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La Macchina Per Scrivere
Ora Basta, devo trovare il modo di dormire un po’ perché sono davvero distrutto. Non so se sto scrivendo una storia interessante, però in fondo sono contento. Bella o brutta che sia, non pensavo che ci sarei riuscito. Sono sicuro che quando mostrerò a Sissi il romanzo finito, mi dirà che è orgogliosa di me. Ma prima di incontrarla devo anche decidermi a darmi una bella sistemata, negli ultimi giorni mi sono lasciato andare un po’ troppo e adesso sembro proprio un disgraziato.
CAPITOLO V
UN BRUTTO RISVEGLIO
Franco aveva amato Silvia fin dalla prima volta che l’aveva incontrata, davanti a quel banchetto di libri usati dove lavorava in attesa di laurearsi in lettere. Avevano scoperto di avere così tante cose in comune che avevano presto deciso di sposarsi, l’avevano fatto non appena lei si era laureata. Era stata Sissi a trasmettergli la passione per la lettura, era lei che lo faceva sentire vivo, che gli faceva capire di esistere per qualcosa. Era Sissi che gli aveva dato due bambini meravigliosi. Sulla scia di queste riflessioni, Franco si attardò ancora, quando si accorse che ormai era quasi mattina si decise finalmente ad andare a dormire e lo fece col sorriso sulle labbra, stringendo una foto al petto. Il risveglio però fu tutt’altro che sereno: ancora una volta, a destarlo di soprassalto era stata quella solita fitta dietro l’orecchio. La foto gli cadde a terra, il vetro si ruppe e lui imprecò. Guardando l’orologio sul comò vide che era pomeriggio inoltrato, subito dopo, un brontolio sordo del suo stomaco lo informò che aveva una fame da lupo perché ultimamente aveva ingerito soltanto alcool e fumo di sigaretta. Si riempì alla meglio la pancia con crackers e sottilette, poi andò a stendersi in terrazza ma il dolore dietro l’orecchio continuava a dargli fastidio.
Franco continua a ondeggiare nel vuoto già da un po’, come sbadatamente. Nessuno tra gli spettatori di quell’incredibile performance osa dirselo, ma i più sono terribilmente indecisi se sperare che cada oppure che si salvi: dopotutto non capita tutti i giorni, di assistere ad un’esibizione del genere. Qualcuno ha messo il telefonino in modalità “video” e lo tiene puntato verso il balcone, col dito pronto a scattare l’istantanea dell’uomo che precipita.
«I materassi!» grida d’un tratto il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, folgorato da un’idea. «Suonate a tutti i campanelli e fate buttare dalle finestre quanti più materassi riuscite a trovare, li raccoglieremo e li ammucchieremo là sotto. Ma fate presto, la situazione è critica. Quell’uomo sta lentamente scivolando, non so quanto ancora potrà resistere senza lasciarsi andare… e muovetevi a sistemare quella dannata puleggia!»
Poi, senza attendere la risposta dei colleghi, si volta di nuovo a guardare Franco. Non riesce a scacciare dal proprio animo incredulità e stupore, quell’uomo continua a starsene lì, appeso per una mano sola come una scimmia, incurante di tutto e di tutti.
«Ehy tu» gli grida, ma è perfettamente consapevole che tentare di parlargli è del tutto inutile. Franco si è ormai completamente isolato in un mondo tutto suo, è come se in quel momento si trovasse comodamente seduto sul divano a guardare una partita di calcio.
«Non mollare adesso. Avanti, metti su l’altra mano. Tieni duro altri due minuti, per favore. Due minuti soltanto, che ti costa? Ehy, sto parlando con te!» prova comunque a insistere il pompiere.
La mano di Franco, sudata, scivola improvvisamente giù per una ventina di centimetri. La sua discesa si ferma solo quando il polso urta il corrente orizzontale della ringhiera e un “oooohhhh” ansioso sale dal cortile fino alle sue orecchie. Un rivolo di sangue tiepido gli scende lentamente lungo l’avambraccio, arrivato al gomito una goccia stilla e gli cade sulla guancia, richiamandolo improvvisamente alla realtà. Per un attimo lui guarda verso il basso e subito dopo scruta con occhi inespressivi il pompiere, che giurerebbe di aver visto un lampo di paura attraversare i suoi occhi. Come se fosse la cosa più semplice del mondo, Franco dà un colpo di reni e si issa, scavalca la ringhiera e in un attimo si trova di nuovo sul terrazzo. Il fragore di un prolungato applauso liberatorio esplode all’istante dal basso, il Vigile del Fuoco si strofina gli occhi, confuso.
