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La Macchina Per Scrivere
La Macchina Per Scrivere

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La Macchina Per Scrivere

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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Chissà quali fantastiche storie hanno scritto con questo oggetto. Adesso che é tornata come nuova mi resta soltanto da collaudarla, fortuna che ho trovato anche i nastri con l’inchiostro in buone condizioni. Infilò un foglio bianco e verificò che tutti i tasti funzionassero. Soddisfatto del risultato si accese una sigaretta e prese una lattina di birra dal frigo, poi andò a stendersi in terrazza su un lettino da campeggio.

Ho fatto proprio un bel lavoro, ma purtroppo il divertimento è già finito. Dovrò escogitare alla svelta qualcos’altro per passare il tempo, altrimenti rischio di ammuffire considerò quasi preoccupato mentre si godeva il fresco della sera. Attraverso le sbarre della ringhiera punteggiate di ruggine osservò i bambini giù nei giardinetti, che correvano qua e là facendo a gara nel catturare lucciole. Lasciò correre lo sguardo sui palazzi, sulle finestre buie, sull’ombra fugace di qualche pipistrello. Infine si fissò ad osservare il cielo stellato mentre il canto dei grilli saliva fino a lui, accompagnando l’odore delle rose appena sbocciate.

Cosa posso fare? Ormai dormo poco, le giornate si stanno facendo sempre più interminabili. Ci penserò domani, adesso è ora di dormire.

Sulla scia delle sue riflessioni rientrò, diretto verso la camera, attraversando la sala passò davanti alla scrivania sulla quale aveva sistemato in bella mostra la macchina per scrivere e si fermò.

«Maledizione, che diavolo succede adesso?» grida il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, sporgendosi a guardare i suoi colleghi dabbasso. La scala si era bloccata d’improvviso e aveva ondeggiato violentemente, se lui non avesse indossato la cintura di sicurezza sarebbe stato sbalzato giù dal contraccolpo.

«Abbiamo un problema… la cinghia di sicurezza gira a vuoto perché si è allentata una puleggia, mi serve qualche minuto per tirarla e stringere un paio di dadi» gli risponde una voce confusa nel gracchiare della radiolina.

«Qualche minuto? Io non ho qualche minuto, accidentaccio! Se non lo raggiungo subito, quell’uomo si lascerà cadere. Ha lo sguardo allucinato e ha appena gridato come un matto per cacciarmi via, mi sembra proprio che di cadere giù non gliene freghi niente. Vedi di muoverti, e intanto preparate il telone!»

«Il telone non c’è! L’hai mandato in manutenzione ieri, non te lo ricordi?» replica dopo qualche istante la voce dalla trasmittente.

«E nessuno ha pensato a mettere sul mezzo quello di scorta?» chiede incredulo il caposquadra sporgendosi ancora di più dalla scala, per frugare con gli occhi nel vano che solitamente ospitava il telone.

«A quanto pare no. Lo sai, in periodo di ferie c’è sempre confusione» mormora imbarazzata la voce nella radiolina, strappando un’altra imprecazione al Vigile del Fuoco. Torna a guardare l’uomo, che sta inesorabilmente scivolando verso il basso lungo stecche della ringhiera, le sue mani sudano a contatto col metallo e stentano a fare presa.

«Ehy» gli grida, Franco si volta a guardarlo distrattamente.

«Ehy, amico! Non mollare. Hai capito? Non mollare, mi raccomando. Tra poco sarò da te, devi soltanto tenere duro un altro po’. Tieni duro ancora un po’!» gli ripete, ma Franco non lo ascolta nemmeno. Gli risponde con un sorriso vago e incomprensibile, poi torna a fissare la macchina per scrivere e la pila di fogli dattiloscritti accatastati al suo fianco, il portacenere traboccante e la sedia girata con lo schienale verso la scrivania.

E’ cominciato tutto quella sera, quando mi sono seduto a quella dannata scrivania riprende a ricordare, mentre inconsapevolmente stringe forte le mani alla ringhiera viscida per non cadere.

Si, non c’è altra spiegazione: la macchina è maledetta…. e ormai è tardi… la punizione….

CAPITOLO III

LA PRIMA PAGINA

Quasi inconsciamente, come guidato da una forza misteriosa, Franco tolse il foglio imbrattato che aveva usato per provare la macchina e ne inserì uno pulito. Lo centrò per bene e cominciò a battere goffamente sui tasti, ripensando alla vista di cui si era compiaciuto poco prima.

