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Due. Dispari
Due. Dispari

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Due. Dispari

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Incarico consulenziale, con clausola di pagamento ex post, a caso risolto; il tutto senza alcuna formalizzazione, fra persone di fiducia ci si intende così e lui, dopotutto, era un ex collega che, dopo anni di onorato servizio, si era messo in proprio, ma aveva mantenuto tutti i contatti importanti che si era creato soprattutto nei tre anni in cui aveva ricoperto il ruolo di capo della polizia nazionale.

Era stato un periodo duro, con quel ruolo così importante, di un’intensità mai provata prima: tre anni di sfide professionali da responsabile della polizia della capitale.

Un sogno, da bambino.

Ma poi la signora Conchita era stata malamente investita sulle strisce pedonali di un incrocio a San José da un povero ubriaco che cercava nella bottiglia un’improbabile consolazione alle proprie pene d’amore, e i dottori avevano detto a Castillo che la moglie, operata d’urgenza, sarebbe dovuta rimanere a riposo per almeno sei mesi.

E Castillo aveva avuto l’occasione per rivalutare a freddo la propria situazione, riconsiderandola alla luce della nuova emergenza.

Pura vida era stato il tema ispiratore nei momenti chiave della sua esistenza.

Era un’espressione la cui semplicità era inversamente proporzionale alla rilevanza del messaggio che trasmetteva.

Si era reso conto che, in quel particolare momento, pura vida significava poter lavorare a cinque minuti da casa, poter affiancare anche tutti i giorni, se necessario, la signora Conchita nella faticosa riabilitazione, poter seguire da vicino la crescita delle figlie, al tempo in piena adolescenza.

Pura vida.

La decisione fu presto assunta: il poliziotto Castillo, capo del comando di polizia nazionale a San José, riconsegnò la stella argentata al responsabile dell’ufficio del personale, accompagnata da una lettera di dimissioni irrevocabili per motivi familiari; affittò un bilocale sfitto nel centro di Burgos, proprio di fianco alla locanda Hermosa, e vi attaccò all’ingresso una vecchia placca dorata recuperata nel solaio di casa, regalo di qualche Natale precedente dei colleghi del comando per la risoluzione di un intricato caso di sfruttamento della prostituzione minorile, sulla quale con un punteruolo d’acciaio cancellò, con lavoro certosino, la parola «Grazie», sovrascrivendola con «Isp.».

Gli sarebbe piaciuto completare l’opera, scrivendo per intero «Ispettore», ma la fatica esagerata che gli era costata incidere le prime tre lettere lo fece desistere.

«Isp. Castillo», recitava la nuova targa.

Artigianale, ma efficace.

Lui si sentì rinascere.

Il paese di Burgos aveva finalmente un ispettore privato e lui, ancora una volta, aveva seguito il suo cuore per una decisione importante.

Pura vida.

Una festa

The walls started shaking,

The earth was quaking,

My mind was aching.

(ACDC)

Carmen non stava nella pelle per l’eccitazione.

Era una splendida domenica di sole e rientrava da San José, dove il giorno precedente aveva superato con il massimo dei voti il suo primo esame universitario.

Si era iscritta alla facoltà di Filosofia più per non deludere suo padre che per reale convinzione, ma riconosceva che i primi mesi di corso si erano rivelati una piacevole sorpresa.

Le materie, tutto sommato, erano interessanti ma era soprattutto dalle persone conosciute che aveva tratto i giusti stimoli per non pentirsi della scelta.

Le tornavano spesso in mente le parole di mamma Conchita che, pur non avendo viaggiato molto nella sua vita, amava ripetere che gli aghi della bilancia per valutare le situazioni sono sempre le persone, a prescindere dalla bellezza dell’ambiente circostante.

Passò il viaggio di rientro verso casa sull’autobus che collegava San José a Burgos inviando messaggi alle amiche e postando selfie allegri su Facebook.