«Sei grande!» gli grida subito dopo, sconcertato. «Ora per favore non fare cazzate. Vai ad aprire la porta, i miei compagni verranno a prenderti e ti porteranno via da lì. Mi senti? Qualsiasi sia il tuo problema lo risolveremo insieme» fa per aggiungere, ma le ultime parole gli muoiono in gola perché la macchina per scrivere gli manda dritto negli occhi un riflesso così intenso da abbagliarlo. Franco entra in casa e si dirige verso la porta d’ingresso, ma giunto davanti alla macchina per scrivere si ferma. Sembra riflettere per qualche attimo, poi, anziché andare ad aprire la porta agli uomini che stavano correndo su per le scale, impila con cura un altro po’ dei fogli dattiloscritti sparsi sulla scrivania. Li raccoglie e torna sul terrazzo, come se niente fosse.
«E ora cosa diavolo vuoi fare?» gli domanda in tono incerto il pompiere vedendo che si sta di nuovo avvicinando al parapetto. «Torna dentro, per amor di Dio! Ti ho detto che stiamo venendo a prenderti, siamo qui per aiutarti. Torna dentro… oh, maledizione! Tu sei tutto matto!» urla spazientito scalciando per la stizza, prima di riprendere a imprecare verso i colleghi che stanno ancora lavorando a quella puleggia. Intanto Franco è tornato a sedersi a cavalcioni della ringhiera, adesso scorre velocemente le pagine del romanzo e lascia cadere giù quelle che ha già letto. Un improvviso prurito al ginocchio attira la sua attenzione, si gratta e sente una crosta sotto le dita.
E questo graffio come me lo sono fatto? si domanda, un attimo dopo gli torna a mente.
Ricorda la fuga dall’ospedale, la vista che lo abbandonava di nuovo e l’urto contro un passante, un vetro conficcato nel ginocchio e il dolore spaventoso. Ricorda i propri occhi che cercano di mettere a fuoco, ridotti a due piccole fessure. E quell’uomo in camice bianco che si avvicina gridando ai passanti di fermarlo, e la gente curiosa che osserva tenendosi a distanza. Si è quasi arreso, l’aria che respirava è troppo poca e troppo calda, le gambe troppo pesanti. Proprio quando è sul punto di cedere vede un prato, allora alza e ricomincia a correre su quel soffice tappeto verde. Il suono di un’altra sirena lo riporta al presente, si stringe nelle spalle e riprende a leggere, sillabando.
CAPITOLO VII (IL LICENZIAMENTO)
«Buongiorno, signor Dini.»
«Buongiorno? Altro che buongiorno, disgraziato! Mi hai lasciato qui da solo proprio ieri che arrivavano i fornitori, ho passato la giornata a scaricare bancali su bancali… hai la minima idea di che inferno sia stato?»
Carpetti sapeva che il principale avrebbe certamente trovato da ridire circa la sua assenza del giorni prima, magari per sfruttarla come pretesto per togliergli qualche spicciolo dallo stipendio o per chiedergli qualche prestazione extra, ovviamente gratis. Gli venne da pensare che se stava recitando la solita parte si era preparato a dovere, non l’aveva mai visto così alterato.
Ricordati che devi lavorare! pensò tra sé ancora una volta, poi rispose.
«L’avevo avvisata che ieri dovevo andare dal dottore…»
«Non me ne frega un fico secco di ciò che avevi da fare, ho dovuto prendere una persona che ti sostituisse e ho dovuto pagarla, e quei soldi li detrarrò dalla tua paga» replicò l’altro, come previsto.
«Ma non è giusto, i permessi sono un mio diritto. In tanti anni non ne ho mai preso uno.»
A quel punto il principale finse di andare su tutte le furie. Aveva usato da sempre questa strategia con lui, fare in modo che si sentisse un inetto: avrebbe lavorato molto e avrebbe avuto poche pretese.
«Tu qui non hai diritto proprio a niente, hai capito?» gli gridò in faccia l’altro senza notare che le sopracciglia di Carpetti si stavano lentamente abbassando mentre le sue labbra si increspavano. «Ti faccio già un favore a farti lavorare!» continuò a sbraitare il signor Dini, i colleghi di Carpetti si fermarono tutti quanti e si avvicinarono per godersi la scena.
Devo lavorare si ripeté lui per l’ennesima volta, ma intanto la sua mente aveva cominciato a ripensare a tutte le volte che quell’uomo lo aveva vessato, a tutti gli straordinari non pagati cui lo aveva costretto, alle ferie negate e a molte altre cose.