CAPITOLO I (LA CASA DI CARPETTI)

Il cielo della sera era tanto pulito che le stelle si potevano quasi contare una ad una, mentre una mezza Luna affilata e lucente sembrava appesa a un filo invisibile, che andava a perdersi nell’infinito. Dalla finestra al terzo piano di un palazzone di periferia si notava, riflesso sulle tende, il baluginare delle immagini di un televisore. Era piccolo, in bianco e nero, di quelli rivestiti di plastica bianca con la classica antenna circolare attaccata sopra in modo sbilenco. Era poggiato sopra un massiccio mobile di colore marrone scuro, sul quale il tempo aveva impresso segni prepotenti. Accanto, una brutta statuetta di terracotta raffigurava chissà quale divinità africana.

Però, come inizio non è niente male. forse ho finalmente trovato la maniera di ingannare il tempo, si disse Franco rileggendo quello che aveva appena scritto. Ma dopo diversi fogli gettati nel cestino, e un altro paio di birre, allontanò la macchina per scrivere e si strofinò gli occhi, poi si alzò con uno scatto stizzito. Guardò l’orologio e decise di andare a dormire perché era già a corto di idee, come tutte le sere si addormentò con il pensiero rivolto alla moglie e ai bambini.

Le prime di lame di luce che filtravano dalle persiane lo sorpresero a fissare il soffitto, aveva un’espressione leggermente preoccupata sulla faccia dalla barba già un po’ troppo lunga.

Accidenti alle buone abitudini, non posso continuare a svegliarmi così presto! Se mi alzo adesso cosa mi metto a fare? si disse preoccupato. Allungò un braccio verso il comodino, prese l’ultima sigaretta dal pacchetto vuoto e lo accartocciò. Lo gettò a terra e guardò la piccola montagna di spazzatura che si era formata ai piedi del letto, si domandò se avesse voglia di raccoglierla e di andare fino in cucina per buttarla nella pattumiera. Si rispose di no con un’alzata di spalle e mise la sigaretta in bocca, si lasciò ricadere pesantemente e una volta disteso cercò di resistere alla tentazione di accenderla. Sto fumando troppo, è colpa della noia. Vorrei uscire un po’, ma con questo caldo devo essere prudente. Anche se si è trattato solo di un banale malore, non voglio rischiare di dover allungare questa convalescenza. I passerotti appostati sui cornicioni stavano salutando l’arrivo del nuovo giorno con una bella melodia e da là osservavano i movimenti giù in cortile, sapevano che di lì a qualche minuto l’anziana signora avrebbe buttato dalla finestra la loro colazione. E’ inutile, non riuscirò mai a riprendere sonno… è meglio se mi alzo si rassegnò dopo aver sperato per un po’ di riuscire a riaddormentarsi. Intanto, un senso di inquietudine si stava lentamente ma prepotentemente impadronendo di lui, aveva come la sensazione di aver lasciato qualcosa a metà ma non riusciva a ricordare cosa. Poco dopo era di nuovo seduto davanti alla macchina per scrivere con la sigaretta ancora spenta in bocca. Guardò a lungo la macchina, incerto, domandandosi se era davvero in grado di scrivere una storia. Squillò il telefono, quel suono improvviso a rompere il suo tentativo di concentrarsi lo disturbò. Per qualche istante pensò di non rispondere.

«Ciao, come state? … scusa, ero nel bagno» mentì storcendo la bocca, con gli occhi rivolti al soffitto. «Si, io sto bene, e voi? Vi state divertendo? Magnifico… passatemi la mamma… Allora, come ve la passate?… e i ragazzi? Si, io mi annoio da morire e sono ansioso di rivedervi….. ah ho una sorpresa per te… no, non te lo dico cos’è, altrimenti che sorpresa sarebbe? Va bene ci sentiamo presto… salutami i tuoi…”. tagliò corto, poi riattaccò il telefono e corse a sedersi, sbuffando ancora scocciato per quell’inattesa interruzione. Ho trovato: scriverò la storia di un uomo che vive solo si disse.

Squillò il telefono, l’uomo emerse con un sospiro dalla vecchia poltrona di pelle e si trascinò di malavoglia verso l’apparecchio.

«Pronto? Gianni! Io bene, tu come stai? Mi fa piacere sentirti… domani sera? No, domani sera proprio non posso. Ti dico che non è una scusa, lo sai che con voi due non mi sentirei mai di troppo… va bene, alla prossima non mancherò, lo prometto. Dai un bacio a Marta da parte mia» concluse l’uomo, poi ripose la cornetta e gettò un’occhiata ansiosa in salotto, verso il televisore. Ormai stavano scorrendo i titoli di coda.

