bannerbanner
Lo Senti Il Mio Cuore?
Lo Senti Il Mio Cuore?

Полная версия

Lo Senti Il Mio Cuore?

Настройки чтения
Размер шрифта
Высота строк
Поля
На страницу:
2 из 5

Claire mi guardava, forse aspettava una replica da parte mia che alimentasse quella discussione che appariva sterile ai miei occhi anziani. Potevo fare di più per lei, potevo farle un regalo. Quindi la delusi, non replicai alla sfida, ma mi arresi spogliandomi totalmente davanti a lei.

«Claire, vieni con me in giardino. Ti racconterò una storia se ti fa piacere».

«Di cosa si tratta nonna? Non mi parlare di favole o cose del genere, non sono più una bambina e non sono nemmeno dell’umore adatto per ascoltare storielle alle quali non credo più da tanto tempo».

«Si, forse è una favola piccolina mia. Dici bene. E’ per questo motivo che quando ci ripenso e prendo coscienza di quanto sia stata importante per me, sento i brividi attraversarmi il corpo in lungo e in largo. Ti parlerò della mia vita se vorrai stare ad ascoltarmi, perché tu possa confrontarla con la tua e per scoprire che nonostante le nostre generazioni tra loro così distanti non siamo poi così diverse tu ed io».

Claire fissò Rose per un istante. Rose le sorrise invitandola a seguirmi. Era commossa, lei conosceva tutta la mia storia fin nei minimi dettagli, anche quelli più intimi, uno dei quali si era trasformato in lei stessa. Accettò il mio invito con un silente movimento del capo, gli occhi bassi fissavano il pavimento. Era il suo modo per dirmi grazie. Il sole al crepuscolo confondeva i colori del mondo, uniformandoli in un’unica macchia nera e piana, privata della sua profondità. Sedute sulla stessa panca dove noi ci fermammo ad ammirare il tramonto per tante primavere, assaporavamo il gusto di un mondo che ci si mostrava in due dimensioni, dai colori indefiniti e privi di dettagli, scontornati da tutto e per tutti, perché nessuno nutrisse mai alcun dubbio sulla sua bellezza. Seguivamo con lo sguardo fisso l’arcobaleno dei colori dipinto nel cielo, dal rosso intenso a ridosso degli alberi anneriti dal sole che scendeva fino al blu intenso generato dalla profondità dello spazio, così come appare agli occhi se viene guardato da quaggiù. Presto quei colori si sarebbero disciolti come un dipinto ad acquarello dimenticato ancora fresco sotto la pioggia. Il rosso avrebbe preso il sopravvento sulla terra per poi cedere spazio all’oscurità incalzante della notte. Una notte senza luna, una notte con tante stelle.

Claire si sdraiò appoggiando la sua testa sulle mie gambe. Muoveva gli occhi seguendo i tratti del cielo, per contare quelle stelle che già si potevano scorgere nonostante la luce del giorno non fosse stata ancora spenta del tutto. Forse cercava una stella in più nel cielo, quella che non aveva ancora visto e che non era ancora stata avvistata da nessun osservatorio, da nessun telescopio. Si dice che quando si muore si diventa stelle. E’ bello pensare che potrebbe essere davvero così. L’accarezzai e notai che stava piangendo, quindi iniziai il mio racconto.

