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Due. Dispari
Ma Carmen sembrò non sentire e, poco a poco, sparì nella bolgia danzante, fagocitata dall’entusiasmo dei ragazzi festaioli.
***
Il taxi giunse nello spiazzo antistante al grande cancello della villa poco prima delle undici.
Il confuso andirivieni di persone nella zona dell’ingresso non era cessato, benché la maggior parte degli invitati fosse già stata dirottata verso il salone dei balli e nell’adiacente zona bar, dove l’alcool scorreva libero e, soprattutto, gratis.
La formula barra libre, nelle feste private, garantiva una percentuale di ubriachi ben superiore agli standard delle feste universitarie.
Un uomo di media corporatura scese dal taxi, pagò senza chiedere il resto e senza indugio si avvicinò al portone.
Sapeva, o forse temeva, che il suo arrivo sarebbe stato visto dai più come un fatto perlomeno anomalo, ma si sforzò di comportarsi nel modo più naturale possibile.
Indossava una maglietta di cotone azzurra con una piccola stella bianca sulla schiena, jeans scuri attillati e un paio di anfibi neri con le stringhe bianche.
In testa, portava un curioso cappellino rosso da baseball.
Nelly faticò non poco a nascondere la sorpresa.
«Padre Juan! Ma che piacere! Qual buon vento?».
Era certa di non averlo invitato, ci mancherebbe, invitare un prete a un party universitario in campagna.
Chissà com’era venuto a sapere della festa, e chissà cosa gli era scattato in testa per decidere di parteciparvi.
Nelly notò un velo d’imbarazzo nel suo interlocutore e per superare il momento d’impaccio preferì spiegargli subito la strada per arrivare al salone.
«Superi la fontana, segua il sentiero tenendo la destra, dopo poco troverà il posto, ok? Io arrivo fra pochissimo, sono già le undici, credo che gli invitati siano ormai tutti arrivati. E ho una voglia pazzesca di buttarmi in pista anch’io!».
La ragazza ammiccò senza alcuna malizia, ricevendo come risposta un sorriso sfuggente, solo accennato.
L’uomo si accese una sigaretta e s’incamminò, leggermente ingobbito, sul sentiero illuminato da piccole candele profumate.
L’arrivo al salone principale della festa fu per lui come un pugno dello stomaco.
Volume della musica altissimo.
Al centro della sala, ragazzi con capelli rasta che battevano violentemente tre bidoni di metallo amplificati, in completa simbiosi con il ritmo della musica sparata dai subwoofer a duemila watt, che sembrava volersi fare largo a gomitate fra le viscere di ognuno dei partecipanti.
Raggi di luce emanati dalla strobo che pendeva al centro del salone e profumi di dopobarba mescolati a odore di sudore nella calca.
Camerieri in tenuta apparentemente informale, ma tutti con cravattino bianco come segno distintivo, che giravano senza sosta nella sala brandendo su una mano tenuta alta, appena sopra le teste degli invitati, vassoi argentati colmi di alcolici e superalcolici, che venivano svuotati dopo meno di un minuto dalla preparazione.
Decise di restare ai margini della bolgia, appoggiato allo stipite della gigantesca porta finestra che in qualche meandro della sua memoria lo riportò a quanto studiato anni prima sulla concezione di architettura organica di Wright: garantiva la sostanziale continuità fra il grande salone e il parco antistante.
Osservando di sottecchi la situazione, notò che, ogni tanto, qualcuno usciva dal girone infernale per prendere un po’ d’aria nello sterminato parco della tenuta, dove capannelli di ragazzi e ragazze si formavano con sorprendente rapidità e con altrettanta velocità si scioglievano, sopraffatti dal richiamo della musica, troppo intenso per restare a lungo in giardino a chiacchierare.
Alzò gli occhi al cielo e notò come una lunga nuvola grigiastra stesse iniziando a velare la luna piena che, fino a quel momento, aveva dominato incontrastata la tiepida notte costaricana.
«Facciamoci un giretto» pensò, camminando a passi veloci verso la grande scalinata di marmo bianco che, partendo dal fondo del corridoio, si ergeva solenne alle spalle della sala da ballo.
