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Le Mura Di Tarnek
Le Mura Di Tarnek

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Le Mura Di Tarnek

Язык: Итальянский
Год издания: 2019
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“Certo, maestro”.

“Bene. La tua obbedienza significa molto per me, perché presto avremo un lavoro serio. Questo cliente è qualcosa che aspetto da mo’, e che potevo soltanto sognarmi”.

“Deve avere trattarsi di qualche riccone”.

Kulu sorrise. “Che apprendista ingenuo! Certo che si tratta di un riccone, ma non è tutto qui. Comunque, la cosa non ti riguarda. L’unica tua preoccupazione dev’essere di poter rispettare le scadenze che ti imporrò. Se non ne sei in grado, sta’ pur certo che ti manderò in rovina. Con la quantità di balsamo, vestiti e materiale con cui ti pago posso assumere anche una decina di kasi”.

“Spero che il mio lavoro valga la paga che mi date”.

L’altro fece un cenno con la testa. “Solo non pensare che io non possa farcela senza di te. Hai una mano esperta, ma Tarnek è grande. Nessuno è insostituibile”.

Neanche tu, pensò Gihtar tenendosi l’osservazione per sé.

“Farò tutto quel che mi ordinerete”.

“Allora ci siamo capiti. Ora ascoltami bene. Oggi tu e Lenora vi riposerete, vi lascio liberi fino a domani. Sirmiona pensa che sono troppo generoso, ma non posso andare contro la mia natura. Bada solo che questa non diventi un’abitudine, perché il giorno successivo sarà molto impegnativo”.

Desideroso di riposo, l’apprendista non mosse alcuna obiezione a quanto proposto. Accetta tutto ciò che ti viene offerto, questa era la regola che aveva da tempo fatto sua durante il suo servizio.

“Un’altra cosa. Sposterai immediatamente tutta la merce nello scantinato. Le porte della bottega devono essere costantemente chiuse a chiave, e non aprirai a nessun altro che a me. Nemmeno a Sirmiona. Se verrà a trovarti, fa’ finta di non sentirla. Non cedere neanche se alza la voce, e soprattutto non metterti a discutere con lei. Sta’ semplicemente zitto, e se facesse problemi come solo lei sa, fa’ appello alle mie istruzioni. Sono io quello che servi, non dimenticarlo”.

“Tutto chiaro, maestro”.

“Manderò via Lenora per qualche giorno, non voglio che neanche lei sia presente”.

Questa volta Gihtar non poté nascondere il suo stupore. Non gli sembrava strano lavorare da solo, ma un ulteriore paio di mani rappresentava un sollievo a cui rinunciava a cuor pesante. “Non guardarmi così, so bene quel che ti dico. Se tutto andrà secondo i piani, sarà un bene anche per te. Siamo alle porte di un affare molto serio, e non permetterò che niente ci minacci. Ho passato tutta la notte a trattare”.

La luce nel padiglione. Pensavo che saresti venuto a controllarci. Sembrava che neanche Sirmiona godesse di fiducia illimitata. Probabilmente avrebbe escluso anche me, se non gli fossi tanto necessario.

“Non vi deluderò”.

“Sarà ben meglio. E ora torna nella bottega e riferisci a Lenora che siete liberi. Dopo le spiegherò tutto, ma tu preparati bene per quanto ti aspetta. E non dimenticare, non una parola a nessuno su quel di cui abbiamo appena parlato”.

»« »« »«

In quello spazio spartano che a lui spettava, meditò a lungo e profondamente. Un tempo Gihtar aveva avuto il diritto all’intera baracca dietro la bottega, ma dopo l’arrivo di Lenora aveva avuto il compito di dividerla in due parti. Quel mattino, proprio come il maestro aveva promesso, lei non c’era.

Grato per il riposo, non si era lasciato abbattere dall’idea degli impegni che lo attendevano, ma si era un po’ stupito quando Kulu gli aveva riportato i suoi ordini e gli aveva mostrato due nuovi stampi comprati apposta per ciò che lo aspettava. Prima di allora, era già stata una novità il nuovo forno con un bacino per il combustibile più profondo e un’imboccatura più stretta. Ciò a cui era destinato richiedeva una temperatura elevata e costante.