Devo lavorare provò a convincersi una volta di più, ma proprio in quell’istante l’altro gli gettò addosso la sua cappa azzurra da lavoro, che gli rimase appesa sulla testa a coprirgli la faccia. I colleghi esplosero in un coro di sghignazzi.
«E ora al lavoro, fila» gli ordinò Dini per tagliare corto.
Senza dire una parola Carpetti tolse via la cappa azzurra e la lasciò cadere a terra, poi afferrò il signor Dini per il colletto della camicia e lo tirò a sé. Lo guardò dritto negli occhi, da molto vicino.
«Dammi tutto ciò che mi spetta. Subito» ringhiò, l’altro lo guardò incredulo.
«Ma come,» rispose disorientato dalla sua reazione, «te la prendi così dopo anni che lavoriamo gomito a gomito? Come ti ho detto ieri è stata una giornata infernale, e allora…»
«Non lo ripeterò» lo interruppe Carpetti, stringendo un po’ di più la presa. «Voglio tutto quello che mi spetta, e lo voglio adesso!»
In pochi istanti aveva fatto due calcoli, il risultato cui era giunto era che la sua dignità non aveva prezzo. Il denaro che avrebbe riscosso, tra arretrati e liquidazione, gli avrebbe permesso di giungere dignitosamente alla fine. E forse, con qualche sacrificio, anche di comprarsi le medicine per un po’di tempo… anche se sospettava che questo sarebbe servito soltanto ad allungare la sua agonia. Il signor Dini era davvero spaventato, tirò fuori il libretto degli assegni da una tasca e cominciò a compilarne uno con mano tremante.
«Tieni, la ragioniera farà i conti ma questa cifra dovrebbe coprire tutto. E comunque, lo sai che per te qui c’è sempre posto. Se dovessi ripensarci…»
«Se ripenso che mi hai gettato la cappa in faccia torno qui e spacco tutto!» replicò Carpetti guardandolo torvo, poi si incamminò verso l’uscita.
«Avete visto tutti quanti, non è vero? Lo avete visto come mi ha aggredito… ma io lo denuncio, lo rovino!» disse il signor Dini agli altri dipendenti, mentre si allontanava Carpetti lo sentì gridare. E nonostante tutto, per quanto di divertente non ci fosse proprio nulla, per la prima volta dopo tanto tempo si sorprese a sorridere.
Bene, la sua prima piccola rivincita il nostro Carpetti l’ha avuta! Adesso sarà sorpreso di come sia stato facile, di come sia stato sufficiente tirare fuori l’orgoglio. E questa cosa gli darà una sensazione gradevole, che gli farà bene ma lo spaventerà un po’ perché non ci è abituato! Finora ha scelto di vivere come in una bolla di sapone, delicata e facile a rompersi ma abbastanza forte da tenerlo al riparo dalle emozioni e dal Mondo, e tanto leggera da poterlo portare poco più in là con un semplice soffio quando una certa situazione non gli piaceva. E quella bolla di sapone l’ha sempre tenuto lontano dai grandi guai e dai grandi rischi, ma di contro anche dalle soddisfazioni, piccole o grandi. Ma se io fossi lui, adesso che cosa farei? Non lo so, non lo so proprio… comunque ora devo cominciare a dargli un po’ d’azione, a questo racconto, a scuoterlo un po’, altrimenti scrivendolo mi addormenterò! Eppure, anche se sembra impossibile, questa storia continua a fare di testa sua. Va dove vuole andare lei e non dove voglio io, è come un puledro che non riesco a domare… chissà se funziona così anche per gli scrittori veri. Chissà se anche loro, quando mettono la parola “fine” in fondo all’ultima pagina di un lavoro, si accorgono che il risultato è completamente diverso dall’idea originale.
CAPITOLO VII (CARPETTI RIFLETTE)
Carpetti era meravigliato del proprio stesso comportamento, era sempre stato uno di quelli che per paura di manifestare la propria opinione tendono sempre a giustificare gli altri, a scapito della propria dignità e del proprio orgoglio. Mentre camminava per le vie della città, immerso in un brulichio di persone indaffarate e indifferenti, si disse che tutto sommato mandare a quel paese il signor Dini era stato facile. Si rese conto di aver appena scoperto una nuova parte di sé, con un certo rammarico si disse che se quell’atteggiamento l’avesse avuto nei confronti della vita quotidiana, allora probabilmente la sua esistenza sarebbe stata profondamente diversa. Ma le cose che nella vita aveva affrontato mettendoci la giusta quantità di grinta erano state davvero poche, fino a quel giorno aveva sempre pensato che non valeva la pena di sprecare energie e di arrabbiarsi, di lottare. Col trascorrere degli anni si era poi convinto che bisogna accontentarsi di quello che si ha e di quello che si è, perché in caso contrario potrebbe sempre andarti peggio. Perché il Mondo Bello, quello che si vede in televisione, è comunque irraggiungibile. Così i suoi interessi, come il suo amor proprio, erano lentamente scemati finché lui si era chiuso sempre di più nel suo piccolo mondo di piccole abitudini. Depressione, avrebbe detto uno psichiatra.