La scalinata lo portò al primo piano, esattamente sopra il salone da ballo; nei momenti di maggior foga dei percussionisti, poteva sentire il pavimento vibrare.
Notò due porte di legno massiccio, una sulla destra e una sulla sinistra, mentre di fronte allo sbocco delle scale, attraversato il salone a base ovale, un’altra grande vetrata, del tutto simile a quella del pian terreno, permetteva di godersi una vista invidiabile sul giardino antistante.
La morbida moquette blu attutiva i suoi passi e questo gli diede la voglia di togliersi gli anfibi dai piedi, cosa che fece, proseguendo scalzo il suo giro esplorativo.
Attraversò la stanza e si godette per dieci buoni minuti il panorama, cullato dal buio, godendosi con calma la sigaretta accesa poco prima e divertendosi di tanto in tanto a osservare il fumo salire al soffitto bombato.
La nuvola sbiadita di qualche minuto prima, nel frattempo, stava completando la propria opera di copertura della luna.
Fu proprio durante uno di questi momenti di osservazione che, inaspettato, si verificò un black out; gli amplificatori del deejay erano degni di un concerto degli U2 e l’impianto elettrico dell’edificio non poteva essere dimensionato per reggere un simile carico.
Il silenzio dirompente lo colse di sorpresa, ma ciò non gli impedì di percepire una specie di rantolo proveniente da una delle stanze che si affacciavano sul salone.
Doveva essere un suono emesso da una ragazza, sembrava gutturale ma lui non riuscì a capire se si trattasse di un gemito di piacere o di dolore.
Decise di restare immobile, tendendo solo le orecchie e non potendo evitare di sentirsi come un setter che cerca affannosamente di localizzare le fonti dei suoni percepiti.
Il silenzio si fece avvolgente e, accompagnato dal buio pesto, gli provocò una sensazione di scomodità.
Recuperò gli anfibi, si avvicinò alla porta di legno massiccio da cui aveva sentito i rumori e, delicatamente, abbassò la maniglia di ottone, che non oppose resistenza.
Aprì la porta e si trovò in un’ampia stanza, nella quale, in un letto matrimoniale a baldacchino, due tipi in mutande sembravano accanirsi su una ragazza imbavagliata, nuda, legata per le mani alla testiera e per le caviglie alle gambe del letto, ai cui piedi erano ammucchiati i vestiti dei ragazzi.
Uno dei due era chinato sull’ombelico della sventurata, mentre l’altro sembrava accarezzarla con vigore sul viso.
Ebbe l’impressione che, più che carezze, si trattasse di tentativi per farle girare il viso e baciarla.
Lei resisteva, pur sembrando totalmente senza forze, emettendo gemiti confusi in evidente stato di shock.
La stanza era debolmente illuminata da candele sparse che emanavano un profumo di vaniglia intenso, che si mescolava con l’aroma della marijuana che altri due ragazzi stavano fumando, stravaccati su due vecchie poltrone rivestite di velluto verde.
La corrente tornò dopo pochi minuti, inondando di musica la stanza, nella quale nessuno sembrò accorgersi del suo ingresso.
I due giovani seminudi continuarono le molestie, fra risatine e sguardi d’intesa, mentre i due seduti, con gli occhi a mezz’asta, si passarono la canna battendosi un «cinque» con la mano libera.
Incrociò lo sguardo della ragazza ed ebbe l’impressione che lei fosse sul punto di piangere, benché la sua espressione fosse talmente vacua da risultare difficilmente intelligibile.
Non poté non ammirare il corpo nudo della giovane.
La sua pelle era bianchissima, le gambe muscolose.
I lunghi capelli lisci accarezzavano le spalle e le coprivano parzialmente il viso, scompigliati dalle mani dei due ragazzi sopra di lei.
Aspirò un ultimo tiro di sigaretta, gettò il mozzicone dalla finestra aperta e si sedette sul letto, accarezzandole le gambe.
Solo in quel momento i due che stavano fumando marijuana si resero conto del suo ingresso e, quasi stupiti da quell’approccio inatteso, iniziarono a battere a ritmo le mani, al grido di «Sesso, sesso!».
Gli altri due, senza fretta, si sfilarono le mutande, strusciandosi sulla ragazza a ritmo con i battiti di mani degli amici.
