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La Macchina Per Scrivere
Accidenti, ancora una volta sveglio prima dell’alba aveva pensato turbato Franco quella stessa mattina schiudendo gli occhi. Aveva perso la sua personale battaglia col tabacco appena al quinto giorno di solitudine e aveva ripreso a fumare più forte di prima, con gli occhi ancora chiusi cercò a tentoni il pacchetto e con gesti automatici e rassegnati si accese la prima sigaretta del nuovo giorno, che gli rinnovò il bruciore allo stomaco. Mentre aspirava pensieroso scoprì di non ricordare quante albe consecutive aveva ormai visto e quanti giorni erano che non dormiva nel suo letto. Si sentiva completamente svuotato, privo di energie. Dopo che era stato rispedito due volte indietro a mani vuote a causa di problemi tecnici, quella mattina gli avrebbero finalmente consegnato i risultati degli esami clinici. Non avrebbe saputo dire con precisione quando era successo, ma il continuo andirivieni di dolorose fitte appena dietro l’orecchio destro, che si ripeteva ormai da giorni, lo aveva fatto precipitare nella paranoia. Negli ultimi giorni le fitte si erano fatte sempre più frequenti e dolorose, ad accompagnare i giramenti di capo sempre più lunghi e preoccupanti. E questo aveva generato in lui un brutto presentimento che pazientemente, giorno dopo giorno, aveva minato il suo equilibrio fino a fargli compiere gesti assurdi. Si trattava di quella stessa paura dalla quale era scaturita la sua di volontà di finire ad ogni costo la storia che stava scrivendo, per lasciare qualcosa di sé in quella che si era convinto che fosse una specie di assurda corsa contro il tempo. Ed ogni suo singolo gesto, ogni suo singolo pensiero dettato dalla paura aveva infine generato nuovo terrore, come in una spirale composta di una quantità infinita di anelli. Il terrore di una punizione per ciò che aveva fatto, di una condanna alla sofferenza eterna, di una condanna a morte quasi certa. Andando in bagno passò accanto al corpo senza vita del gattino e fece una faccia schifata, ma subito dopo si fermò per osservarlo meglio, per guardare l’espressione di quegli occhi senza vita. Voleva controllare una volta di più se aveva descritto bene la sofferenza, lo stupore che deriva dal non aver capito il perché della propria morte. Si abbassò un po’, ma la puzza gli penetrò violentemente nelle narici e un violento conato di vomito lo scosse in profondità. Si rialzò e sferrò un calcio stizzito al corpo senza vita, alzando un nugolo di mosche. Andò in bagno e si infilò nella doccia, mentre l’acqua bollente continuava a picchiettargli la schiena si immedesimò in un inquisito ammanettato al banco degli imputati, in attesa della sentenza. Con la fantasia visse chissà quanti processi, così come aveva vissuto a fondo, fino a confondere completamente l’immaginazione con la realtà, le pagine che egli stesso aveva scritto.
L’imputato è colpevole. Deve morire, continuava a ripetersi mentre si asciugava. E mentre si vestiva, e poi camminando per strada verso l’ospedale. E nella sala d’attesa dell’ambulatorio, finché il dottore gli si fece incontro e lo salutò cordialmente tenendo una busta gialla in mano. Alla vista di quella busta Franco aveva improvvisamente sentito il cuore battergli con violenza nel petto, impazzito, come se avesse voluto scappargli via. Il dottore esitò, colpito dal suo aspetto, lo conosceva fin dai tempi della scuola e non l’aveva mai visto in quelle condizioni.
«Ciao, Franco» lo salutò tendendogli la mano, ma Franco non rispose al saluto. «Franco… ti senti bene? Non hai una bella cera» lo incalzò preoccupato il medico, l’altro lo fissava tremando con gli occhi e la bocca spalancati. «Franco… » insisté il suo amico, ma di nuovo lui non rispose. Continuò a guardarlo con espressione folle, gli occhi iniettati di sangue, aspettando la sentenza col fiato sospeso.