Scese alla fermata della stazione ferroviaria di Burgos e, per sfruttare al meglio il primo giorno di sole dopo più di due settimane di pioggia, decise di allungare il percorso a piedi verso casa, passeggiando in totale relax sul lungo fiume, accompagnata dalla musica dolce e coccolante di Bon Iver: l’album For Emma, forever ago le era stato consigliato da Ronald, uno dei nuovi amici della facoltà, un ragazzo di San Josè decisamente interessante, con il quale fin dall’inizio si era creata una particolare sintonia.

Sia verso l’album di Bon Iver, sia verso il nuovo amico Ronald, Carmen provava le medesime intriganti sensazioni: non aveva ancora terminato di scoprirne le diverse sfumature e tonalità, e in ogni occasione trovava diverse chiavi interpretative della musica e della persona, scoprendo nuove intense emozioni.

Con l’auricolare nelle orecchie e lo sguardo fisso sul display del telefono per verificare in tempo reale i like dei suoi amici ai precedenti post su Facebook, s’incamminò sul sentiero sterrato che affiancava il fiume, costeggiando il bosco di pini di Burgos, noto per la sua aria balsamica.

Respirò a pieni polmoni e, per meglio godersi il momento bucolico, decise di staccarsi dallo smartphone, riponendolo alla bell’e meglio nella tasca anteriore della borsa a tracolla, già zeppa di quaderni e libri universitari.

L’erba umida attutiva i suoi passi.

Adorava quella sensazione di passeggiata sulle nuvole, amplificata dall’impatto cromatico del tramonto rosa e dall’aria fresca che, dopo le giornate di pioggia, le accarezzava la pelle del viso.

Camminava spensierata, con spirito leggero e occhi sognanti, e forse proprio per questo non si accorse della caduta del telefono nel prato, proprio accanto a una panchina sulla quale sonnecchiava a pancia in su un uomo, con un cappello da baseball calato sugli occhi e coperto sull’addome e sulle gambe da un foglio di giornale aperto.

Arrivò a casa dopo una mezz’ora di passeggiata, durante la quale lasciò correre i suoi pensieri senza redini e senza meta, giusto in tempo per la cena; ma, accortasi dello smarrimento del telefono dopo aver sistemato la borsa in camera, non riuscì a gustarsi il picadillo di patate con carne, servito con la consueta maestria dalla signora Conchita.

Mangiò di corsa, quasi senza proferire parola; cosa non difficile, peraltro, quando al tavolo sedevano anche Mar e la signora Conchita, che potevano discutere amabilmente per ore anche del colore dell’erba.

Papà giaceva a letto con una brutta influenza, fatto più unico che raro.

Senza di lui, la cena era sempre meno allegra.

Terminato il picadillo, Carmen lo raggiunse in camera per sincerarsi delle sue condizioni di salute.

«Papà ciao, come stai?».

L’ispettore Castillo, voltato sul fianco verso la finestra da cui si intravedeva una luna pallida, velata da nubi variegate che vagavano indecise nel cielo scuro, fece non poca fatica per girarsi verso la figlia.

«Male, Carmen. Ho quasi quaranta di febbre e alla mia età, credimi, una temperatura così la senti, eccome».

«Influenza. Sai che il termine influenza deriva dalla forma latina medioevale influentia, che significa azione degli astri sul destino umano?».

L’ispettore sembrò riprendersi.

Sentire sua figlia citare antiche forme latine lo riempiva d’orgoglio.

«Beh… e chi te l’ha detto?» chiese in modo volutamente provocatorio, con il solo obiettivo di proseguire quella conversazione.

«Mi hai obbligata o no a iscrivermi a Filosofia?».

L’occhiolino strizzato da Carmen fece subito abbassare il livello di tensione al quale l’ispettore Castillo era arrivato pressoché istantaneamente: sulla scelta della facoltà universitaria aveva un nervo scoperto, frutto delle infinite discussioni avute al termine della scuola superiore con Carmen, che non voleva proseguire gli studi.

L’aveva avuta vinta lui, alla fine.

«E quindi la mia influenza è dovuta a una congiunzione astrale negativa. Bella questa. Ma io, più che alla stella Sirio o alla stella Polare - che sono poi le uniche due che conosco - credo al maledetto vento gelido di questi giorni! Dillo ai tuoi insegnanti di filosofia!».