Togliendosi gli indumenti, si unì al coro degli stonati, iniziando ad accarezzare il corpo della malcapitata, dai cui occhi inumiditi iniziarono a scendere sottili lacrime salate.
Di fuori, la luna della notte costaricana si perse definitivamente, oscurata del tutto dalle nuvole.
L’orgia durò meno di dieci minuti ma, per lui, tanto bastò; l’eccitazione sfrenata, amplificata dall’effetto della marijuana, lo portò in brevissimo tempo a un orgasmo selvaggio e ansimante, che raggiunse mordendo le lenzuola sgualcite del letto a baldacchino e stringendo in estasi un lembo del cuscino.
Poi si rialzò, si sistemò i capelli, raccattò i vestiti dai piedi del letto, e fece un ultimo tiro di canna prima di uscire dalla stanza.
Stonato com’era, e con la vista offuscata, il salone del primo piano della villa gli sembrò girare su se stesso; ciò nonostante intravide nella penombra, nei pressi della grande scalinata, un ragazzo che sorreggeva la testa di un’amica, il cui corpo appariva abbandonato senza forze sulla moquette.
Si volse immediatamente dall’altra parte, per evitare impicci, sperando di non essere notato.
Ma il ragazzo, che appariva nervoso, gli chiese un aiuto, e i loro sguardi si incrociarono per un attimo fugace, impercettibile ma concreto, prima che lui, senza degnarlo di una risposta, scendesse le scale, diretto con andatura risoluta verso l’uscita della proprietà e passandosi di tanto in tanto le dita fra i capelli ancora sudati.
Si rese conto di aver dimenticato nella camera da letto il cappellino da baseball, che gli avrebbe fatto comodo per coprirsi maggiormente il volto, ma decise di non recuperarlo per evitare di intercettare nuovamente quel tipo e la sua bella addormentata, forse svenuta.
Attraversò il parco di fretta, con lo sguardo basso, facendo il possibile per evitare di incrociare gli sguardi della gente, arrivando al parcheggio con il cuore che batteva a ritmo superiore al solito, carico di adrenalina per l’esperienza di poco prima.
Numerosi taxi attendevano i reduci della festa; lui si infilò nel primo disponibile e, una volta entrato nell’abitacolo, si annusò le mani, impregnate di sesso della ragazza misto a marijuana, e finalmente si rilassò, sforzandosi di vergare nella propria memoria la memorabile orgia.
«Calle del Tesoro, grazie» disse con voce roca all’autista, rimanendo così, con gli occhi chiusi e le dita vicine alle narici, per qualche minuto, seduto sul sedile posteriore e cullato dagli echi della musica della festa, ormai lontano sottofondo di una serata unica, lasciandosi portare verso il suo destino.
Era atteso a un appuntamento che, a breve, gli avrebbe cambiato la vita, ma non lo poteva sapere.
***
Dal momento del black out, al piano terra la confusione aveva regnato sovrana.
Nelly si sgolava per chiedere ai partecipanti di restare tranquilli, assicurando che entro breve il guasto sarebbe stato sistemato.
Gli invitati, sull’onda dell’euforia della festa, non avevano perso l’occasione per intonare canti e balli, schiamazzando felici e incuranti dell’inconveniente.
Ronald ne aveva approfittato per divincolarsi dall’abbraccio verbalmente tentacolare di una sua ammiratrice che da quasi mezz’ora lo stava annoiando, impedendogli di cercare Carmen.
Si era fiondato nel giardino e aveva iniziato a chiamarla, tentando con scarso successo di sovrastare il volume dei cori dei festaioli ubriachi.
Aveva cercato di amplificare la propria voce aiutandosi con le mani, appoggiate a mo’ di megafono ai lati della bocca, ma i risultati non erano migliorati; aveva quindi provato a rintracciarla sul cellulare, dimenticandosi che era stato smarrito proprio quel pomeriggio.
Nel frattempo aveva iniziato a piovere, con grande soddisfazione dei reduci del ballo, sudati e stropicciati, fumati e bevuti, che approfittarono dell’acquazzone per una doccia rinfrescante a cielo aperto, improvvisando girotondi e canti da osteria, senza smettere di bere.
