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Lo Senti Il Mio Cuore?
Lo Senti Il Mio Cuore?

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Lo Senti Il Mio Cuore?

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«Cosa c’è Mel?».

«Nulla, perché me lo chiedi?».

«Così. Sei molto strana».

«Sono fatta così, che cosa ci vuoi fare», risposi aprendo le braccia in segno di confermata rassegnazione al disegno della mia vita.

«Ti piacciono le donne?».

«Scusa?».

«Ti ho chiesto se ti piacciono le donne, se ami loro».

«Le donne? Ma non dire sciocchezze, dai!».

«In tanti anni non ci hai mai raccontato una tua esperienza sessuale vissuta con un uomo, mentre noi tutte lo abbiamo fatto. Okay, magari tu non l’hai ancora avuta ma forse vorresti averla e potresti confrontarti con noi. E invece tu che fai? Ti rinchiudi nel tuo guscio come una tartaruga!».

Come potevo dirle che la mia “prima volta” fu all’età di cinque anni e per opera di mio padre? Mi era stato detto che si sarebbe trattato di un gioco. Come potevo convincerla del fatto che quel gioco che lui aveva pensato per me e che consisteva nella spudorata esplorazione della mia intimità in realtà non mi era piaciuto affatto perché io a quell’età avrei preferito giocare con le bambole come faceva ogni altra bambina? Come potevo gridarle in faccia che se io non avessi giocato con lui in quel modo lui sarebbe andato a costringere mia madre a sottomettersi alla stessa pratica, allo stesso gioco ma con regole diverse e ben più severe, adatte agli adulti?

«E’ un discorso che non mi sento di affrontare, non c’è una particolare ragione. Forse non sono ancora pronta o forse non lo sarò mai. E’ così, e basta».

«Okay Mel, come vuoi. Stasera noi ragazze ci troviamo per un pigiama party. Ti va di unirti a noi?».

«Ci saranno degli uomini?».

«No».

«Si parlerà anche di sesso?».

«Non lo so, ma temo di si».

«Allora no, grazie. Non avrei nulla da dire e sarei solo un peso per tutti».

Quando rincasai quella sera stessa presi il disco di Elvis e lo gettai nel bidone dell’immondizia.

Sentii suonare il campanello, una volta e poi una seconda prima che io riuscissi a raggiungere la porta.

«Sto arrivando!», esclamai ad alta voce.

Quando aprii la porta mi trovai di fronte un poliziotto. Pioveva a dirotto. Il poliziotto aveva la divisa bagnata, nonostante fosse sceso dalla volante parcheggiata solo a pochi passi dalla porta di casa mia. Un suo collega sedeva ancora al posto di guida e guardava verso di noi, con il corpo proteso in avanti e gli occhi rivolti verso l’alto per inquadrare meglio la scena attraverso la cornice del finestrino.

«Buonasera agente», dissi sorpresa.

«Buonasera. Lei è la signorina Melanie Warren?».

«Si sono io agente, che succede?».

Ero spaventata e distratta dal lampeggiante della loro auto che muto abbagliava la mia vista. Disegnava ombre azzurre nella notte che si dispiegavano a terra e contro la facciata della casa. Erano ombre pulsanti, lente, come il battito del mio cuore.

«Sono l’agente Parker signorina. Potrei entrare per favore?», chiese mentre mi mostrava il distintivo con una sua foto di qualche anno prima. Lo lasciai entrare, avvicinai la porta ma senza chiuderla.

«E il suo collega là fuori?».

«Non si preoccupi, mi attenderà lì. Sono qui per suo padre, il signor Brad Warren».

Rimasi in silenzio, immobile, attendendo che l’uomo continuasse, che vuotasse il sacco. Mi feci mille domande, mi chiesi se l’orco avesse colpito ancora e chi avesse potuto essere la sua vittima. Pensai ad un suo coinvolgimento in qualche rissa. Temetti che fosse venuto a cercarmi, che avesse contattato la polizia e che tramite loro m’avesse trovato, per obbligarmi a ritornare a casa con lui.

«Cosa ha combinato mio padre?», esclamai mentre le mie mani chiuse a pugno stropicciavano nervosamente la stoffa della mia gonna rilasciando sudore freddo.