Accidenti, mi sono perso il finale, si disse innervosito, ma sarà finito sicuramente bene. I film finiscono quasi sempre bene.

Dopo aver spento il televisore, sistemò per bene le sedie sotto il tavolo rivestito di formica verde, in modo che le zampe cadessero esattamente sugli angoli delle mattonelle. Sparecchiò e andò a dare due mandate alla porta di casa, dopo aver poi controllato due volte che il rubinetto del gas fosse chiuso, si recò in camera. Come tutte le sere, passando davanti al grande specchio posto in corridoio, smise di trascinare i piedi a terra e drizzò le spalle per verificare lo spessore della propria pancia. Costituzione pensò rassegnato ancora una volta, scotendo la testa. Più di una volta aveva provato ad eliminare la fascia di grasso che gli contornava addome e fianchi, vietandogli di indossare come si deve le camicie. Erano il capo di abbigliamento che amava di più, ma non aveva mai avuto abbastanza forza di volontà per seguire seriamente una dieta fino in fondo. E così come questa, le cose aveva cominciato nel corso degli anni per poi portarne a termine quasi nessuna erano molte altre. Con il rituale di sempre si preparò per andare a dormire: piegò accuratamente gli abiti e li posò sulla sedia a dondolo che stava sotto la finestra, poi indossò il pigiama preferito, quello grigio a rombi azzurri ormai consumato all’altezza dei gomiti e delle ginocchia. Pose le ciabatte ai piedi del letto in modo che fossero perfettamente parallele e si coricò.

Di nuovo gli occhi rivolti al soffitto e la sigaretta ormai gualcita in bocca, di nuovo sveglio così presto. Ma quella mattina si sentiva peggio della precedente, aveva dormito poco e male e il suo sonno era stato turbato da un brutto incubo: un uomo col camice bianco e gli occhiali gli diceva di non aver paura, che aveva una brutta malattia ma che la poteva vincere. E lui si sentiva impotente, anche se aveva tanta voglia di vivere. Colpa delle zanzare e di questo maledetto caldo minimizzò, ma la solitudine e il silenzio sembravano aver ingigantito quelle brutte sensazioni. Malgrado i suoi tentativi di pensare ad altro, continuava a provare un’angoscia quasi fisica, che lo avvolgeva come le spire di un serpente.

Almeno, sono riuscito a stare un giorno senza fumare… vedremo quanto durerò. Prese dal comò quell’unico foglio che aveva scritto il giorno prima e lo rilesse, nella speranza che gli venisse una qualche idea per proseguire il racconto. Quell’uomo solo scopre di essere ammalato… si è ammalato perché ha perso il senso delle cose… il senso dell’amore… si, ecco: ha perduto il senso dell’amore e si è lasciato andare si disse pensando al protagonista del suo romanzo. Non ha più voglia di vivere, ma forse, se qualcuno glielo insegnerà potrà guarire. Chissà, magari incontrerà una specie di guida spirituale, un guru o qualcosa del genere. In ogni caso sarà un tipo un po’ strano, un uomo che porta con sé una grande amarezza oppure un grande segreto. Lo chiamerò Walter, mentre il protagonista deve avere un nome comune, normalissimo. Lo chiamerò… accidenti, è difficile persino trovargli i nomi, ai personaggi. Mah, per ora lo chiamerò per cognome, poi si vedrà: lo chiamerò Carpetti, mi sembra un cognome abbastanza anonimo. E il romanzo, o racconto, o quello che ne verrà fuori, lo ambienterò in autunno, sperando che questo mi aiuterà a sentirmi più fresco. Seguendo questo lampo di ispirazione scese al volo dal letto per andare a scrivere, senza neanche pensare alla colazione, ma barcollò e cadde. Si rialzò guardandosi intorno perplesso e constatò stupito che ai suoi piedi non c’era niente, quindi non era caduto per aver inciampato in qualcosa. Si preoccupò solo per un istante, poi non ci pensò più: quel suo nuovo bisogno era più forte di lui, doveva mettersi immediatamente a scrivere altrimenti l’idea sarebbe volata via.