2

Era il mattino del 13 Settembre 1964 quando salii sul treno che da Charleston, nel West Virginia, mi avrebbe condotta a Cleveland, nell’Ohio. Avevo trentacinque anni, avrei dovuto essere una donna matura a quell’età. Ero cresciuta da un punto di vista biologico, questo si. A tratti mi sentivo persino invecchiata. Fuggivo, da qualcosa o da qualcuno. Scappavo via da una esistenza sbagliata, da un cumulo di eventi e situazioni che non mi appartenevano più. Avevo sentito dire che si capisce davvero che ci si sta allontanando per sempre da un luogo se al momento della partenza non si sente il desiderio di voltarsi per dare un ultimo sguardo all’ultima fotografia scattata sul proprio passato. Per giorni mi allenai, figurando quel momento fondamentale per la mia ripartenza, lo sguardo fisso in avanti con il mio tempo trascorso che veniva cancellato da ogni passo. Se la vita fosse stata un nastro di raso, guardando indietro la mia avrei visto solo un pezzo di stoffa lacerato, sgualcito e privato del suo colore originale. Annodato qua e là per segnare le tappe principali della mia esistenza, perché non potessero più essere dimenticate per errore o per mia volontà. Le tappe della mia vita o quella delle persone che avevano sempre deciso tutto in mia vece, i tutori e garanti della mia esistenza, assistenti di una povera ragazza menomata incapace di intendere e di volere. Si erano appropriati della mia vita e in essa avevano cercato e trovato una possibilità di riscatto delle loro miserevoli esistenze. Non notavo alcuna differenza tra le mie scelte e le imposizioni che mi venivano fatte, nonostante io mi sforzassi continuamente di cercarle per convincermi che era giusto così, che mi avevano insegnato le cose giuste, che io ero davvero la loro figlia e quindi avevano tutto il diritto e il dovere di esercitare su di me il loro possesso. Anche quello estremo. Più volte sentii mia madre piangere di nascosto nella sua camera da letto quando mio padre non c’era. Singhiozzi e lacrime amare soffocate in un lembo di stoffa, quelle stesse lenzuola che l’avvolgevano durante le sue notti insonni, passate a ripensare alla sua esistenza, alla sua vita rubata da un uomo che non la trattava meglio di quanto non trattasse le sue stesse scarpe. Quelle almeno le lucidava, ogni tanto. E quando non lo faceva doveva pensarci mia madre, altrimenti erano botte. Molte sere lo sentii rincasare molto tardi, ubriaco fradicio, un barcollante rifiuto di vita annegata in botti di Gin e Whisky. Gridava, incurante dell’ora e della moglie che forse dormiva o forse era rimasta sveglia in pena per lui, timorosa di come l’avrebbe ritrovato o di cosa le avrebbe fatto quella notte. Mio padre la picchiava spesso. La picchiava se lei fingeva di dormire quando lui entrava in camera al buio come un fantasma, sbattendo la porta contro il muro nell’intento di mantenersi in piedi. La picchiava se lei gli andava incontro per aiutarlo a sorreggersi, a cambiarsi o a coricarsi anche vestito. Tutto andava bene, purché quella notte passasse in fretta. Ma con quella notte se ne andava anche un pezzo della sua vita. Mamma attendeva che l’orco si addormentasse, poi andava in bagno e con un panno inumidito di acqua fresca tamponava i segni delle percosse ricevute. Io la sentivo, sentivo i suoi singhiozzi di dolore per quei colpi ricevuti su un volto che ormai non mostrava più espressione, forma o colore. Poi mia madre veniva da me. Mi trovava spesso sveglia, con gli occhi sbarrati in preda al terrore per ciò che vedevo impresso sul suo viso ogni volta. Tra le braccia soffocavo il mio orsetto di pelouche, immaginando e desiderando che fosse mio padre la mia vittima di quella notte. Quell’orsetto era uno dei pochi regali che avevo ricevuto da lui, per un compleanno di tre anni prima, quando ancora era un uomo occasionalmente sano. Grazie a lui imparai ad odiare il prossimo, quando al contrario una bambina dovrebbe solo imparare ad amare. Mia madre mi rassicurava, mi diceva che tutto presto sarebbe finito e che non avevo nulla da temere perché papà era solo un po’ stanco, aveva avuto una giornata difficile e una vita complicata, aveva dovuto sopportare situazioni dolorose come quella volta in cui un suo compagno di camerata e suo miglior amico morì tra le sue braccia, dilaniato da una delle decine di migliaia di granate fatte esplodere durante la seconda guerra mondiale, durante la quale lui aveva combattuto. Me la raccontava sempre, non se la risparmiava mai. Quasi a voler giustificare il comportamento di quell’uomo che non riconosceva più in nessuno degli aspetti che tanti anni prima l’avevano attratta, facendola innamorare di lui, convincendola che era per lei la persona giusta e che l’avrebbe sposato. Ed io per compiacerla fingevo sempre di sentirla per la prima