La risata fragorosa di Carmen fu accompagnata da una carezza alla mano del padre.

«È la prima volta che ti vedo a letto ammalato, papà…».

«Prima o poi doveva succedere, sai, figlia mia? Ma non preoccuparti: con un po’ di riposo, tornerò più in forma di prima. Tu, piuttosto, raccontami della tua giornata».

Quella del racconto giornaliero era una consuetudine che l’ispettore Castillo era riuscito a mantenere con Carmen, mentre Mar se n’era liberata da un paio di anni, stanca di dover rendicontare ogni aspetto della propria vita al padre ispettore.

«Ieri ho passato il mio primo esame universitario, papà!».

La voce di Carmen squillò nella stanza, fiera e felice.

«Ma come?!» disse l’ispettore «Io non ne sapevo nulla! Che esame era? Quanto hai preso? Cosa ti hanno chiesto? Raccontami tutto, subito!».

«Ti volevo fare una sorpresa!» rispose la ragazza sorridendo, descrivendo poi con dovizia di dettagli l’esame di Storia della Filosofia, rendicontando puntualmente le domande ricevute, le precise risposte fornite, i commenti degli amici, la soddisfazione al momento della registrazione del voto.

Castillo rimase ad ascoltare con la bocca semiaperta e la mandibola sul punto di cascare da un momento all’altro.

Aveva la commozione facile, quando si trattava della figlia.

Ma l’umore della serata ebbe un cambio repentino quando Carmen, terminato il racconto della giornata universitaria, passò alla cronaca del rientro a casa.

«Purtroppo in serata è successa una brutta cosa, invece».

«E cioè?».

Questa volta Castillo si raddrizzò faticosamente sul letto, puntellandosi sui gomiti, con aria preoccupata.

«Ho perso il telefono».

«Uff… poteva andare peggio. Ma dov’è adesso, porco cane?».

Carmen non poté non notare un principio di moto nervoso nella mano di suo padre.

«Papà, se lo sapessi, non l’avrei perso. So per certo che quando sono scesa dall’autobus ce l’avevo con me…».

Castillo iniziò a sudare.

«E poi? Che hai fatto? Ma parli del telefono quello bello, che ti abbiamo regalato a Natale, che fa le foto e i video e ha il navigatore e tutte quelle cose che a me non servono ma che a te piacciono tanto?».

«Esatto, papà. Purtroppo devo averlo perso durante la camminata che ho fatto attraversando il parco. Era così una bella giornata, accipicchia...».

«Senti Carmen, torna indietro, rifai il percorso al contrario, magari lo trovi in terra, no? Sai quanto ci è costato quel telefono?».

«Papà, la zona del parco della stazione la conosci, non è il massimo, sono le nove passate e fuori fa buio!».

Castillo si rigirò verso la finestra per verificare.

Lo spicchio di luna calante confermò l’affermazione di Carmen.

L’oscurità avvolgeva Burgos e, dall’oscillare delle fronde dei pioppi che costeggiavano la strada di fronte alla camera dell’ispettore, si era anche alzato il vento.

«E va bene, Carmen, se proprio non te la senti, lascia stare. Ma non pensare che avrai un altro telefono così, con quello che ci è costato! E lo sai, vero, che…» ma Carmen non lo lasciò terminare, interrompendolo cantilenando «… che io e la mamma facciamo sempre tutto il possibile per voi ma non possiamo permetterci e non vogliamo comunque comprarvi ciò che non serve».

Gli sguardi di padre e figlia si incrociarono e Carmen percepì lo sforzo di suo padre per rimanere serio.

«Amen» aggiunse allora lei, dandogli il colpo di grazia e riuscendo a farlo sorridere, prima di sciogliersi in un abbraccio di saluto.

Tornò in cucina raccomandandogli un buon riposo, che non tardò più di dieci minuti ad arrivare: l’ispettore, febbricitante, si addormentò pesantemente.

«Tutto bene?» chiese distrattamente Mar, rimestando il caffè fumante che la signora Conchita aveva appena preparato.

La risposta di Carmen fu anticipata dallo squillo del telefono di casa.