«E’ stato ucciso signorina Warren, mi dispiace. La dinamica dell’accaduto non ci è ancora chiara, il caso è aperto e tutte le investigazioni del caso sono in corso. E’ stato raggiunto da tre colpi di pistola, dei quali uno diretto alla testa gli è stato fatale. I vicini hanno sentito degli spari, tre colpi ravvicinati sparati da un’auto in corsa. Quando sono usciti hanno visto il corpo di suo padre riverso a terra, immerso in una pozza di sangue. Era privo di sensi ma ancora vivo. E’ morto poco dopo, durante il trasporto in ospedale. Sembrerebbe essere stata una vera esecuzione, un regolamento di conti».

Rimasi in silenzio, stranamente tranquilla, quasi rilassata. Non tradivo alcuna emozione. I miei occhi fissavano le mie gambe, senza vederle, il sudore freddo era scomparso, le mie mani si erano aperte lasciando finalmente libera la stoffa della gonna, il cuore era tornato a battere in modo regolare. Stavo bene, maledettamente bene. Mi pentii per quel sentimento di cruda cattiveria, mi pentii anche del mio stesso pentimento verso quel sentimento naturalmente espresso.

«Signorina, si sente bene?».

Annuii, tutto andava molto bene.

«Era ubriaco?».

«No. Non era ubriaco, il livello di alcol nel sangue era nella norma».

Lo guardai dritto negli occhi, non potevo credere a quella favoletta a lieto fine, dove tutti i cattivi diventano improvvisamente buoni e vivono il resto dei loro giorni felici e contenti. O forse mio padre era davvero cambiato dopo la mia scomparsa?

«Suo padre beveva? Si ubriacava spesso?».

Mentire! Negare il dolore del marchio rovente della menzogna impresso sulla pelle dell’anima! Imperativo!

«E’ capitato, come può capitare a tutti anche nelle migliori famiglie».

«Che rapporto c’era tra lei e suo padre?».

Attimi di palpabile insicurezza, ricerca di parole false e quindi assenti. La ricerca di una verità che non mi apparteneva. Desiderio di mettere per sempre la parola “fine” a tutto. Era l’occasione giusta, quella che stavo aspettando.

«Un rapporto normale quale può essere un qualunque rapporto tra un padre ex militare e una ragazza».

«Era molto rigido suo padre con lei?».

Non risposi, esitai. Lo guardai per un istante, quasi affrontandolo, poi cedetti e allontanai nuovamente lo sguardo da lui.

«Le ha mai fatto del male? L’ha mai picchiata?».

Mentire, ancora una volta! Perseverare nella vergogna per salvare la faccia!

«No…».

«No? Ne è davvero sicura?».

«Si, sono sicura agente…».

«Bene. Da quanto tempo ha lasciato la casa di suo padre?».

«Da cinque anni».

«Dal 1955 quindi», ripeté mentre prendeva nota sul suo taccuino.

«Posso chiederle il motivo?».

«Per farmi una mia vita agente! Avevo già ventisei anni, non avevo una casa, una famiglia tutta mia, un lavoro! Volevo la mia indipendenza, la mia autonomia. Ero stanca di farmi mantenere e di dover implorare la gente per avere qualche cosa per me, per i miei vizi e tutto il resto».

L’agente prendeva nota, impassibile e senza guardarmi, come un giornalista durante una intervista fatta al campione di baseball del momento. M’infastidiva terribilmente quel suo atteggiamento di normalità e sufficienza, quel compito di far domande alla gente che riusciva a portare a termine senza problemi.

«Prima di lasciare la sua vecchia casa, o anche negli anni seguenti, è rimasta in contatto con lui?».

«No», risposi. Ma mi pentii e quindi mi corressi subito, «O meglio si, ma raramente».

«Non sentivate il desiderio di incontrarvi, di parlarvi, di raccontarvi come trascorrevate le vostre giornate?».

«Ma lei è un agente o uno psicologo?», esclamai. Il mio livello di sopportazione era stato abbondantemente superato già da un po’ e un fiume più grosso dei suoi stessi argini non può continuare a contenere l’acqua facendola muovere lungo il suo percorso senza spargerla intorno e seminare morte e distruzione.

«Entrambi, in effetti. La prego Melanie, risponda alle mie domande. Ci saranno d’aiuto per chiudere il caso. Confido nella sua collaborazione anche se mi rendo perfettamente conto del momento difficile che lei sta vivendo».

Non aveva capito proprio nulla. Ma mi rassegnai come sempre e risposi alle sue domande, con distacco, come se davvero non me ne importasse nulla.