volta, me ne stavo lì raccolta nel mio lettino in silenzio e quando mia madre finiva il suo racconto di quella sera io mi avvicinavo a lei per abbracciarla e per accarezzare i segni delle percosse, per capire quanto potessero farle male. Lei invece interpretava quel semplice gesto da parte mia come un immenso gesto d’amore che la ripagava di tutto, che la convinceva sul fatto che tutto sommato valeva ancora la pena di continuare a vivere per qualcuno. Per me. Mi chiedeva scusa mentre lentamente lasciava la mia camera, solo più tardi capii che si stava scusando per avermi messa al mondo. Le labbra disegnavano sul suo volto martoriato un debole sorriso, per me rassicurante perché non capivo ancora, non capivo tutto. Ma sapevo! Sapevo che mia madre stava ritornando nella tana dell’orco. Nascondevo la mia testa sotto le coperte, tremante. Vedevo un orco affamato con sembianze umane, quelle di mio padre, che io imbruttivo ulteriormente con il potere della mia fantasia di bambina. L’orco banchettava con i resti della mia mamma, facendone a brandelli le carni con i suoi denti aguzzi. Erano immagini così reali che mi pareva di sentire l’odore del suo sangue versato nel mio letto. L’orco mi chiamava, mi ordinava di entrare nella sua tana e mi porgeva un pezzo del suo corpo, la sua mano. Quella stessa mano che pochi istanti prima mi aveva accarezzato ora era lì inanimata davanti agli occhi potenti della mia mente. Quell’incubo mi accompagnava spesso per tutta la notte e per tutto il giorno seguente, nonostante le ombre e gli spettri che abitavano il buio avessero ceduto il passaggio alla luce del giorno. Era una tortura destinata a perdurare per tutta la mia vita. Ma accadde un fatto che riuscì a spezzare quel malefico incantesimo. Tutto svanì a partire dal giorno in cui, tornando dal college, trovai mia madre morta nel bagno. Era immersa in un lago di sangue, con i polsi lacerati dal freddo profilo di acciaio di una lametta. L’orco era entrato dentro di lei e da dentro l’aveva combattuta, consumandola goccia dopo goccia. Ma il moncone di candela ormai disciolta non aveva ancora scoperto completamente il suo stoppino e la fiamma era ancora accesa, seppur flebile. Lei, piccola e semplice donna privata della sua identità, aveva trovato il modo per sconfiggere il suo orco. Lo aveva fatto a modo suo, proprio quel giorno. E fu la sua vittoria più grande. Quel mattino mia madre mi consegnò per la prima volta il suo mazzo delle chiavi di casa. Io avevo finalmente raggiunto il mio traguardo, la mia maturità, sentivo di aver conquistato la sua fiducia anche se senza alcun merito particolare. Ma a mia insaputa anche lei sentiva di aver raggiunto il suo. Avevo ventidue anni quando iniziai ad accudire l’orco, a soddisfare da sola ogni suo desiderio, anche quello più malato. Le sue mani, i suoi piedi e tutto il suo corpo erano ora dedicati a me, solo a me. Ero rimasta da sola. La mia compagna di sventura mi aveva abbandonata, ormai troppo stanca per proseguire con me in quel gioco. Stanca di tutto, stanca della vita. Tre lunghi anni passarono prima che finalmente riuscissi a liberarmi di lui, anni che mi lasciarono totalmente priva di ogni dignità, denudata come donna e come essere umano. Cercai un lavoro presso l’ospedale come infermiera e stranamente mi accettarono subito. Quella fu la mia prima vera salvezza. Buttai i ricordi della mia dura infanzia nel cassonetto dell’immondizia che stava proprio davanti casa e radunai i miei quattro stracci ancora buoni, quelli che non avevo mai tenuto addosso mentre lui mi violentava, che non puzzavano del suo sperma, del suo vomito intriso di alcol e del mio sangue. Trovai una casa in affitto fuori città, poco dignitosa ma ci si poteva vivere. In fin dei conti che cosa ne sapevo io della dignità? Pagai l’anticipo con i pochi soldi che ero riuscita a racimolare grazie a piccoli lavori che persone di buon cuore nel vicinato avevano voluto assegnarmi. Erano a conoscenza della mia condizione di orfana di madre suicida e della brutta situazione nella quale mi dovevo sicuramente trovare per via di un padre indegno e con il quale avevano già avuto malauguratamente a che fare ben più di una volta. Avevo conservato gelosamente quel denaro in una cassetta di metallo nascosta sotto un’asse del pavimento, in attesa che arrivasse per me il momento giusto per poterlo utilizzare. L’orco non mi aveva mai permesso di andare a lavorare, non avrebbe mai voluto che io guadagnassi dei soldi miei, che diventassi autonoma e magari forte quanto bastasse per trovare il coraggio di andare a denunciarlo alle autorità. Affermava di essere lui stesso l’autorità, io ero una cosa sua e tale sarei dovuta rimanere per tutta la vita o almeno fino a quando lui non avesse deciso di sbattermi fuori da casa sua a calci.