«Mi spiace che tu abbia dovuto aspettare tanto, ma i macchinari hanno avuto dei problemi e la maggior parte del personale era in ferie… e poi avevamo un dubbio, che ora finalmente è risolto. I risultati delle tue analisi dicono che… »
«Noooo» gridò Franco, che nella propria mente aveva vissuto mille volte quella scena, si girò su sé stesso e fuggì per sottrarsi alla sentenza. Il dottore lo guardò incredulo correre via, poi cominciò a inseguirlo per fermarlo. Ma pian piano la distanza si era fatta proibitiva, quell’uomo allucinato era inarrestabile. E’ terribile, è proprio come l’ho raccontato. È terrificante… povero Carpetti… povero me… pensava Franco continuando a correre come se alle spalle avesse avuto il Diavolo in persona.
CAPITOLO IV (VERSO CASA)
Non è possibile perché proprio io? C’è un errore… ci deve essere per forza un errore continuava a ripetersi Carpetti, seduto sulla poltroncina dell’autobus che lo stava riportando a casa.
“Potrà continuare a lavorare finché se la sentirà. Inoltre la comunità scientifica sta lavorando sodo e sta facendo passi da gigante, è molto probabile che in un tempo così lungo riesca a trovare la maniera per allungarle la vita, se non addirittura una cura definitiva… quindi lei deve cercare in tutti i modi di non lasciarsi andare, di non mollare. In ogni caso posso garantirle che non soffrirà. Non è molto, ma è tutto ciò che posso dirle… mi spiace” gli aveva detto il dottore. D’un tratto Carpetti si sentì come se gli mancasse l’aria, si sbottonò la camicia a quadri e si curvò in avanti, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la busta gialla arrotolata stretta in una mano. Davanti a lui due donne stavano discutendo l’andamento dei prezzi dei pomodori, un’altra, anziana, raccontava a un conoscente le peripezie del figlio emigrato all’estero. Sicuramente c’è uno sbaglio, quello di cui parlano questi fogli non sono di certo io si disse ancora una volta Carpetti, sentiva il bisogno di correre a casa, nel suo rifugio. Là avrebbe potuto pensare un rimedio, trovare una soluzione, avrebbe riletto con calma quei fogli e avrebbe scovato l’errore. Ma la strada non finiva mai, le pensiline delle fermate, coi vetri erano rotti e i poster pubblicitari strappati, sembravano essersi moltiplicate all’infinito. Finalmente l’autobus si fermò giusto davanti al condominio dove abitava, lui scese al volo e salì le scale di corsa, col cuore in gola. Chiuse la porta a chiave e vi si appoggiò contro con le spalle, come per evitare che qualcosa del Mondo esterno potesse penetrare in casa sua a contaminarla. Gettò a terra la giacca si sfilò via la camicia, facendo saltare l’ultimo bottone. Con mani tremanti strappò un lembo della busta, dopo aver riletto chissà quante volte quel foglio si buttò in ginocchio balbettando qualcosa tra sé.