Le ragazze si guardarono stupite: da quando tutti in famiglia avevano un cellulare, l’apparecchio fisso era di fatto utilizzato solo da lontani parenti anziani per gli auguri di Pasqua e di Natale.

La signora Conchita sollevò la cornetta sotto lo sguardo attento delle sorelle.

«Sì, un attimo, gliela chiamo subito. Buona serata a lei, signore».

Carmen e Mar si guardarono per un attimo con aria reciprocamente canzonatoria, fino a che la voce della signora Conchita interruppe quella scena da spaghetti western.

«Carmen, è per te. Il signor Ronald, se non ho capito male».

Carmen si alzò di scatto dalla sedia, urtando con il ginocchio la gamba del tavolo, che per il contraccolpo fece cadere la tazzina di caffè caldo addosso a Mar, solo parzialmente protetta dal tovagliolo.

Il commento acido della sorella maggior non si fece attendere.

«Vedi, basta la telefonata di uno sfigato qualsiasi per farla uscire di testa. Che sorella rintronata mi ritrovo!».

Carmen era già volata al telefono, strappandolo dalle mani della madre, eccitata per quella telefonata inaspettata.

Era la prima volta che Ronald la chiamava, fino a quel momento si erano semplicemente frequentati all’università scambiandosi qualche messaggio Whatsapp e qualche like su Facebook, ma nessuno dei due aveva mai chiamato l’altro.

«Ciao, Carmen, come va? Scusa il disturbo, ma ti ho mandato un messaggio importante un paio di ore fa e mi aspettavo una risposta… ho provato a cercarti sul cellulare ma suona sempre a vuoto, mi stavo quasi preoccupando. Alla fine mi sono deciso a chiamarti a casa, spero di non disturbare la tua famiglia, davvero…».

«Ciao Ronald! Stai tranquillo, nessun problema. Non mi è successo nulla di grave, ho solo perso lo smartphone nel parco tornando a casa questa sera, porco cane. Per questo non ti ho risposto. Di cosa si tratta? È una cosa urgente?».

«Amo dare accezioni edulcorate al concetto di urgente, spesso abusato nelle nostra società, fanciulla mia».

Erano queste le risposte di Ronald che tanto piacevano a Carmen, quasi degli aforismi che lasciavano l’interlocutore con la sensazione di dover accelerare i giri del proprio cervello per riuscire a seguire i percorsi mentali di quel tipo strano.

Perché strano, Ronald, lo era davvero.

Alto, magrissimo, l’aria perennemente trasandata con i capelli lisci raccolti in una lunga coda di cavallo, gli occhialini stile John Lennon e una barbetta incolta che cresceva in modo disordinato, tralasciando le guance e concentrandosi quasi esclusivamente su pizzo e basette.

Non passava inosservato, quel ragazzo.

Ronald riprese il filo della risposta.

«Nelly e Alejandra organizzano un party per questa notte, siamo invitati anche noi, hai voglia di venire?».

«Wow! Una festa questa sera? Bene! E dove lo fanno questo party?».

«I genitori di Nelly hanno una residenza estiva proprio a fianco del cimitero di Burgos, in campagna, ci si arriva in meno di venti minuti in macchina da casa tua».

«Mmm... in campagna? Questa sera? Senza cellulare? Con così poco preavviso? Con mio padre a letto con un’influenza mai vista?».

«Esatto. In campagna. Questa sera. Con il mio cellulare. Con un’ora di preavviso. Con tuo padre a letto con una banale influenza».

La lucidità di Ronald era invidiabile, in quei frangenti.

Carmen si sforzò di valutare la situazione nel più breve tempo possibile; tutto sommato, non le sembrava che esistessero particolari controindicazioni all’idea di partecipare alla festa e il fatto di essere accompagnata da Ronald rendeva il tutto ancora più stimolante.

Suo padre stava sicuramente già dormendo, debilitato dall’influenza; sua madre si sarebbe messa a letto di lì a poco, stanca per la giornata e Mar stava iniziando giusto in quel momento il ripasso finale, che sarebbe durato quasi tutta la notte, prima dell’esame del giorno successivo.

Via libera.

Rispose all’amico illuminandosi con uno splendido sorriso.