Quando tutto fu pronto attesi con impazienza l’arrivo della sera. Seguii ogni suo passo mentre si preparava per uscire, cercando di non tradire le mie emozioni. Ripensavo alle sere precedenti, a come mi sentivo nel vedere un padre uscire di casa e a ciò che sarebbe avvenuto dopo, quando al suo posto sarebbe stato un orco a rientrare nella tana. Volevo replicare tutto anche in quel momento, come avrebbe fatto un mimo durante uno dei suoi numeri, le espressioni del mio viso incluse. Si avvicinò alla porta, la aprì. Poi si fermò e si voltò verso di me.

«Non vai a letto?».

«Non ancora».

«Perché?».

«Perché non ho sonno. Andrò tra un po’».

«Come vuoi. Non ti stancare però. Lo sai che sto male se ti vedo stanca, mi fa sentire come un cattivo padre».

Il cuore mi si fermò per un istante. Se per me fosse giunta la morte in quel momento, l’avrei accettata a braccia aperte. Non risposi, lo guardai, poi accennai un timido “si” con il capo.

«Sono stato un padre cattivo Melanie?», continuò come se provasse gusto nel perseverare in quel sanguinoso interrogatorio, «Rispondimi cazzo! Sono stato un padre cattivo io?».

«No», risposi piangendo e scuotendo freneticamente il capo per confermare una risposta alla quale io, ovviamente, non credevo. Tremavo. Afferrò il mio orecchio torcendolo con forza, con una violenza tale che cominciai a pensare che quel giorno me lo avrebbe staccato dalla testa.

«Brava, molto bene. Ora va meglio, molto meglio. Sei sempre stata una brava bambina, molto brava. Devi sempre ubbidire al tuo papà. In fin dei conti sono io a mantenerti, così come ho mantenuto quella puttana di tua madre per una vita intera, come un parassita. E vedi di farti trovare a letto quando sarò tornato, o te la vedrai brutta, molto brutta! Siamo intesi?».

Lasciò il mio orecchio e uscì sbattendo la porta. Rimasi seduta per qualche istante per assicurarmi che non rientrasse in casa per prendere qualche cosa che aveva dimenticato, come altre volte era accaduto. Ricordo che una volta rientrò dopo un paio di minuti per prendere una pistola che teneva nascosta in un cassetto, già caricata con i proiettili e pronta all’uso. Fu la prima ed ultima volta che vidi quell’arma, non seppi mai che fine avesse fatto o se l’avesse utilizzata contro qualcuno. Lui si accorse che lo stavo guardando mentre infilava la pistola nella cinta dei pantaloni, ero ancora molto piccola. Mi guardò.

«Allora? Che cos’hai da guardare! Devi essere grata al Padre Eterno se non l’ho ancora usata contro di voi!».