Sudore. Abiti appiccicati addosso a impacciare i movimenti, a renderli perfettamente uguali tra loro come quelli di un soldato che marcia. Il passo risuonava ritmico e veloce, tra i corridoi dai soffitti alti e dalle pareti tinteggiate di bianco plastificato. Franco correva fissando un punto che vedeva soltanto lui, ignorando gli sguardi straniti della persone che al suo passaggio si affrettavano ad appiattirsi contro il muro per evitare di essere travolte. Il cuore sembrava volergli scoppiare nel petto, le vene bluastre sulle tempie si dilatavano sempre di più tendendo ulteriormente la pelle del viso pallido e magro sul quale risaltavano occhi stanchi da pazzo, contornati da un alone violaceo. Sentiva le gambe pesanti come piombo, ogni nuovo passo era una sofferenza indicibile ma lui non poteva fermarsi. Correva per fuggire dall’uomo che lo inseguiva gridando il suo nome e si reggeva gli occhiali per non perderli, quell’uomo con la busta gialla della sua condanna che sorgeva dalla tasca del camice. A ogni passo le spalle di Franco si incurvavano un po’ di più in avanti, i suoi polmoni erano sempre più assetati d’aria, ogni suo movimento sembrava essere l’ultimo prima di una rovinosa caduta. Ma là in fondo c’era la strada, dalla grande vetrata entrava un cubo di sole e lui sentiva già il rombo delle auto ferme al semaforo e la sirena di un’autoambulanza in arrivo. Si guardò le mani che gli apparivano e scomparivano ai fianchi e le immaginò intrise di sangue, gli sembrava che stessero lasciando una scia rossa sul pavimento. E quell’uomo dietro di lui non voleva mollare, non riusciva a raggiungerlo ma non si dava per vinto.
E’ la punizione, pensava Franco mentre ormai era in strada, ma non voglio…..no, non voglio! gridò senza accorgersi delle persone che lo fissavano inorridite. Correva in avanti, senza una méta, ma la sua mente andava all’indietro…
E’ davvero ora che vada a dormire, sono completamente distrutto. No, maledizione, si disse sbattendo un pugno sul tavolo, devo andare a prendere le sigarette. Sono giorni che non fumo, se continuo così impazzisco. Adesso è sera inoltrata e non fa più troppo caldo, non vedo cosa mai potrebbe accadermi di male se esco di casa per dieci minuti. Si infilò frettolosamente una maglietta e passando davanti si soffermò a guardare incredulo la propria immagine riflessa, per un lungo attimo aveva stentato a riconoscersi.
Accidenti, come mi sono sciupato. La barba lunga, questi capelli… e sono anche dimagrito un sacco! E questo sguardo…. non ho mai avuto questa espressione… chi se ne frega, tra pochi giorni andrò in ferie e mi rimetterò in sesto cercò di rassicurarsi, si riavviò con le mani i capelli spettinati e uscì. Devo pazientare ancora solo pochi giorni, poi la convalescenza sarà finita e sarò di nuovo un uomo libero, si stava dicendo poco dopo, mentre tornava a casa con le tasche piene di pacchetti di sigarette. Era ansioso di ritirare il risultato di quei dannati esami che gli avevano azzerato la vita, per potersi finalmente ricongiungere ai suoi familiari. A cavallo di questi pensieri, proprio mentre infilava il vialetto del giardino condominiale giudicando che quella passeggiata gli aveva fatto addirittura bene, si ritrovò disteso a terra perché per un attimo la vista lo aveva abbandonato. Maledizione, ma che accidenti mi sta succedendo? si chiese impensierito, intanto una sensazione simile a quella che aveva descritto poco prima nel suo racconto si stava rapidamente impadronendo di lui. E’ impossibile che io sia malato sul serio, ho sempre fatto vita sana e regolare… e poi non ho mai fatto male a nessuno: non lo meriterei… accidenti, ora parlo proprio come Carpetti! …che stupido, mi sono immedesimato a tal punto che mi sto condizionando da solo! Devo smetterle di pensare a queste sciocchezze! Ma invece, malgrado i suoi ripetuti tentativi di pensare ad altro, quell’angoscia profonda come il mare non voleva proprio saperne di abbandonarlo. Sapendo che teso com’era non sarebbe riuscito a dormire, quando rientrò sedette alla scrivania. Vampate di calore gli salivano dal petto verso le tempie, con mani tremanti aprì il pacchetto e sfilò una sigaretta. La mise in bocca e l’accese, ma non la traspirò perché era ancora spaventato dall’episodio che gi era accaduto poco prima. Trovò che l’odore era buonissimo, gli aveva ricordato la prima sigaretta che aveva fumato tanti anni prima nascosto in giardino, in una bella mattina di Sole. Tirò una boccata e cominciò a tossire. Si sentiva la bocca amara, il sapore sgradevolissimo gli aveva contaminato ogni angolo della lingua e adesso lottava per tenere a freno l’impulso di vomitare. Ma sapeva perfettamente cosa doveva fare per tornare a provare il piacere illusorio del fumo: tirare di nuovo, e poi ancora, e ancora. Aspirò una nuova boccata e la sua tosse si placò, tutto sembrò cominciare a tornare normale.