«Dal giorno in cui lasciai quella casa non ebbi più nulla da spartire con mio padre. Presi in mano la mia vita, le mie cose e me ne andai. Trovai questo piccolo appartamento dove ora vivo e un lavoro come infermiera in ospedale. Cominciai a diventare autonoma, tutto sembrava andare bene. Mio padre di contro poté riprendere in mano la sua esistenza, senza avere più una figlia tra i piedi da mantenere. Non ci cercavamo prima, quando ancora vivevo con lui, non ci siamo mai confrontati. Per quale motivo avremmo quindi dovuto farlo dopo la mia partenza?».

«Capisco. Prima di lasciare la casa, aveva mai notato qualche cosa che non andava in suo padre o che potesse avere qualche problema per qualcosa con qualcuno?».

«No, non che io sappia agente. No».

«Grazie Melanie. Vorrei chiederle qualche cosa riguardo sua madre ora, se non le dispiace».

In realtà mi dispiaceva eccome! Non volevo disturbare ancora mia madre, era stata disturbata già troppo a lungo durante la sua vita. Temetti le domande che avrebbe potuto farmi ma accettai di sottopormi anche a quell’interrogatorio.

«Sua madre Jane si è tolta la vita nel 1951. Agli atti ci risulta che fu proprio lei a ritrovare il corpo senza vita al suo rientro dal college. Conferma?».

«Si, confermo. Mia madre mi consegnò il mazzo delle chiavi di casa per la prima volta proprio quel mattino».

«Quindi è chiaro che sua madre aveva premeditato il suo gesto, non fu solo l’impulso di un momento».

«Si. Credo di si…».

Risposa sbagliata, Melanie!

«Si. Potrebbe parlarmi del rapporto che c’era tra lei e sua madre e tra sua madre e suo padre per favore?».

Scacco al re. La regina era stata mangiata. Non fiatai, provai a rinchiudermi nel mio guscio cercando la via più breve per entrarci. Ma il guscio era rimasto aperto e l’uomo mi vedeva, mi seguiva, mi brancava e mi tirava fuori. Ogni volta, non avevo scampo. Mentire, meglio continuare a mentire.

«Mia madre era malata. Non era una madre cattiva, al contrario! Ma era debole e la sua testa molto spesso l’abbandonava. La sentivo spesso piangere la notte ma io ero troppo piccola per aiutarla».

«Capisco. Agli atti risulta che si sentiva spesso suo padre gridare e che molto spesso rientrava in casa a tarda notte completamente ubriaco, è così?».

«Si, è capitato».

«E’ capitato, va bene. Questo ha influito secondo lei sul gesto estremo compiuto da sua madre?».

«Non lo so, ero troppo piccola, glie l’ho detto».

«Melanie, quando sua madre è morta lei aveva ventidue anni, non era piccola».

Si sbagliava. L’animo di mia madre era già morto stecchito parecchi anni prima, quello che restava e che io avevo trovato freddo e immobile immerso nel suo stesso sangue era solo l’involucro del suo fantasma.

«Agente, sono molto stanca ora», replicai cercando di imboccare l’unica via di fuga che mi rimaneva.

«Capisco Melanie, capisco. Le chiedo solo di rispondere ad un’ultima domanda per favore. Come sono continuati i rapporti tra lei e suo padre dopo la morte di sua madre, prima che lei lasciasse la casa?».

Nel letto, a suon di botte nel cuore della notte! Ecco com’erano continuati i nostri rapporti. Le bestie che andavano al macello ricevevano più rispetto di quanto non ne avessi ricevuto io, perché le bestie alla fine venivano uccise e mangiate, quindi scomparivano. Io invece restavo viva, ferita dentro e fuori, obbligata a riguardarmi ogni mattino allo specchio per rilevare i nuovi segni delle percosse, quelli che arricchivano la mia singolare collezione. Un’ultima bugia, ancora una, l’ultima. O forse no.

«Mio padre cambiò dopo quel giorno, divenne completamente assente. Si sentiva incapace di seguirmi perché pensava di aver totalmente fallito nel tentativo di salvare sua moglie. Me lo confidò una sera, mentre piangeva».

«Si spieghi meglio».

«Ciò che riportano gli atti è corretto. Mio padre tornava spesso tardi la notte e il più delle volte aveva bevuto molto. Gridava con mia madre, sfogava su di lei la rabbia per la sua incapacità di aiutarla, di amarla come avrebbe invece dovuto e voluto fare. Le urla risuonavano nella casa e si sentivano anche da fuori, i vicini mi guardavano sempre in modo strano il mattino seguente, come se mi compatissero, come se provassero pietà per me. Quando mia madre morì, mio padre firmò la sua resa. Forse anche lui morì in un certo senso quel giorno insieme a lei. Si staccò completamente da me, passava le sue giornate a leggere seduto in salotto».