Rimasi immobile, pietrificata, gli occhi sbarrati accompagnati dalla bocca aperta con un’espressione simile a quella di stupore che mostrai quando ricevetti il mio pelouche, ma senza l’ombra del sorriso. Mi meravigliai di come la sua bocca potesse portare su di se il nome di Dio. Avevo visto una pistola solo in alcuni cartelli prima d’allora, non c’era ancora la televisione quindi non sapevo a cosa potesse servire quell’oggetto e perché lui si fosse arrabbiato tanto nel vedersi scoperto in quel momento. Arrivò mia madre in mio soccorso.

«Vieni tesoro, vieni con me. Papà ha tante cose da fare, lui non è arrabbiato con te. Non devi pensarlo, va bene?».

«Va bene mammina».

Le sue mani erano posate aperte sulla mia bocca, tanto strette che a fatica riuscii a risponderle, quasi volesse bloccare una mia frase pronunciata fuori posto. O quasi a volermi soffocare, per risparmiarmi tutti i dolori che, ne era sicura, avrei dovuto patire negli anni. Le sue mani profumavano di sapone. Adoravo quel profumo perché sapeva di fiori, sapeva di mamma.

Non rientrò. In quei minuti d’attesa avevo ingannato il tempo assaporando le mie lacrime, cercando di ricordare in quale momento passato le avessi già sentite con lo stesso sapore. Avevo un ricco campionario di gusti tra i quali scegliere, ma in quel momento nessuno sembrava corrispondere ad uno già noto. Avevo scoperto un gusto nuovo, le mie lacrime si erano leggermente addolcite. Corsi in camera mia, raccolsi i miei soldi e li infilai nella valigia. In punta di piedi scesi le scale, aprii la porta e guardai fuori, timorosa di ritrovarmelo lì davanti agli occhi pronto a dirmi “Ti avevo avvisata, avresti dovuto darmi retta mocciosetta! Ora passerai un guaio!”. Ma la sua ombra non c’era, non ci sarebbe stata mai più. Un passo, due passi, tre passi. Sempre più veloci, quasi di corsa. Imboccai il vialetto sulla destra, vidi il signor Smith sulla porta di casa sua mentre sistemava i fiori nei vasi posti sugli scalini all’ingresso. I suoi figli Martin e Sandy gli giravano attorno come fanno le farfalle con un bel fiore. Lui scherzava con loro e la madre, che li aveva raggiunti sulla soglia di casa, li stava a guardare sorridente. Rallentai per osservare meglio quell’immagine di famigliola felice, quella che io non avevo mai avuto, per portarla via con me facendo finta che fosse anche un po’ la mia.

Nei cinque anni che seguirono mio padre non venne mai a cercarmi. Quantomeno nessuno mi disse mai che l’aveva fatto. Quando tornai svogliatamente a casa il giorno del suo funerale i vicini mi raccontarono che quando rientrò quella notte in cui me ne andai, ubriaco fradicio come sempre, cominciò a gridare mettendo in allarme l’intero vicinato. Nessuno mi aveva vista uscire, nessuno fu in grado di rispondere alle domande che sbiascicò con la sua bocca avvelenata dall’alcol. Mi dissero anche che tramite le sue losche conoscenze era venuto a sapere dove mi trovavo ma che aveva deciso di lasciarmi stare, di non perseguitarmi oltre, perché sapeva di non essere stato un buon padre e mi avrebbe fatto solo del male se fossi stata costretta a tronare da lui. Avevo deciso di andarmene, per lui andava bene così. Qualcuno affermò che aveva deciso di premiare il mio coraggio, la capacità che avevo dimostrato nell’essere riuscita a metterlo alle corde. Non credetti ad una sola delle parole che mi erano state dette in quel momento da gente che nemmeno mi conosceva, ma poi mi rassegnai al fatto che potessero anche essere vere, perché comunque non mi importava più nulla di lui. L’orco era morto, ucciso da un altro orco durante un regolamento di conti, forse.