Potrei chiamare Silvia, magari sentire la sua voce mi calmerebbe… no, è meglio di no. Se la chiamassi a quest’ora, si spaventerebbe. Devo soltanto riuscire a tranquillizzarmi e andare a dormire. Sono solo un po’ stanco, e soprattutto nervoso. Intanto, dopo appena altre due boccate di sigaretta la testa aveva preso a girargli di nuovo e la sua fronte si era imperlata di sudore freddo. Alcune gocce caddero sul foglio a sbiadire le parole scritte da poco, allora si alzò e cominciò a camminare lentamente avanti e indietro per la casa. Sto male, devo sentire Silvia si disse afferrando la cornetta, ma dopo aver composto il numero per metà riattaccò. Andò in camera e si stese sul letto, ma non riusciva a prendere sonno. Una brezza leggera scuoteva le tapparelle producendo un suono simile al ticchettio dei tasti di una macchina per scrivere, il profumo dell’erba umida penetrava fino in casa. Gli tornò a mente la corsa e si rese conto di quanto gli mancasse, il pensiero che presto avrebbe potuto ricominciare ad allenarsi non riuscì a rasserenarlo. E’ inutile pensò dopo aver sbuffato una volta di più. Si portò davanti al frigorifero e prese una lattina di birra, la stappò e si accese un’altra sigaretta, infine tornò ancora una volta a sedersi davanti alla scrivania.
CAPITOLO V (AUTOCOMMISERAZIONE)
Ma quale che disgrazia può essere, questa, per uno come me? Quale tragedia può essere per uno che ha trascorso la vita da solo, circondato da manichini che vedono, si muovono, e sorridono sempre allo stesso modo…. e oggi uno di questi manichini viene a dirmi che ho i giorni contati! Proprio io, che pensavo che dover lottare ogni giorno con le mie paure e con la solitudine fosse già una punizione abbastanza severa, dato che non ho mai fatto niente di male si disse Carpetti, andò in corridoio e accarezzò la propria immagine riflessa nello specchio. Rimase in silenzio per alcuni istanti, poi con voce cantilenante cominciò a parlarle.
«Guardati: a cosa ti è servito arrivare fino a oggi? A cosa ti è servito arrivare ogni giorno al Domani, sperando che quel domani fosse migliore, se oggi scopri di non avere più domani? A cosa ti sono serviti i sacrifici e le speranze, se questa è la ricompensa? Tra poche settimane di te non resterà che un vago ricordo in pochissime persone, finché si spegnerà con loro. Persino le tue scarpe, vecchie e consumate come sono, ti sopravvivranno senza neanche sapere perché.» Continuando a farfugliare era entrato nel suo piccolo studio, dove in bella mostra su un ripiano della libreria c’era la sua collezione di animaletti di ceramica dipinti a mano. Si fermò proprio lì davanti, col tono della voce che cresceva di parola in parola.
