile per ripararsi dalle prime raffiche di vento che iniziavano a spazzare le strade.

Lo Slavo prese le chiavi al volo e senza dire una parola avviò il motore.

Le strade erano semideserte e, durante il breve viaggio per raggiungere la zona popolare di Calle del Tesoro, permasero assorti nei propri pensieri.

Arrivarono in meno di un quarto d’ora, parcheggiarono l’Alfa accostandola al marciapiede di fronte all’abitazione del prete e scesero dall’auto.

Castillo diede una rapida occhiata panoramica al contesto ambientale.

L’appartamento di Padre Juan era parte di un classico casermone di edilizia popolare, cinque piani di muri rossastri imbrattati quasi completamente da writers improvvisati, molti vetri delle finestre rotti, antenne paraboliche attaccate anche con lo scotch ai balconi e volumi delle televisioni abbondantemente fuori soglia rispetto alle regole non scritte di buon vicinato.

Da molte finestre sventolavano come fiacche bandiere vestiti di diverso tipo, tutti stesi senza cura all’aria aperta.

Castillo non poté evitare di pensare che a Padre Juan, evidentemente, piaceva vivere a stretto contatto con gli ultimi.

Le grida gioiose dei bambini che giocavano nel cortile interno si alternavano alle urla quasi rabbiose delle madri che li cercavano, invano, per chiamarli in casa e ripararsi dalla pioggia.

In terra, sul marciapiede, era rimasta una chiazza di sangue rappreso che i servizi ambientali di Burgos non avevano ancora pulito.

Confidavano nell’acquazzone pomeridiano, probabilmente.

«Un b-bel salto, non c’è che dire» disse Castillo, volgendosi verso lo Slavo, che permaneva ritto sul marciapiede, con lo sguardo diretto verso il basso parapetto del balcone del terzo piano e il giornale locale appoggiato a mo’ di visiera sulla fronte, per evitare le gocce negli occhi.

Lo Slavo non proferì parola.

Sapeva che doveva rispondere all’ispettore solo a fronte di precisa domanda, che non tardò ad arrivare.

«Che ne p-pensi?».

«Un suicidio di una persona a cui tutti volevano bene. Povero padre Juan. Chissà cosa gli è passato per la testa» rispose il ragazzo, ciondolando la testa e rendendosi immediatamente conto della banalità dell’affermazione.

L’ispettore alzò il sopracciglio sinistro, incrociò le braccia al petto e si volse lentamente verso di lui.

«Apparentemente sì. Ma r-ragioniamoci un attimo. Che motivo poteva avere un personaggio come Padre Juan per gettarsi dal t-terzo piano? Era un uomo stimato dalla comunità, sereno, per come lo conoscevo io. D’altronde, m-mi vien da dire, anche l’ipotesi che sia stato ucciso è difficilmente sostenibile: che nemici poteva avere una persona così? Lasciami c-chiamare la polizia per sentire se abbiano aperto un’indagine».

Lo Slavo quasi si stupì per la tranquillità con cui Castillo gli si era rivolto.

Solitamente, a fronte delle sue uscite scontate, l’ispettore reagiva con l’effetto cerino, infiammandosi rapidamente e, altrettanto rapidamente, spegnendosi.

Ma i giorni trascorsi a casa dovevano aver giovato alla sua tranquillità, o forse, più banalmente, non voleva iniziare la settimana con una discussione sterile.

Castillo estrasse il telefono dalla tasca laterale dell’impermeabile e compose il numero della centrale di polizia di San Josè.

Al terzo squillo rispose Herreros, un ex poliziotto della volante che qualche anno prima, a seguito di uno scontro a fuoco con un clan di narcotrafficanti, era rimasto paralizzato dalla vita in giù e ora deambulava in sedia a rotelle.

Anche lui di Burgos, e per questo fin da prima dell’ingresso in polizia stretto amico di Castillo, era un uomo di corporatura robusta e portava una folta barba nera, che alcuni dicevano fosse dettata dalla necessità di nascondere una profonda cicatrice da coltello, regalo di uno degli svariati scontri con la malavita centroamericana.

Non aveva famiglia e passava la maggior parte delle serate libere nelle birrerie della capitale a parlare con la gente che incontrava.

Era da sempre e da tutti conosciuto come un uomo buono, con occhi miti, sguardo burbero ma dolce, sempre puntato verso l’orizzonte, e la notizia del suo ferimento con conseguente paralisi aveva gettato i più nello sconforto.

Il posto di centralinista alla sede di polizia di San José gli era stato affidato in virtù della sua affabilità con la gente, che nonostante l’incidente era rimasta intatta.

E quel caso non fece eccezione.

«Polizia di San José, buongiorno. Come possiamo aiutarla?».