E a pensare a come stuprarmi nuovamente quella stessa sera, pensai. Ma mi guardai bene dal lasciarmelo scappare.

«Quindi lei, sentendosi abbandonata, decise di andarsene via e di crearsi la sua vita».

«Si, è così agente».

Per la prima volta mi ritrovai a galla.

«Grazie Melanie. Mi scuso per tutte le domande inopportune che le ho fatto in un momento del genere ma come lei può ben immaginare erano necessarie. Ora il quadrò è più completo».

Mi guardò con affetto, io ricambiai con il mio. Un affetto, il mio, misto a frustrazione. Nascondevo la mia faccia imbrattata dalla menzogna tra le pieghe della mia codardia, là dove era rimasto ancora un po’ di spazio per immergersi completamente e scomparire dalla vista. Avevo tradito mia madre, ancora una volta. Come quel giorno in cui, protetta dal buio di una notte senza luna né stelle, me ne restavo ferma sulla porta della tana ad osservare come l’orco sbranava la sua preda. Come il giorno in cui uscii di casa fiera con le chiavi in mano per la prima volta, disinteressandomi di tutto il resto, soprattutto del motivo che aveva spinto mia madre a lasciarmele. Come tutti i giorni nei quali avrei voluto dire a mia madre che le volevo bene, ma non lo avevo fatto.

«Dovrebbe venire in centrale per completare il profilo e firmare la deposizione, poi le verrà richiesto di identificare la salma e tutto quanto necessario per la tumulazione».

«Va bene, lo farò domani mattina».

Mi sorrise e se ne andò. Rimasi ferma in piedi sulla porta aperta, l’aria satura di pioggia mi inumidiva il viso, confondendosi con le mie lacrime. Il suo collega accese il motore dell’auto, mi guardò e mi lanciò un cenno di saluto con la mano. Ricambiai. L’agente Parker aprì la portiera e incurante della doccia d’acqua che lo bagnava si fermò a guardarmi, a salutarmi. Mi disse qualche cosa che non capii, un tuono lontano aveva coperto il suono della sua voce. Il suo viso era disteso, quindi doveva avermi detto una cosa bella. Io annuii con il capo, mi girai e rientrai in casa chiudendo la porta dietro di me. La luce azzurra lampeggiante era svanito, la casa era ritornata quella di prima ed io con lei. Tornai in cucina, il piatto che avevo riscaldato era ormai freddo. Non avevo più fame, non avevo più sete, non avevo più nemmeno fiato nei polmoni. La gola era strozzata dal pianto che io avevo soffocato per tutto il tempo. “Perché piangere? E per chi?”. Non trovare una risposta a quella domanda demolì le mie barriere, annientò in un lampo tutte le mie difese. Era la mia resa incondizionata, quella in cuor mio tanto attesa. L’orco era morto e non mi avrebbe più fatto del male. Si, l’orco era finalmente morto, ucciso da un altro orco. Sarebbe andato a bruciare nel fuoco dell’inferno, non avrebbe mai più incontrato mia madre perché lei, ne ero sicura, dimorava nel paradiso degli uomini. Ora ne ero davvero certa. Morto, ucciso nell’unica sera in cui non si era ubriacato, che fatto curioso! Forse perché quella sera l’orco era rimasto solo un uomo, non aveva indossato il suo costume di scena, quello che lo rendeva forte, aggressivo. Aveva commesso un grave errore, una fatale leggerezza. Non avrebbe dovuto abbassare la guardia. Quando si sceglie il male come percorso di vita si deve imparare a guardarsi intorno, perché altro male si riceverà. Forse proprio l’uomo, stanco di recitare e stanco di tutto, aveva bruciato il suo costume. Forse voleva essere lui stesso ad uccidere l’orco per trasformarsi in un eroe, denudandosi tra la folla e ponendosi davanti a sui nemici gridando loro “Non mi vedete? Sono qui! Forza rammolliti, cosa aspettate ad ammazzarmi?”. Forse voleva sentire il dolore che si prova quando la pelle viene lacerata, quando il metallo squarcia le carni e ti penetra nel corpo. Forse voleva capire cosa si provava nel sentire il proprio sangue uscire dalle vene, i sensi venire a mancare mentre i suoni si fanno lontani e tutto diventa buio davanti agli occhi sbarrati che fissano l’asfalto, poco lontano dallo sterco lasciato da un cane randagio passato di lì qualche minuto prima. Si, forse era andata proprio così. Buttai il cibo nell’immondizia e andai a dormire. Feci un bel sogno quella notte, ma non lo ricordo.