«Va bene, Ronald, ci sono. Mi passi a prendere tu?».

«Certo, ti passo a prendere alle dieci. Ti faccio uno squillo quando sono sotto casa».

«Chissà chi ti risponde! Ti ho detto che ho perso il cellulare, lascia stare, non chiamarmi neanche sul fisso che qui saranno già tutti a letto o sui libri a ripassare. Io alle dieci scendo. A dopo!».

«Ah certo, è vero, me n’ero dimenticato. Allora ti aspetto e basta, alla vecchia maniera, eh? A dopo!».

Click.

Click.

Incamminandosi verso la doccia, Carmen sentì un piacevole calore salirle dalla pancia.

***

Alle dieci in punto Carmen scese rapidamente le scale antistanti alla porta di casa, passandosi una mano fra i capelli per tentare in extremis di sistemarsi il ciuffo ribelle che non era riuscita a domare con il phon in casa.

Il vento serale aveva spazzato via le nubi e i loro rovesci del pomeriggio; l’aria era frizzante e la luna piena, che sembrava verniciata con pittura fosforescente, dominava solitaria il cielo.

Ronald attendeva seduto in macchina, una Due Cavalli arancione, con una grossa ammaccatura sul paraurti anteriore, che aveva da tempo superato i propri anni migliori.

Teneva il braccio sinistro appoggiato al finestrino abbassato e fumava un cigarillo scuro di scarsa qualità, il cui odore (no, non lo si poteva chiamare profumo) aveva dopo poche boccate saturato l’aria dell’abitacolo.

Indossava una camicia a quadri bianchi e blu, portata sopra una maglietta di cotone bianca con un’improbabile immagine di una bandiera strappata del Regno Unito, jeans strappati e, ai piedi, un paio di sneakers Converse verde militare.

Carmen lo baciò su entrambe le guance prima di salire in macchina e iniziare a tossire.

«Ma cos’è sto schifo di odore?» chiese con tono volutamente acido, edulcorandolo subito con un sorriso che mise in bella evidenza le sue fossette.

«Roba di famiglia, Carmen, roba di famiglia. Di quella buona. È un cigarillo di mio nonno, lui ne ha fumati venti al giorno dai dodici anni in avanti».

«E quanti anni ha adesso?».

«Adesso? È morto. A quarant’anni, di tumore ai polmoni. Non l’ho mai conosciuto».

Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Ronald aspirò profondamente una boccata di fumo.

«Scherzi, vero?» chiese Carmen quasi sottovoce.

«No, è vero che è morto, ma so per certo che ha vissuto felicemente, anche grazie a questi cigarillos che sono buonissimi... anzi, vuoi fare un tiro?».

«Non ci penso neanche, Ronald! Dai, parti che ho voglia di muovermi un po’. E smettila di prendermi in giro, somaro che non sei altro...». Ronald mise in moto, fece manovra per uscire dal parcheggio e partì con calma, accendendo lo stereo.

La musica dei Coldplay avvolse i pensieri leggeri e paralleli dei due ragazzi, che non parlarono molto, durante il viaggio, entrambi rapiti dalle poesie di Chris Martin e dalla sua voce a volte baritonale, a volte in falsetto.

In meno di un quarto d’ora di macchina arrivarono alla festa.

Nelly, la padrona di casa, attendeva gli invitati ciondolando con un candelabro in mano di fronte al grande cancello della proprietà, alle cui spalle si intravedeva il maestoso giardino della residenza di campagna della famiglia.

Nel centro del giardino, gli zampilli di un’antica fontana a base rotonda, illuminati dal basso da faretti colorati, si ergevano nel cielo, superando l’altezza della statua posta al centro della fontana stessa, un improbabile Eros malamente copiato da quello di Piccadilly Circus.

Nella zona esterna, antistante al cancello, si estendeva uno spiazzo verde che gli invitati già arrivati non avevano esitato a utilizzare come parcheggio, cosa che fece anche Ronald, entrando di muso nell’angusto spazio che restava fra una Clio amaranto e una Volvo Blu di grossa cilindrata.