CAPITOLO II (CARPETTI DAL DOTTORE)

La radiosveglia si accese alle sei e mezza, giusto in tempo per l’appuntamento con l’oroscopo del nuovo giorno. Mentre lo ascoltava senza crederci più di tanto, Carpetti rifece il letto con cura, in modo che sulla coperta non restasse neanche la più piccola piega. Poi si recò in cucina e aprì due arance, come ogni giorno si preparò una spremuta per prevenire il raffreddore. Tirò fuori dal congelatore il quello che sarebbe diventato il suo pranzo e lo mise nell’acquaio, poi si preparò per uscire. Quella mattina doveva ritirare il risultato delle analisi a cui si era sottoposto qualche giorno addietro per verificare l’origine di alcuni disturbi. Il medico lo aveva tranquillizzato dicendogli che doveva sicuramente trattarsi di una cosa da niente, ma aveva comunque insistito affinché si sottoponesse a un check-up completo. Dato che la mattina non aveva mai troppa voglia di conversare, soprattutto riguardo le banalità tipo il tempo, Carpetti evitò di prendere l’ascensore per non rischiare di incontrare qualcuno. Giunto al portone d’ingresso, trasse un profondo respiro e aprì la porta per tuffarsi nel Mondo. Avviandosi verso la fermata dell’autobus, con le mani in tasca e la testa china, si rese conto che era una di quelle giornate caratteristiche del cambio di stagione tra l’autunno e l’inverno, fresca e luminosa. L’alito formava quelle nuvolette che paiono essere fatte di fumo di sigaretta, l’erba del prato condominiale era coperta di brina e qualche rara folata di vento interrompeva bruscamente il cinguettio degli uccelli. Giunto in Centro scese dall’autobus, guardando l’orologio del campanile si rese conto di essere arrivato troppo presto. Si chiese come avrebbe potuto sfruttare quella mezz’ora ma non gli venne in mente niente, così si strinse nelle spalle e cominciò a curiosare di vetrina in vetrina. Le mamme stavano accompagnando i bambini a scuola, dai panifici usciva un buon aroma che sembrava scaldare l’aria e il camion della nettezza stava rumorosamente svuotando i cassonetti. La città era viva ma lui non se ne accorgeva, riusciva solo a vedere la propria immagine distorta riflessa nelle grandi vetrate. A un certo punto provò un lieve senso d’invidia, o forse di imbarazzo verso sé stesso, nel vedere due ragazzini che entravano a scuola, zaino in spalla e mano nella mano. Ma quella sensazione durò poco, subito dopo si infilò nel portone dello studio medico. La sala d’attesa era ben arredata, con comodi divanetti dai chiari colori sfumati, varie riviste specialistiche erano messe in mostra di proposito su un bel tavolo in ferro battuto col ripiano in vetro molto spesso. Appese alle pareti bianchissime, le copie di alcuni quadri di Picasso facevano compagnia agli attestati di partecipazione a corsi di aggiornamento, inerenti nuove particolari terapie per la cura dell’asma. Completava l’insieme una bella composizione di piante grasse sistemata in un angolo. Carpetti odiava recarsi là, trovava quel posto troppo freddo e silenzioso. Malgrado fosse un maniaco dell’ordine e della pulizia, quell’ambiente così bianco e freddo gli trasmetteva un senso di smarrimento. Si sedette e cominciò a sfogliare una rivista senza leggere perché in realtà stava facendo, come sempre, il gioco dei luoghi comuni. Scommetteva con sé stesso che avrebbe indovinato in anticipo, nella blanda conversazione che stava svolgendosi in sala d’attesa, cosa stava per dire la persona che stava parlando. E’ per questo che il mondo gira storto. La gente ha la testa piena di luoghi comuni, ovunque vai senti gli stessi discorsi…. stava pensando, quando venne il suo turno.

«Buongiorno dottore» salutò entrando, senza mostrare alcun entusiasmo. Il medico sedeva nell’angolo sinistro in fondo alla stanza lunga e stretta, dietro di lui, a fianco alla tabella per la misurazione della vista, una finestra dava su un viale alberato. Carpetti pensò che, a colpo d’occhio, quell’uomo sembrava un pezzo appartenente a quella collezione di oggetti rigorosamente bianchi e silenziosi. Quasi come se fosse privo di una vita propria e stesse sempre là dentro, seduto dietro a quella scrivania. In quel contesto di oggetti rigorosamente chiari, l’unica cosa che spiccava era un orologio da tavolo a forma di piramide, nero, che pareva dominare l’ambiente per lanciare un monito: “Il tempo è prezioso”.

«Buongiorno signor Carpetti. Si accomodi» rispose il dottore, stava giocherellando nervosamente con un’elegante penna rifinita in oro.