«Anche voi mi sopravvivrete. Voi, che senza di me non sareste mai esistiti, se non vi avessi creato io non lo avrebbe fatti nessuno! Voi, che senza il valore che vi do io non valete niente… non è giusto… no, non è giusto!» gridò spazzandoli rabbiosamente via dal ripiano con l’avambraccio. Le statuette caddero a terra e Carpetti cominciò a calpestarle e a prenderle furiosamente a calci, urlando e piangendo, finché così come aveva cominciato si bloccò di colpo. Andò a sedersi col vago intento di riflettere, e dell’uomo meticoloso e ordinato che era uscito di casa appena tre ore prima non era rimasto niente. I riccioli neri gli si erano gonfiati a dismisura in tutte le direzioni, la fronte convessa si era riempita di rughe rossastre, le punte interne delle sopracciglia erano protese verso l’alto come in una supplica. Gli occhi erano gonfi come se avesse pianto per giorni, un tremito prepotente lo scuoteva da capo a piedi. Nel volgere di poche ore aveva perso tutto quanto, tutte le inutili certezze che lo avevano portato fino a lì: cercare di vestirsi in modo inappuntabile, controllare sempre che fosse tutto in ordine, arrivare sempre in anticipo di cinque minuti. Guardare il primo telegiornale della mattina per essere informato su tutto, per avere la sensazione di essere padrone degli eventi. Tutte le cose che lo avevano aiutato a non pensare, che gli avevano sempre dato sicurezza, non avevano ormai più alcun senso. Niente aveva più senso, e d’improvviso lo colse il dubbio che niente lo avesse mai avuto.
«Le medicine» si disse a voce alta scattando in piedi, si vestì di nuovo e uscì di corsa. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno, presto gli uffici sarebbero chiusi.
Uff, non pensavo che scrivere fosse così impegnativo! E poi, temo che questa storia sia troppo patetica, troppo noiosa… a chi potrebbe mai interessare una storia come questa? E poi ora come vado avanti? Avevo tante idee, ma ogni volta svaniscono di punto in bianco… È strano, è come se io decidessi che il racconto deve procedere in una certa direzione e che invece poi lui facesse di testa sua… Cosa farà adesso Carpetti? E quelle medicine? Gliele daranno, o magari gliele negheranno perché supera il reddito? Non ci sarebbe certo da meravigliarsi, di questi tempi! E la sua guida spirituale come gliela faccio incontrare? E soprattutto, chi diavolo è la sua guida spirituale? Mah, proviamo ad affrontare un problema alla volta! Queste erano le riflessioni di Franco mentre si gustava un tè freddo, disteso sul lettino in terrazza. Intanto si godeva gli odori che salivano con la frescura della sera, dopo che l’aria era stata irrespirabile per tutto il giorno. D’improvviso gli tornò a mente un articolo di giornale che aveva letto qualche tempo prima. Parlava di un vecchio rimasto senza denti durante la guerra, un giorno lo Stato gli aveva intimato di pagare la dentiera che gli aveva dato oppure di restituirla.
CAPITOLO VI (NIENTE MEDICINE)
«Buongiorno. Ho un problema» esordì Carpetti, la donna aldilà del vetro gli rispose con uno sguardo infastidito. Era pesantemente truccata e ingioiellata, come se dovesse andare a una festa, aveva già indossato il cappottino col collo di pelliccia e non si preoccupò minimamente di nascondere il proprio disappunto per l’ora tarda.
«Dica pure» replicò senza alcuna partecipazione.
«Mi è stata appena diagnosticata una malattia per la quale devo prendere un farmaco molto costoso… sono venuto a chiedere l’esenzione.»
«Allora dovrà tornare, intanto le do questi due fogli. Sono la domanda da compilare e la lista dei documenti da allegare.»
«Non c’è bisogno che io torni, ho tutto qui con me. Se mi concede tre minuti compilo la domanda mentre lei controlla i documenti, così potrà avviare subito la pratica» replicò lui.
La donna lanciò un’altra occhiata all’orologio a parete e sospirò, poi tornò a guardare di sbieco Carpetti.
«Vediamo… la dichiarazione dei redditi l’ha portata?» gli chiese, e lui annuì.
«Lo stato di famiglia?»
«Si.»
«Il codice fiscale?»