Erano circa le nove di sera del 15 settembre 1960. Pioveva ormai a dirotto e senza sosta da tre giorni, ne avremmo avuto ancora per un po’. Ero da poco rincasata dal lavoro, spesso facevo dei turni un po’ più lunghi per guadagnare qualche soldo in più. In cinque anni avevo guadagnato abbastanza soldi per decidere di comprarmi finalmente una casa tutta mia, aiutandomi con un piccolo prestito della banca. La mia vita era cambiata, stavo finalmente cominciando a trovare una mia identità. Debole forse, ma pur sempre mia. Il lavoro mi era stato molto d’aiuto in tutto questo, mi aveva permesso di rattoppare le ferite accumulate negli anni che mantenevano però il loro dolore sotto le numerose cicatrici sparse su tutto il mio corpo. Un dolore diffuso, più sopportabile seppur continuo ma che non lasciava spazio al riposo dell’anima. Riscaldai il mio precotto nel forno e mi sedetti al tavolo in attesa che venisse pronto mentre le mani reggevano il peso della mia testa.

La televisione era disponibile da pochi anni ma solo le famiglie più ricche potevano permettersi di comprarne e mantenerne una. Non di certo io. Quelle poche volte che veniva trasmesso qualcosa di interessante mi fermavo fuori dalle vetrine dei negozi di elettrodomestici dove si radunavano altri che come me non potevano averne una. Ma giunto l’orario di chiusura del negozio il solito omino grassoccio con i baffi si avvinava a noi, protetto dalla vetrina, per annunciare allargando le braccia sconsolato che “le trasmissioni per quel giorno erano finite”, o che l’indomani ci sarebbero state “delle ottime offerte in negozio alle quali non avremmo potuto rinunciare per portarci finalmente a casa il nostro primo splendido apparecchio televisivo”. Ce l’aveva scritte sul volto queste parole, non aveva bisogno di pronunciarle. Provai a rifugiarmi anche nei bar, quelli che mettevano un televisore a disposizione dei loro clienti, soprattutto durante i mesi freddi invernali o nelle serate di pioggia. Ma l’odore dei vapori dell’alcol mi arrivava subito alla testa, mi faceva ricordare mio padre e mi costringeva a fuggire via come un detenuto alla ricerca della sua strada verso la libertà.

In casa avevo una vecchia radio che accendevo ogni tanto, quando mi prendeva la voglia di sentire una voce che fosse sufficientemente distante e che non richiedesse una mia risposta, una interazione con me. L’avevo trovata su una bancherella dell’usato, in vendita per pochi dollari. Era guasta ma il venditore mi aveva assicurato che si sarebbe potuta facilmente sistemare. La comprai non completamente convinta di aver fatto un buon affare e un amico si offrì per ripararmela gratis. Si chiamava Ryan. Quel ragazzo fu l’unico uomo capace di regalarmi un po’ di sana e incondizionata amicizia, quella di cui avevo maledettamente bisogno, che non avevo mai avuto la fortuna di assaggiare in tutta la mia vita. Anche nei suoi confronti rimanevo piuttosto chiusa sotto diversi aspetti, ma mentre gli altri a fronte di ciò si sentivano in obbligo di sondare le mie debolezze, lui le rispettava. Ryan non mi chiese mai nulla che riguardasse il mio passato, non giudicò mai il bene o il male del mio operato e le poche scelte che avevo fatto da quando avevo cominciato a vivere come una donna libera. Capiva quando avevo voglia di parlare perché riversavo tutto come un fiume in piena e lui si lasciava travolgere. E accettava la mia fragilità espressa attraverso i silenzi, quando preferivo restare da sola a contemplare una foglia di insalata posata sul tavolo della cucina. Quando vedeva arrivare uno di questi miei frequenti momenti, lui mi faceva il gesto del saluto militare e si allontanava da me a passo di marcia, senza parlare, chiudendo dolcemente la porta dietro di sé. Mi faceva ridere, mi faceva stare bene. Come mai avevo riso ed ero stata bene prima nella mia vita. Provavo qualche cosa per lui, un sentimento strano che non riuscivo a riconoscere, a dargli un nome. Quando un giorno fummo l’uno di fronte all’altra in procinto di baciarci, lo allontanai con forza da me. Avevo avuto paura. Allora non capii di cosa ma sapevo essere pura paura. Tuttavia quel mio gesto immaturo non lo scalfì e continuò a comportarsi sempre allo stesso modo nei miei confronti. Un giorno mi disse che la sua famiglia si stava trasferendo per via del lavoro del padre e di alcune questioni che avrebbe dovuto affrontare. Non mi disse mai dove sarebbe andato a vivere, per una pura questione di sicurezza. Quindi ci saremmo dovuti allontanare per un po’ di tempo e io non avrei potuto raggiungerlo in alcun modo. Ma non dovevo temere perché lui mi avrebbe cercata, saremmo rimasti in contatto e si sarebbe fatto vivo non appena le acque si fossero calmate. “Te lo prometto Melanie. Dammi la tua mano, posala qui e ascolta. Lo senti il mio cuore?” furono le ultime parole che gli sentii pronunciare mentre posava la mia mano sul suo petto, prima del suo ultimo saluto militare, della sua ultima marcia che annunciava la sua partenza. Non risposi a quelle sue parole con altre parole mie che avrei invece voluto dire e che mi si annodarono nella gola soffocata dal pianto negandomi il respiro.