Da quando, appena pochi giorni prima, Franco le aveva parlato di una sorpresa, Sissi era profondamente angosciata. Un incubo ricorrente si era improvvisamente riaffacciato alla sua mente dopo anni e aveva ripreso a farle compagnia notte dopo notte, arrivando a minare la sua serenità. Non riusciva più a riposare come si deve e stava passando le giornate correndo dietro ai figli, si sentiva già letteralmente snervata. Inoltre era stizzita verso sé stessa perché stava lasciando che quell’assurda paranoia rovinasse le vacanze estive, che avevano progettato e atteso tutti insieme per un anno intero. Nel volgere di pochi giorni la sua inquietudine si era fatta così intensa che avrebbe voluto salire in auto e correre a casa, per controllare di persona che quel presentimento così irrazionale non stesse davvero trasformandosi in realtà. Ma non voleva riportare i bambini in città così presto senza un motivo importante, non sarebbe neanche stata in grado di fornire loro una spiegazione logica per quell’improvviso dietro-front. Eppure, malgrado tutti i suoi sforzi per convincersi che non c’era niente di cui preoccuparsi, non riusciva a cacciar via quella brutta sensazione. Decise di telefonare a Franco, sperava che parlando con lui si sarebbe finalmente convinta che la sua era appunto un’assurda paranoia e che non era successo niente di ciò che temeva. Compose il numero e rimase a lungo in attesa, col telefono che squillava a vuoto, finché finalmente Franco si fece vivo all’altro capo del filo.
«Sissi! Come sono felice di sentirti, non vedo l’ora di stringerti tra le..”. cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché una fitta di dolore più intensa e più prolungata delle altre gli tolse brutalmente il respiro. La cornetta gli cadde di mano, lui la raccolse a fatica dicendosi che quel malessere era diventato una vera e propria tortura. Era sveglio soltanto da poche ore ma aveva già perso il conto delle stilettate che lo avevano spietatamente aggredito, si sentiva stordito e spaventato. «No, non è successo niente, mi è solo scivolata di mano la cornetta del telefono..”. si affrettò a cercare di rassicurare Sissi, il suo grido soffocato le aveva dato la pelle d’oca.
«Come, cosa vuol dire che mi trovi strano?…. no va tutto bene. La voce roca? Devo aver preso fresco dormendo con la finestra aperta… si, tra pochi giorni andrò alla visita di controllo… no, non devi preoccuparti… va bene… va bene…. va bene…. stai tranquilla, ti ho detto che va tutto bene. D’accordo, ti prometto che farò come dici tu. Lo sai che ogni tuo desiderio e’ un ordine, mia Regina» concluse Franco cercando di strapparle un sorriso, ma per tutta risposta gli arrivò soltanto un profondo sospiro. Sissi riattaccò demoralizzata, quella telefonata non l’aveva per niente aiutata a chiarire i suoi dubbi. Franco non le era parso troppo in forma, ma in fondo non le aveva neanche trasmesso sensazioni particolarmente negative. Si ripeté ancora una volta che l’ossessione che le si era inculcata nella testa era assurda e si strinse nelle spalle, ripromettendosi di chiamarlo più spesso. Franco riattaccò e andò ad affacciarsi alla finestra, ancora afflitto da quel malessere. L’aria si era improvvisamente rinfrescata, un acquazzone estivo si stava avvicinando rapidamente e lui decise di goderselo, il contatto diretto con le forze della Natura era una delle cose che amava di più. Di colpo però fu avvolto dall’ennesimo sinistro presagio, una specie di consapevolezza triste e rassegnata che quel temporale sarebbe stato l’ultimo a cui avrebbe assistito. Colto da un’insolita agitazione indossò in fretta e furia una t-shirt ed un paio di scarpe da tennis, poi si legò un k-way in vita annodando le maniche e si precipitò per strada. Cominciò a camminare senza mèta e senza fretta, inspirando a pieni polmoni quel buon odore di pulito. Il giorno sta finendo e la città è deserta, questo è uno spettacolo davvero stupendo. E’ quasi come se tutto questo fosse mio: le strade e le siepi, il cielo e le nuvole. E questo silenzio è bellissimo.
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