«Se invece di farmi tutte queste domande mi lascia compilare il mio foglio e guarda nella cartella che le ho dato, vedrà che non manca niente! Ho portato tutti i documenti necessari» fece lui bruscamente.
La signora buttò gli occhi al cielo e sbuffò, indecisa se ribattere o meno, poi pensò che il venerdì era vicino e scorse distrattamente i fogli.
«A prima vista non mi pare che lei rientri nella fascia di reddito per cui è prevista l’esenzione» sentenziò.
«Ma com’è possibile? Con quello che guadagno arrivo appena a fine mese!» domandò stupito lui.
«Non si scaldi» replicò la donna con voce calma, aveva trascorso anni in quella trincea e disponeva di mille risorse per combattere chi stava dall’altra parte della barricata.
«Mi scusi, non volevo essere scortese… è che ne ho proprio bisogno, di quelle medicine» fece lui quasi sottovoce guardandosi le scarpe.
«Bene, allora intanto veda di calmarsi perché io non c’entro niente, non le faccio certo io quelle tabelle» puntualizzò lei in un tono lievemente inacidito sbirciando ancora una volta l’orologio.
«Mi scusi di nuovo, è che sono molto teso… quelle medicine mi servono davvero urgentemente» insisté Carpetti. La donna alzò la testa e col dito indice si spinse indietro gli occhiali sul naso come per metterlo meglio a fuoco.
«Senta, io vedo dozzine di persone ogni santo giorno. Vengono a chiedere l’esenzione perché denunciano un reddito molto minore del suo, e poi magari se ne vanno al ristorante tutte le sere e girano in auto di lusso. Certamente lei non farà parte di quella categoria, ma io non posso davvero farci niente. Vada a protestare con chi le crea, queste situazioni, e soprattutto con chi le sfrutta» sentenziò. Ci furono pochi istanti di silenzio, durante i quali Carpetti valutò tutte le possibilità. Sapeva che mettersi a gridare non gli sarebbe servito.
«E allora cosa devo fare?» chiese nel tono più gentile che gli riuscì.
«L’unica cosa che può fare è una inoltrare una domanda di rimborso speciale da inviare al Presidente di Regione. Se le verrà accordato provvederanno a rimborsarla entro due anni, le sarà sufficiente conservare le ricevute delle spese che ha sostenuto per acquistare le sue medicine.»
«Forse non mi sono spiegato bene» rispose lui cambiando di colpo espressione e tono di voce. «Io non dispongo del denaro sufficiente per comprarmi le medicine, altrimenti non sarei qui a umiliarmi davanti a una perfetta sconosciuta! E senza quei farmaci, ogni due giorni che passano perdo la possibilità di viverne uno in più!»
«Non so cos’altro dirle, se non è convinto si rivolga a qualche altro ufficio» ribadì la donna dopo un lungo istante di silenzio, per niente toccata dalle parole di Carpetti. «Mi dispiace» aggiunse più per abitudine che per altro, poi allungò la mano verso la cordicella per abbassare la tapparella.
«Non è vero!» gridò Carpetti sbattendo sul vetro una manata così violenta che strappò un sobbalzo alla donna. «Non è vero che ti dispiace. Di quelli come me non te ne frega niente, tu pensi solo ad arrivare a fine mese per prenderti lo stipendio che ti ho garantito io pagando le mie tasse! Tra poche settimane morirò, e la colpa sarà anche tua perché non hai voluto aiutarmi!» continuò a urlare. La donna scomparve dietro la tendina celeste ma lui continuò a tempestare di pugni il vetro gridandole contro, con gli occhi quasi fuori dalle orbite a causa della rabbia, finché una guardia giurata lo afferrò per la giacca e lo trascinò di peso fuori.