Attraverso quella radio che mi ricordava la sua presenza nella mia vita io subivo passivamente le trasmissioni, i notiziari, i bollettini metereologici, le canzoni dei Beatles, di Hendrix, di Armstrong e dei Rolling Stones. Da qualche anno un giovanotto si era presentato sul palcoscenico musicale. Si chiamava Elvis Presley, un ragazzo belloccio che faceva impazzire tutte le ragazze quando cantava con quei suoi movimenti pelvici regalati durante le sue esibizioni. Le giovani non si preoccupavano di impegnare buona parte dei loro stipendi per acquistare i suoi dischi o assistere ai suoi animati concerti, sognando magari di buttarsi nel vuoto ed essere raccolte in volo dalle sue forti braccia. La febbre per il bel ragazzo di Memphis colpì anche me. In un negozio trovai un suo disco e lo comprai anche se a casa non possedevo un giradischi. Lo lasciai in casa in bella vista per mesi a prender polvere. Lo adoravo in silenzio, mi capitava di fermarmi anche diversi minuti a guardarlo e tutte le volte che mi veniva consegnato lo stipendio mi prendeva la voglia di comprare un giradischi per poterlo finalmente ascoltare. Per le ragazze dell’età di ventotto anni, come la mia, Elvis era l’argomento che monopolizzava i discorsi tra colleghe, le pause pranzo, ogni momento della giornata. Sarebbe stato un buon partito sotto ogni punto di vista. Le mie colleghe, “le altre” come spesso le chiamavo, descrivevano fin troppo in dettaglio i pensieri erotici che avevano rivolto verso quel ragazzo. Alcune di loro confessarono che non avrebbero avuto nessun problema a lasciare marito e figli se il “bel ragazzo” avesse dato loro anche la minima speranza. Io non capivo fino in fondo quei discorsi, non ero in grado di misurare la forza della sorgente di energia che li alimentava. Ma quando si parlava di sesso io provavo una sensazione di crudo disagio, sentivo il ribrezzo nascere e crescere dentro di me, dalle mie viscere, attanagliante come due mani cinte intorno al collo e intente a soffocarmi. Il sesso mi ricordava l’orco, la mia sofferenza, il dolore e tutte le umiliazioni che avevo dovuto subire, il sapore dello sperma di un uomo malato sparso senza controllo sul mio giovane ventre, sulla mia candida pelle che avrebbe dovuto conoscere solo purezza e pudore, del mio sangue e di quello di mia madre versato ogni giorno sulle bianche lenzuola di un letto sempre sfatto. Le mie conoscenti si accorsero che qualcosa non andava in me. Alcune di loro scelsero di non impicciarsi, qualcun’altra invece lo fece, con l’acerbo pretesto di offrirmi un aiuto prezioso.

На страницу:
2 из 5