Il giorno seguente espletai i miei doveri verso quell’uomo, mio padre, per l’ultima volta. Quando mi chiesero se avessi preferito per lui una sepoltura o la cremazione risposi senza esitazione. Lo feci cremare, gli diedi un assaggio di ciò che avrebbe patito in seguito, per l’eternità. Voletti assistere al macabro spettacolo. Vedere quella cassa di legno entrare nel forno per uscirne poi ridotta in cenere mi portò una certa macabra eccitazione. Non tradii le mie emozioni, non versai una sola lacrima. Forzai i miei sentimenti rinchiudendoli in un blocco di ghiaccio, il mio cuore arredato a cella frigorifera per l’occasione.

Tornai in possesso della casa e del poco denaro che era rimasto, quello non speso da mio padre per pagarsi l’alcol e gli altri suoi vizi. Posai a terra l’urna con le ceneri, in un posto nascosto perché non potesse essere vista. Mi fermai nella casa ad ascoltare i rumori del silenzio, osservando le impronte delle mani lasciate nella polvere non rimossa sopra i mobili. Sentivo le grida e i pianti di mia madre, quelli che io soffocavo nella notte cantandoci sopra una filastrocca abbracciata al mio pelouche. Sentivo i lamenti e i singhiozzi di pianto che seguivano le bufere. Guardando verso la poltrona dove sedeva mio padre potevo vedere un uomo solo, un anziano ormai privato della sua vita. In un angolo notai un bastone, lo immaginai tenuto stretto fra le sue mani mentre a stento camminava per la casa forse alla ricerca di qualcuno da picchiare. Qualcuno che ormai non c’era più. Un uomo costretto a sfogare la sua ira contro se stesso, fino al giorno della resa. Sopra una mensola trovai un portafogli, lo presi e lo aprii. Conteneva pochi spiccioli e una foto di mia madre che mi teneva in braccio. Sorrideva felice, ed io con lei. Girai la foto, riportava una data. Era il giorno del mio compleanno, quello in cui ricevetti il pelouche in regalo. Da quel giorno in avanti qualche cosa cambiò, la fiaba della famiglia felice lasciò il posto all’incubo di una esistenza privata del suo futuro. I miei vaghi e annebbiati ricordi non mi permisero mai di focalizzare quel momento, l’incidente di percorso che cambiò per sempre il corso delle cose e delle nostre esistenze. “Deve passarne di tempo prima che io diventi concime per le piante!”, gridava spesso mio padre nei suoi momenti di ira. Quel tempo era passato per lui come sarebbe passato per tutti. Era giunto il momento che si trasformasse in ciò che lui stesso aveva sempre rifiutato. Presi l’urna e ruppi il sigillo. La aprii e versai tutto il suo contenuto in una bacinella aggiungendo dell’acqua. Mescolai bene con un cucchiaio, disgustata. Uscii in giardino e versai quella poltiglia fangosa sulle radici delle piante, curiosa di vedere che cosa sarebbe accaduto. Ma rimasi delusa perché non accadde proprio nulla.

Restai a dormire nella casa quella notte, poi una seconda e una terza. Ma senza riuscire a chiudere occhio. Non potevo più stare lì dentro, non mi apparteneva più. Misi la casa in vendita e non dovetti attendere molto per liberarmene. Venne acquistata nel giro di poche settimane da una famiglia di tre persone, padre, madre e una bambina. Senza dir nulla augurai loro una vita migliore di quella che avevo avuto io lì dentro. Quando li salutai consegnai alla bambina il mio pelouche.

«Tieni piccola, è tutto per te».

«Oh, come è bello! Mamma, papà, guardate che cosa mi ha regalato la signora!», gridò entusiasta rivolgendosi ai genitori che, felici, mi sorrisero per ringraziarmi.

«Ti auguro tanto di non averne mai bisogno, piccola mia, ma ricorda che qualora succedesse qualche cosa di brutto lui ti proteggerà sempre, si prenderà cura di te!».

«Okay!».

L’accarezzai, li salutai e me ne andai.