«E’ una cosa lunga?» replicò lui, allungando una mano verso una busta con il suo nome scritto sopra.

«Debbo parlarle» lo informò il medico tirando a sé la busta un attimo prima che lui riuscisse ad afferrarla. Allora lui si lasciò cadere di malavoglia sulla sedia, indispettito perché il dottore gli aveva sottratto la sua busta, e incrociò le braccia al petto a mostrargli tutto il suo disappunto. Di tanto in tanto il vento spingeva i rami ormai quasi del tutto spogli di un’acacia contro il vetro della finestra, producendo un orribile rumore stridente, il cielo si era rabbuiato e pareva indeciso se piovere o no.

«Avanti, la ascolto» lo esortò Carpetti richiamando il medico, che si era come distratto.

«Lei ha un problema» esordì questi a bassa voce, senza guardarlo negli occhi.

«Accidenti… niente di grave spero.»

«Mi spiace dover essere brusco, ma purtroppo temo di sì.»

Il disagio di Carpetti si trasformò subito in un’angoscia profonda, adesso le parole del dottore avevano fatto sì che la stizza lasciasse il posto alla paura.

«Si spieghi meglio, per favore.»

«Vede, lei deve cominciare ad abituarsi all’idea che non potrà più fare le cose come prima» cominciò a spiegargli l’altro da dietro gli occhiali. Qualche schizzo di pioggia aveva intanto preso a battere sulla finestra per scivolare veloce sul vetro lindo. Il dottore, sempre più imbarazzato, aveva preso a caricare l’orologio da polso, Carpetti sentì il proprio sangue farsi strada a fatica nelle vene, come se fosse diventato improvvisamente densissimo.

«Non capisco» mormorò, e adesso un artiglio gli torceva lo stomaco. Intanto lottava contro un presentimento improvviso, le mani gli si erano fatte umide e gelate.

E ora che malattia gli faccio venire? Mica sono un dottore! Temo di aver scelto un passatempo troppo difficile, forse sarebbe stato meglio provare a scrivere qualcosa di comico pensò Franco mentre si dirigeva verso il frigo per prendere una lattina di birra fresca. Aveva trascorso diverse ore a sedere, giunto davanti al frigo si stiracchiò e un nuovo senso di vertigine lo fece quasi cadere. Ma cosa diavolo mi sta succedendo? si chiese leggermente spaventato, appoggiandosi alla spalliera di una sedia. Non vedo l’ora che mi consegnino i risultati delle analisi, questi giramenti di testa cominciano a preoccuparmi. Tolse la sigaretta di bocca e se la incastrò nell’incavo tra l’orecchio e la testa, poi stappò la lattina e diede una lunga sorsata. Volendo, la malattia di Carpetti me la posso anche inventare. In fondo si tratta di un’opera di fantasia, e poi deve essere quasi una cosa psicosomatica, quindi può essere qualsiasi cosa. Una cosa che deriva dal suo male di vivere, come se lui si stesse pian piano lasciando morire. Magari facendo una scorrazzata su internet trovo qualcosa di interessante, più tardi darò un’occhiata. Seguendo il corso delle sue riflessioni era di nuovo arrivato davanti alla macchina per scrivere.

CAPITOLO III (OTTO MESI)

«Questa malattia nasce nell’emisfero destro del cervello e va a interessare diversi organi, rallentandone progressivamente l’attività fino a bloccarla del tutto.»

«Per favore, dottore, sia più chiaro! Ancora non capisco, dal suo tono di voce sembrerebbe che io stia per morire» lo interruppe Carpetti, a quelle parole il dottore ebbe un sussulto e l’orologio gli scivolò via dalle mani. Non appena toccò terra, il vetro a protezione del quadrante si incrinò mandando un suono secco e aspro. Un’espressione di disappunto attraversò la faccia del medico, ma solo per un fugace attimo, poi questi prese a guardare alternativamente il paziente e la sua busta contente il referto, senza però dire una sola parola.

«Dottore…» lo incalzò allora Carpetti con un filo di voce.

«Si tratta di una malattia che inibisce lo svolgimento dei processi rivolti al rinnovo dei tessuti dei principali organi, portandoli a invecchiare molto rapidamente.»

Il brutto presentimento che aveva accompagnato Carpetti fin dal primo risveglio si era tramutato in una terribile realtà. Si sporse verso l’altro come per sentire meglio, gli sembrava che tutto quanto attorno a lui fosse diventato confuso e molliccio, ovattato, e lui voleva essere sicuro di non aver capito una cosa per un’altra.