Era rientrato in casa e, attraversando il salone da ballo ormai semivuoto, si era diretto verso la scalinata di marmo bianco, che aveva salito di corsa, saltando i gradini a due a due, facendo attenzione a non inciampare per il buio.
Era arrivato nel grande salone con il tappeto blu scorgendo, appoggiata allo stipite di una porta, Carmen.
Le ginocchia sembravano non riuscire a reggere il suo peso; stringeva in mano una bottiglia vuota di vodka e, a occhi chiusi, cantava a squarciagola una canzone inglese che non era riuscito a decifrare.
Non si era accorta dell’arrivo dell’amico, che si era affrettato a prenderle con forza il capo fra le mani, chiamandola con foga.
«Carmen, Carmen! Sei ubriaca fradicia! Ti porto subito via, forza, non puoi restare qui in queste condizioni!».
Aveva parlato accavallando le parole, quasi balbettando, con una voce stridula: sotto stress, l’aplomb di Ronald, che tanto piaceva a Carmen, svaniva miseramente.
La ragazza si era immobilizzata per qualche secondo, cedendo poi tutt’a un tratto e abbandonandosi fra le braccia dell’amico, che la stese sul tappeto, incosciente.
Finalmente tornò la corrente e la musica, inaspettata ed esplosiva, riprese a pompare, contornata dalle grida ubriache dei ragazzi al piano terra.
Ronald lasciò per un attimo Carmen e corse da basso per recuperare un po’ d’acqua; entrando nel salone da ballo, ebbe l’impressione che i muri tremassero, la terra sobbalzasse, la sua testa fosse trafitta da una gelida lama di spada, ma trovò comunque la forza per attraversare la baraonda di ragazzi che avevano ripreso a ballare e raggiunse il barman, cui chiese una bottiglietta d’acqua fresca.
Risalì di corsa da Carmen, che permaneva stesa sul tappeto nell’angolo del salone, e vide in quel momento uscire da una stanza un uomo alto, riccio, con l’aria disordinata e l’aspetto trafelato.
Sembrava avesse davvero fretta, quell’uomo, ma era l’unico a cui Ronald potesse rivolgersi, in quel momento di necessità.
Gli chiese nervosamente un aiuto, incrociando il suo sguardo sfuggente, ma non ricevette alcuna risposta dal tipo, che scese di corsa le scale, dileguandosi nella ressa del piano terra.
«Stronzo!» gli gridò Ronald, pur con la voce coperta dal volume della musica, prima di rifocalizzare la propria attenzione su Carmen, versandole poco a poco l’acqua fresca sul viso e forzandola di tanto in tanto a berne qualche sorso.
La ragazza si svegliò tossendo, appoggiandosi con fatica sulle spalle dell’amico per riuscire drizzare la schiena, e cercando aria a pieni polmoni.
«Carmen, svegliati, ti prego!».
Le mani di Ronald tremavano per lo stato di tensione nel quale era entrato e la sua voce sembrava rimbombare sotto l’alto soffitto del salone, nonostante da sotto arrivassero gli echi della musica sparata dal dee-jay.
Carmen sbatté gli occhi in stato di semi-incoscienza, prima di inarcare d’un tratto la schiena e vomitare sul tappeto persiano.
Ronald fece un salto all’indietro per non sporcarsi, trattenendo a sua volta un conato e sforzandosi al contempo di non lasciarle la testa, che sembrava potersi staccare da un momento all’altro, tanto era privo di forze il corpo della ragazza.
«Portami a casa, Ronald. Per favore» fu la supplica di Carmen, masticata fra i denti, la fronte imperlata di sudore, i capelli zuppi e spettinati.
«Certo, Carmen. Ti porto subito».
Sollevò di peso l’amica, tenendola in braccio e sorreggendole la nuca, poi scese lentamente le scale, sentendo aumentare a ogni gradino il volume della musica proveniente da basso.
Attraversò il più rapidamente possibile il salone da ballo al piano terra e proseguì con fermezza per il sentiero nel parco, giungendo al parcheggio stanco e ansimante.
Fortunatamente, la Volvo che all’arrivo aveva impedito a Carmen di scendere era già ripartita.