3

Il giorno in cui chiusi la porta alle mie spalle mi colse impreparata. Ero una dilettante nella vita, un cumulo animato di carne ed ossa in fuga e alla ricerca di qualche cosa di non ben definito. Mancavo di dignità. Avanzando a passo spedito mi obbligai a non voltarmi per nessuna ragione al mondo, pensando che finalmente tutto sarebbe finito e che da quel momento in poi la mia vita sarebbe cambiata e sarebbe nata una nuova Melanie. Dieci passi, cento passi, poi duecento. Mi voltai, come presa alle spalle a tradimento da una mano invisibile. Riguardai la casa. La lanterna sulla facciata dondolava sospinta dal vento, il suo movimento mi ipnotizzava. Tornai in me e piansi. Mi arresi, mi rivoltai e finalmente me ne andai via. Il pianto aveva cancellato la paura, forse ciò che si diceva non era poi così vero. O forse lo era.

Il mio vagone di seconda classe non era affollato. C’erano solo una ragazza ed un uomo anziano a farmi compagnia. L’uomo leggeva indisturbato la sua copia del “Daily Telegraph” mentre la ragazza alternava il suo sguardo tra il finestrino e la mia faccia cercando di capire quale delle due immagini riuscisse a stupirla di più, quale fosse il panorama migliore da osservare per ingannare il tempo, quello più divertente. Masticava con insistenza una gomma con il viso immerso nel colletto rialzato della sua camicetta bianca a quadri rossi. Portava un paio di jeans piuttosto stretti per quell’epoca. Io li trovai piuttosto scomodi ad un primo sguardo, una delle poche volte che la guardai. Ma notai che su di lei stavano bene, valorizzavano il suo corpo quasi perfetto. Stavo lasciando una vita che non riconoscevo più, miglio dopo miglio stavo cercando di dimenticare il posto da dove venivo. E ci stavo riuscendo con non poca fatica, o almeno così credevo. Non avrei voluto che qualcuno mai visto prima mi facesse ripiombare nel mio passato con quella stupida domanda “Tu da dove vieni?” e la cui risposta di certo non era d’interesse per alcuno. Non la guardai più. Chiusi gli occhi e mi immersi nuovamente nella fitta nebbia dei miei pensieri, persa in un susseguirsi di immagini che disegnavano involontarie espressioni sul mio viso. Questo la incuriosì molto e la convinse a scegliere il mio viso come spettacolo da guardare, perché tutto sommato ciò che scorreva fuori dal finestrino era solo un paesaggio statico che lei aveva già visto più e più volte durante la sua vita. Me lo confidò qualche mese dopo quel nostro primo incontro in quel vagone, quando ormai eravamo diventate buone amiche. Entrò il controllore per chiederci di mostrargli i biglietti e fui costretta ad aprire gli occhi. Io la guardai, lei mi guardò. Iniziammo a parlare ma in modo diverso, senza un saluto, una domanda fuori posto, nulla del genere. Lei faceva delle assunzioni, come se davvero mi conoscesse da sempre. Mentre parlava continuava a masticare la gomma, come se niente fosse. Io non ero mai riuscita a fare due cose insieme senza rischiare di commettere errori, mentre per lei sembrava una cosa del tutto normale.

«Certo che tu sei una ragazza strana».

«Cosa le fa pensare che io sia strana?».

Si fermò un attimo per riflettere, poi riprese il discorso.

«Te ne stai lì tutta sola e zitta a pensare a cosa non si sa. In fine dei conti siamo su un treno».

«E quindi? Per il semplice fatto di trovarci su un treno lei ed io dovremmo metterci a parlare?».

Lei sembrò accusare il colpo e abbandonò per un attimo il gioco, senza però smettere di guardarmi. Non si era arresa, mi stava solo studiando, cercava di assestare la sua prossima mossa d’attacco. Staccai lo sguardo dal suo e finsi di guardare fuori dal finestrino, senza però osservare un punto preciso. Uno qualunque, scelto così a caso, sarebbe stato comunque perfetto, purché non fossero i suoi occhi.

«Che cosa vedi?».

«Mi scusi?».

«Ho chiesto che cosa vedi fuori dal finestrino».

«Sto guardando la campagna».

«Stai guardando la campagna, va bene. Ma che cosa vedi?».

«Se sto guardando la campagna, vedo la campagna!».

«Logico».

«Mi sembra persino stupido chiederlo, non le pare?».

«Ah, io non saprei. Il più delle volte ciò che si vede non è proprio quello che si sta guardando. O almeno per me è così».

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