«Herreros c-ciao, sono Castillo. Come va?».

«Ciao Castillo! Che piacere sentirti, vecchio mio! Dimmi tutto».

«Chiamo perché vorrei s-sapere se qualcuno della volante sia passato in Calle del Tesoro questa m-mattina per il suicidio di P-padre Juan».

«Sento che piove, eh?».

Herreros sapeva di potersi permettersi quelle battute con l’amico, data la confidenza fra i due.

«Ho sentito anche io di Padre Juan, pover’anima... non so se qualcuno dei nostri sia intervenuto, lasciami verificare, ti richiamo io a breve».

«Ti ringrazio. A dopo, allora». «A dopo».

Castillo fece due passi avanti, scavalcando la chiazza di sangue sul marciapiede, e spinse con la punta delle dita il portone d’ingresso dello stabile che si aprì con un cigolio fastidioso.

Con un cenno del capo invitò lo Slavo a seguirlo.

Nell’androne del palazzo un neon traballante illuminava senza decisione le scale, che salivano sulla destra dell’ascensore.

Un foglio di carta appeso con lo scotch al muro e scritto con un pennarello rosso informava che l’ascensore era rotto.

Il gabbiotto della portineria, separato dal resto dell’androne da una sottile parete di vetro che si ergeva di fianco a una minuscola porta in legno, era desolatamente al buio.

Lo schienale mancante dell’unica sedia presente era il chiaro segno che, da tempo, nessuno dava il benvenuto ai condòmini da quello stanzino.

Castillo ne percepì il senso di abbandono, il disordine, il pesante spessore della polvere accumulata all’interno.

Passò oltre e si infilò per le scale esterne, seguito dallo Slavo e accompagnato dal ronzio del neon.

L’intenso odore di piscio sulle scale era rivoltante e l’ispettore si chiese come avesse potuto Padre Juan vivere per tanti anni in quel posto tanto sordido.

Salendo gli ultimi gradini a due a due, si ritrovò sul pianerottolo del terzo piano, quello dell’appartamento del prete, con le tempie pulsanti e una frequenza cardiaca tambureggiante.

«Tutto bene, ispettore?» chiese lo Slavo, guardandosi in giro alla ricerca di un interruttore per illuminare il corridoio.

«S-sì, più o meno» rispose Castillo, piegato sulle ginocchia alla ricerca di ossigeno.

Le giornate trascorse a letto non avevano certamente giovato ai suoi polmoni e si ripromise, per l’ennesima volta, di iniziare di lì a breve un programma di allenamento per recuperare almeno in parte la forma fisica perduta.

Lo Slavo, accesa la luce, esaminò tutte le porte del corridoio, leggendo il nome dell’inquilino sulla targhetta esposta, fino a che trovò quella giusta.

«Ci siamo, questa è la casa di Padre Juan» disse indicando una porta di color marrone scuro.

Castillo si limitò a un cenno d’assenso.

Lo Slavo estrasse dalla tasca anteriore dei suoi jeans slavati un passepartout di metallo, ma prima che potesse tentare di infilarlo nella serratura fu interrotto dalla voce tuonante dell’ispettore.

«P-Proviamo a suonare il campanello, prima di fare s-stupidaggini. Non abbiamo alcuna a-autorizzazione per entrare, e l’ultima cosa che voglio è essere accusato di effrazione nella casa di un morto. È chiaro?».

Gli occhi di Castillo sembravano due tizzoni di carbone pronti ad alimentare la fiamma del falò interno che gli si sprigionava nella pancia quando le persone cui voleva bene - e lo Slavo apparteneva a questa categoria - si perdevano in stupidaggini che non riusciva a concepire.

Sorpreso per la violenza del tono dell’ispettore, lo Slavo si congelò, con la chiave a pochi centimetri dalla serratura.

Con due passi sorprendentemente felini, considerato lo stato con cui aveva terminato la salita delle scalinate, Castillo si frappose fra lui e la porta.

« Freeze, flight or fight. Tu hai scelto freeze» sussurrò l’ispettore, accennando un sorriso che voleva smorzare la tensione che si era involontariamente venuta a creare.

Конец ознакомительного фрагмента.

Текст предоставлен ООО «ЛитРес».

Прочитайте эту книгу целиком, купив полную легальную версию на ЛитРес.

Безопасно оплатить книгу можно банковской картой Visa, MasterCard, Maestro, со счета мобильного телефона, с платежного терминала, в салоне МТС или Связной, через PayPal, WebMoney, Яндекс.Деньги, QIWI Кошелек, бонусными картами или другим удобным Вам способом.

Конец ознакомительного фрагмента
Купить и скачать всю книгу
На страницу:
4 из 4