Spalancò la portiera posteriore della Due Cavalli, adagiò delicatamente Carmen sul sedile bagnato - il tettuccio dell’auto era rimasto aperto per tutto il temporale - e si avviò verso la sua casa, chiedendole sottovoce di non sporcargli la macchina, nei limiti del possibile.
Da dietro, Carmen rispose affermativamente, con un semplice cenno del capo, prima di addormentarsi di colpo con un inaspettato accenno di sorriso sul volto, ebbra come mai lo era stata in vita sua.
Arrivata a destinazione, accompagnata fino alla soglia da Ronald, riuscì a malapena a entrare nell’appartamento, avvolta dal silenzio della notte, prima di crollare nel proprio letto ancora vestita.
Mar, china sui libri nella camera adiacente, non si accorse di nulla.
Si abbandonò a sogni turbolenti, di cui non sarebbe comunque rimasta traccia il giorno successivo.
Un’indagine complessa
I wish I was a sailor with someone who waited for me
I wish I was as fortunate as fortunate as me
I wish I was a messenger and all the news was good.
(Pearl Jam)
Lunedì.
Passati i giorni peggiori di quella fredda primavera costaricana, passò poco a poco anche il picco dell’influenza di Castillo.
Dopo il periodo di pit-stop, era finalmente pronto per tornare al lavoro, carico di energia e buoni propositi.
Quella mattina si svegliò presto, uscì fischiettando dalla doccia, si rasò rapidamente, si inondò di dopobarba Denim e decise di indossare, quasi per celebrare il rientro al lavoro (era la prima volta in tanti anni che si assentava per due settimane di fila) il vestito di velluto nero col panciotto che tanto lo faceva sembrare un vecchio giocatore di biliardo.
La cosa gli piaceva, considerato anche il fatto che lui, amante della goriziana, negli anni universitari aveva passato più tempo sul tavolo verde che sui libri del corso di giurisprudenza.
Per colazione la signora Conchita gli preparò un caffè doppio accompagnato da tre churros appena fritti e Castillo la ringraziò con un sonoro bacio sulla guancia.
Lei, come sempre, tentò di fingere disinteresse per quella casta manifestazione di affetto, ma fu tradita da un mal celato sorriso di soddisfazione.
Era una donna ancora affascinante, aveva occhi verdi incastonati in un viso ovale e lunga ciglia nere, gli zigomi alti e un sorriso perfetto.
I lunghi capelli neri le scendevano morbidi sulle spalle e qualche filo argenteo iniziava a manifestarsi qua e là; ciò non la preoccupava affatto e questo non faceva che aumentare il sentimento dell’ispettore Castillo, innamorato e orgoglioso della poca importanza che sua moglie attribuiva a mere questioni di apparenza.
«G-grazie, amore m-mio» disse faticosamente Castillo, affondando i denti nel churro più dorato e chiudendo gli occhi a ogni morso per sottolinearne la prelibatezza.
«Di nulla, caro» rispose la signora Conchita, dandogli le spalle e aprendo le ante della finestra della cucina, certa di trovare, sotto il cielo plumbeo, un acquazzone: suo marito, quando pioveva, balbettava.
E quando la pioggia era particolarmente intensa, come quella mattina, le parole proprio sembrava non volessero uscire dalla bocca.
In quei casi, la lingua di Castillo si intestardiva sul palato, insensibile agli sforzi di volontà dell’ispettore, con una sfumatura quasi sadica che gli provocava imbarazzi indesiderati, dai quali usciva solo chiudendo violentemente le fauci e serrando le mascelle per qualche secondo, nella maggior parte dei casi chiudendo al contempo anche gli occhi.
Gesto fastidioso, nella maggior parte dei casi, ma efficace.
Mar e Carmen entrarono quasi contemporaneamente in cucina, entrambe ancora stropicciate da una notte di poco sonno, una per motivi di studio, l’altra reduce da una festa universitaria quantomeno movimentata e innaffiata da troppo alcool.
Salutarono i genitori con un bacio sulla guancia solo accennato e si sedettero una di fronte all’altra.