«Grazie Ronald, ma così non riesco proprio a uscire» disse Carmen, dopo aver tentato di aprire la portiera con il massimo della delicatezza, per evitare di causare danni alla Volvo adiacente.

«Neanch’io,» ribatté lui «ma non devi preoccuparti: la Due Cavalli è un’auto a risorse infinite!».

Iniziò a girare una manovella che pendeva dal tettuccio, non distante dallo specchietto retrovisore, e piano piano fece decapottare la macchina.

«Grande! Questa sì che è un’auto moderna!» esclamò Carmen che, senza farsi pregare, saltò con agilità sui sedili posteriori e da questi, in un battibaleno, atterrò sul prato, imitata da Ronald.

«Ingresso alla festa in grande stile, eh?».

Nelly si era avvicinata, sempre con il candelabro acceso fra le mani per illuminare il prato, mostrando un sorriso radioso che si era costruita con cinque anni di cure ortodontiche e una cifra non indifferente sborsata da suo padre.

«Ciao Nelly! Splendida idea la festa di questa sera! Possiamo già entrare?» chiese Carmen, baciando su entrambe le guance l’amica e avviandosi verso il sentiero d’ingresso ancora prima della risposta.

«Certo, superate la fontana e tenete la destra. Seguite poi le luci, non potete sbagliare, ok?».

«No problem! Ho fatto cose più complicate nella mia vita» rispose Ronald con la consueta ironia.

S’incamminarono nel giardino seguendo, più che le luci, il suono della musica, sparata dal deejay a volume assordante; l’adiacenza al camposanto, in fin dei conti, garantiva che gli unici vicini della tenuta non si sarebbero mai potuti lamentare del rumore.

Misjudged your limits

Pushed you too far

Took you for granted

I thought that you needed me more more more!

« Boys don’t cry! Fantastica!».

L’emozione di Carmen sorprese Ronald, che per la musica aveva un semplice interesse superficiale.

«Ma come fai a riconoscere una canzone di trent’anni fa da due strofe orecchiate in sottofondo?» chiese guardandola dritta negli occhi, quasi a sottolineare il suo sentimento di sorpresa.

Carmen rispose con nonchalance, senza girarsi verso di lui.

«È una passione che mi ha trasmesso mio padre. Lui ha una cultura musicale sterminata e ha educato me e mia sorella a pane e rock, fin da piccole. E fin da piccole ci diceva titolo e autore di ogni brano e lo canticchiava nel suo inglese stentato che però ci permetteva di seguire il testo molto più facilmente che ascoltando le versioni originali, capisci?».

«Certo. La paragonerei a una forma di bilinguismo. Avete assorbito quasi inconsciamente la sua cultura musicale, come i bambini figli di genitori di differenti nazionalità imparano gratuitamente le lingue di papà e mamma, senza alcuno sforzo. Una sorta di apprendimento per osmosi, via».

«Più o meno...» rispose Carmen senza troppa convinzione, giusto un attimo prima di scorgere, poco dopo una leggera curvatura del sentiero sulla destra, l’ingresso al salone della festa.

La musica era alta e l’impianto diffondeva con particolare potenza i bassi, che sembravano rimbombare negli stomaci dei ragazzi.

Carmen e Ronald si buttarono in pista, illuminati da una strobo anni settanta che lanciava a intermittenza raggi fendenti di diverso colore, in pieno stile spade Jedi di Guerre Stellari.

Carmen prese al volo uno shot di vodka con limone appoggiato sul vassoio di un cameriere che si aggirava fra la folla e lo bevette in pochi sorsi veloci, senza smettere di ballare.

Le sembrò che la strobo aumentasse progressivamente la frequenza dei colpi Jedi e l’immagine le provocò un sorriso che, con quel po’ di carica aggiuntiva di vodka, divenne subito una risata.

Un altro cameriere con due baffetti che sembravano dipinti passò velocemente fra i ragazzi e Carmen non si lasciò sfuggire lo shot di tequila, che tracannò senza pensarci.

«Vacci piano, Carmen, che non sei abituata a bere» gridò Ronald, senza smettere di seguire il ritmo al centro della pista, cercando di superare con la voce i decibel della musica.

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