No, no, No! Non mi piace! E’ troppo patetico, troppo noioso! PA-TE-TI-CO! E puerile, infantile, con questa protesta da adolescente che lotta contro il Sistema. Ma perché scrivere una storia deve essere così maledettamente difficile? Eppure sono convinto che qualsiasi idea possa essere interessante, dipende soltanto da come la si racconta. E da quanto amore ci si mette dentro, come in tutte le cose… ma questa è tutta troppo idealizzata, troppo distante dalla realtà. Devo riuscire ad immedesimarmi di più. Devo riuscire a pensare come lui, a sentirmi come si sentirebbe lui. Forse devo rileggere quello che ho scritto finora, magari mi verrà fuori qualche modifica.
CAPITOLO VII (DEVO LAVORARE)
Carpetti rientrò in casa e tirò dritto in corridoio per andare a buttarsi sul letto, l’appetito gli era definitivamente passato. Il pesce nell’acquaio si era ormai scongelato e aveva cominciato a diffondere un odoraccio per la casa, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Stava spendendo tutte le sue energie per cercare di ragionare, di farsi venire un’idea per ottenere quei medicinali. Ma stava davvero troppo male. Un malessere quasi fisico lo attanagliava da capo a piedi impedendogli di pensare, si sentiva annullato, come se qualcuno o qualcosa avesse già provveduto a cancellarlo dalla faccia della Terra. Stremato dall’emozione crollò di colpo per cadere in uno stato di tormentato dormiveglia, durante il quale gli riaffiorarono ricordi sepolti ormai da anni in fondo alla memoria. Rivide la casa nella quale era cresciuto, umida e buia, di quelle con i muri spessi e le mattonelle del pavimento in graniglia. Una di quelle case antiche che hanno un odore particolare di umido e di polvere, che ti torna familiare nelle narici soltanto quando lo senti di nuovo dopo qualche tempo. E rivide la strada di periferia nella quale giocava da bambino, sporca, con i lampioni rotti dalle sassate dei suoi compagni di giochi. La stessa strada dalla quale un giorno suo fratello era partito senza più fare ritorno, qualcuno mormorava a causa della droga. E poi sua madre, con quegli occhi sempre tristi, con sempre indosso lo stesso vestito. E suo padre, che tutte le sere tornava distrutto dal lavoro, si sedeva a tavola senza aprire bocca, cenava e andava a dormire. Carpetti rimase in quello stato per tutto il resto della giornata e tutta la notte seguente, il risveglio arrivò presto e lo trovò sempre più confuso. Per qualche istante osò sperare che il giorno precedente non fosse realmente trascorso, sperò che si fosse trattato piuttosto di un brutto e interminabile incubo. Ma dopo aver continuato a fissare per un po’ il soffitto abbandonò quella sensazione di parziale distacco da sé stesso, come se quella cosa stesse capitando a qualcun altro e non a lui, e decise di provare a farsi forza. Si disse che quello non era il modo giusto di affrontare quell’assurda situazione e decise di reagire. Si alzò e andò a studiare il calendario appeso al muro, dal quale una soubrette gli lanciava sguardi sexy. Aveva comprato quel calendario anno dopo anno, era stata da sempre la sua unica concessione alle cose futili e la sua unica Uscita di Sicurezza verso il Mondo della Fantasia. Contò i giorni, e poi le settimane e i mesi, e poi le ore e addirittura i minuti, usando le dita, finché si guardò le mani. Provò pena per sé stesso e per loro pensando che un giorno non lontano si sarebbero fermate per sempre, e due lacrime silenziose gli scesero lungo le guance un po’ paffute. Devo lavorare, è triste dirselo ma il lavoro è l’unica cosa che mi rimane realizzò di colpo. Carpetti era magazziniere in una ditta di distribuzione di acque minerali e non amava né quel mestiere né il datore di lavoro, ma non aveva avuto molto da scegliere. Inoltre quel lavoro gli permetteva di tirare avanti, per di più, per quanto lo odiasse, adesso era l’unica cosa che gli restava per non fermarsi a pensare.