Mar amava passarsi una mano fra capelli corti e neri, di un colore corvino che in molti stentavano a credere potesse essere naturale; aveva un sorriso solare baciato da una dentatura da pubblicità e due gemme verdi al posto degli occhi, chiara eredità cromosomica della madre.
Era la maggiore e fisicamente la differenza fra le due era lampante; a ventidue anni era già una donna, con le rotondità del seno e dei glutei sempre in bella evidenza, nei vestiti stretti che amava indossare.
Castillo sopportava non senza preoccupazioni quella situazione, per la poca fiducia che aprioristicamente nutriva nei confronti della nuova generazione, ma si sforzava di confortarsi pensando ai bei voti scolastici della figlia che, secondo i suoi insindacabili canoni, era una brava ragazza.
In Carmen erano invece ancora presenti i tratti dell’adolescenza e a vent’anni, diversamente da buona parte delle sue coetanee, non aveva ancora terminato lo sviluppo fisico.
I seni erano solo accennati, era di quasi dieci centimetri più bassa della sorella e pesava venti chili in meno.
Sul suo viso, dai lineamenti aspri enfatizzati dalla magrezza forse eccessiva, risaltavano curiose lentiggini concentrate soprattutto sulle gote; i capelli lunghi e mossi, non curati, contribuivano a creare il personaggio alternativo che le piaceva interpretare fuori dalle mura domestiche, in particolare nelle occasioni in cui riusciva ad accodarsi a Mar e alla sua compagnia.
«N-notte i-impegnativa, ragazze?» chiese Castillo, prima di sorseggiare il caffè nero bollente che, dopo i giorni d’influenza accompagnati da tristi tisane ristoratrici, gli sembrò più buono che mai.
La signora Conchita scaldò dell’acqua e v’immerse due bustine di the, sapendo che avrebbe fatto bene agli stomaci ingarbugliati delle figlie.
Il profumo dell’infuso pervase rapidamente la stanza e sembrò avere un effetto benefico immediato su Mar, che passò in pochi secondi dallo stato di catalessi nel quale si era presentata in cucina a quello di iperattività che tanta invidia provocava a Castillo, ormai lontano da quei ritmi che appartenevano al suo passato di brillante universitario.
Le domande della figlia maggiore lo investirono senza preavviso.
«Papà, torni al lavoro oggi? Hai voglia? Stai seguendo qualche caso? È successo qualcosa d’interessante in questi giorni? Hai visto come piove? Speriamo tu non debba parlare troppo! Mamma, questo the è buonissimo! Carmen, ti vuoi svegliare?» e così via.
Carmen, stringendo fra le mani la tazza fumante preparata dalla madre, rimase nel suo stato catatonico.
Pur incalzato dalle domande della figlia maggiore, l’ispettore Castillo abbassò la serranda del proprio ascolto e si estraniò dai successivi dieci minuti di conversazione - se di conversazione si poteva parlare, considerando che anche la signora Conchita in quelle situazioni preferiva rinunciare a intervenire nel flusso irrisolto di domande della figlia.
I pensieri iniziarono poco a poco a fluirgli liberi.
Si concentrò sui principali fatti di cronaca nera avvenuti durante il periodo passato a letto, sforzandosi di individuare quelli che potevano scaturire in nuovi lavori per lui e per lo Slavo.
Aveva bisogno di impegnare la testa, dopo i giorni a letto, e percepì una piacevole carica di adrenalina montargli poco a poco dallo stomaco.
Una raffica improvvisa di vento fece sbattere le ante della cucina.
«S-signore mie… v-vado al l-lavoro. Splendida g-giornata, eh? Ci vediamo questa s-sera».
S’infilò l’impermeabile verde, afferrò il primo ombrello che gli capitò a portata di mano e soffiò un bacio verso le sue donne, che ricambiarono il saluto, a parte Carmen, che rimase immobile con la tazza fra le mani.
L’Alfa 159 attendeva Castillo dall’altra parte della strada, fiammante come sempre, ma i giorni di sosta forzata durante la malattia non le avevano fatto bene: l’ispettore impiegò quasi dieci minuti per riavviare il motore - più del tempo che, camminando, avrebbe impiegato per arrivare in ufficio - fra imprecazioni violente e le risa di Mar che, dalla finestra, lo spiava da dietro le tende.