«Questa malattia è molto rara, si chiama…» riprese a spiegargli l’altro con una lentezza esasperante, nel tentativo di portare il paziente al dunque nel modo più dolce possibile.

«Basta!» lo interruppe Carpetti, il tono della sua voce si era fatto piagnucoloso. «Voglio sapere quanto mi resta… cosa vuole che mi importi del nome, mi dica quanto mi resta da vivere» implorò il medico ad afferrandolo per un braccio.

«Otto mesi. Forse un anno, se seguirà le cure che le prescriverò. Sono costosissime, dovrà chiedere l’esenzione dal pagamento al Distretto Sanitario della sua zona» sentenziò finalmente tutto d’un fiato il dottore, dopodiché si sentì improvvisamente più leggero. Carpetti si buttò a terra tenendosi la testa tra le mani.

«Otto mesi…otto mesi…»

Franco sfilò il foglio dalla macchina, che gli rispose col tipico rumore che fa il mulinello di una canna da pesca quando si lancia la lenza. Lo adagiò sulla piccola risma e la compattò con le mani sorridendo molto soddisfatto, ma la sua testa cominciò a essere invasa dai dubbi. E adesso come proseguo? Ho il sospetto di essermi spinto troppo oltre, scrivere una storia che tratta un argomento del genere è difficile, e fare in modo che chi lo leggerà non lo trovi noioso e angosciante è praticamente impossibile. E da adesso in poi per scriverla come si deve dovrei immedesimarmi nel personaggio, dovrei riuscire a provare ciò che proverebbe Carpetti, pensare e vivere come penserebbe e vivrebbe lui. Come un uomo che ha pochi mesi di vita… chissà che cosa farei… dovrei essere proprio lui per saperlo.

CAPITOLO IV

LE ANALISI DI FRANCO

Come se si rese improvvisamente conto di trovarsi in una situazione assurda, o come se gli fosse venuto a noia restare appeso, Franco comincia a far oscillare le gambe con l’intenzione di portare un piede fino al bordo sporgente del terrazzo. In quel modo potrà puntellarsi e sfruttare così al meglio la forza delle braccia, a quel punto dovrà soltanto scavalcare la ringhiera e tornare dentro. L’improvviso urlo di una sirena squarcia il silenzio carico di apprensione, le teste degli spettatori si voltano tutte insieme come in una coreografia. L’ambulanza si ferma facendo stridere i pneumatici, subito dopo ci sono movimenti frenetici e ordini concitati, una barella viene rapidamente estratta dal vano posteriore del mezzo di soccorso. Una macchia bianca che si guarda attorno spaesata attira d’un tratto l’attenzione di Franco. Maledetto testardo, alla fine mi ha trovato! pensa riconoscendo il medico, mentre finalmente appoggia anche il secondo piede sul pezzetto di terrazza che sporge oltre la ringhiera.

«Bravissimo, dacci dentro con quelle gambe. Sei forte, ci sei quasi! Non mollare proprio adesso!» lo incita il Vigile del Fuoco da sopra la scala, vedendo che è quasi riuscito ad arrampicarsi sul terrazzo. «Tra un minuto sarò lì, tieni duro per amor di Dio» insiste, ma Franco non lo sta ascoltando. E’ riuscito a puntellare per bene i piedi e adesso sta forzando per spingersi in alto. Quando si sente sicuro lascia libera una mano dalla presa della ringhiera per afferrare il corrimano e issarsi in piedi, ma mentre allunga il braccio verso la stecca orizzontale, la sensazione di due occhi puntati nella schiena gli fanno perdere la concentrazione. Guarda verso il basso e individua nuovamente il medico, lo sta fissando a bocca aperta mentre si passa una mano tra i capelli, apparentemente preoccupato. Quell’uomo vorrebbe correre su da Franco per soccorrerlo Franco, ma un agente pensa che potrebbe essere pericoloso e l’o ha trattenuto dabbasso. Franco nota che quell’uomo stringe in mano una busta di carta gialla, allora gli lancia uno sguardo carico di odio. Tienila per te quella maledetta busta! Non la voglio, non lo hai capito? sta per gridargli mentre si slancia per scavalcare la ringhiera, ma la mano sudata scivola via lungo la plastica di rivestimento del corrimano. Franco ricade ma riesce a tenere la presa dell’altra mano, rimane appeso per un solo braccio penzolando nel vuoto come una foglia secca al vento. Gli spettatori mormorano qualcosa, sgomenti, intanto Franco ha ricominciato a ricordare.

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