La produzione di coltelli, per la quale si prospettava un lavoro faticoso e delicato, era illegale, a meno che non si trattasse di una produzione appositamente commissionata. Non era il caso della bottega del maestro Kulu. Era perfettamente comprensibile perché fosse meglio evitare testimoni non voluti.

Gihtar non dubitava della propria abilità. Anche se non aveva mai forgiato nulla del genere, i bozzetti e le istruzioni che si era ritrovato davanti gli fornivano una risposta a tutte le incognite che avrebbero potuto causare qualche problema. Ciò che lo preoccupava era invece il tempo a sua disposizione. Dodici coltellacci, nel periodo previsto, non erano affatto un compito semplice. Sapeva che lo attendeva un lavoro come mai prima.

E in effetti, aveva proprio ragione.

I giorni alla forgia si fondevano in una lunga agonia piena di forti colpi di martello, fusioni e riforgiature, e l’arsura del forno e il rosso calore erano l’unico sole che i suoi occhi potevano vedere. Alcune volte si ritrovò sull’orlo della disperazione, sconfitto dal colpo dei coltelli che a fatica stava forgiando. Anche quando completava con successo il processo di forgiatura, poteva succedere che non raggiungesse il bilanciamento desiderato, cosa che lo riportava al punto di partenza. Se non altro, poteva perlomeno lavorare indisturbato, non lasciava mai il laboratorio, il maestro lo aveva rifornito di una quantità più che sufficiente di balsamo, e si concedeva brevi meditazioni solo in caso di estrema necessità, su un lenzuolo scolorito vicino alla massiccia incudine.

Le rare visite di Kulu mostravano segni di comprensione al di là di ogni attesa. Non commentava i frantumi dei tentativi infruttuosi, cosa assolutamente insolita per il suo carattere. Tutto era indirizzato a confortarlo, e a spronarlo a perseverare nel lavoro. Anche se la ragione di tale comportamento lo faceva impazzire, la cosa faceva piacere a Gihtar.

Trascorse quasi un intero trimestre prima che portasse anche l’ultima arma ormai finita nello scantinato. L’orgoglio e il sollievo si mescolavano con una profonda spossatezza, e lui si sentiva rinvigorito dal ferro su cui posava lo sguardo. Un gran lavoro, e probabilmente la più grande sfida della sua vita, era ormai un’impresa fruttuosa alle sue spalle. Che qualcuno lo ammettesse o no, come mai prima di allora era certo del proprio posto nel mondo. Il maestro Gihtar.

Quella sera stessa Kulu si presentò nella bottega con un altro kas. Dunque, ecco il cliente.

Intorpidito dalla stanchezza, Gihtar era più rilassato che mai.

“Questo è il mio apprendista”, lo indicò il maestro con la mano. Non gli aveva chiesto di uscire, ma ogni traccia di amorevolezza era ormai svanita. “Porta qui la merce”, tagliò corto.

Di primo acchito il committente sembrava assolutamente ordinario, non si distingueva affatto da tutti gli altri che erano passati di lì. La camicia di seta, così comune ed economica, era sbottonata ai limiti del buoncostume, mentre i pantaloni erano infilati in alti stivali di pelle cotta. Persino io ne ho di migliori, un accenno di risata pervase Gihtar, ma riuscì a trattenersi. Il volto dello sconosciuto, quasi latteo come una pietra bianca, freddo e duro con le labbra tirate, faceva un’impressione ben più forte. Chiunque fosse, questo kas aveva attorno a sé un’aura di autorità: era quella la sensazione che provava, mentre l’uomo osservava in silenzio le dodici spade che, tornato dallo scantinato, Gihtar aveva riposto sul tavolo di fronte a lui. A giudicare dalla postura anche Kulu aveva avuto la stessa sensazione. Si tormentava nervosamente le dita, senza distogliere lo sguardo dall’acquirente.

“Sono fatti col metallo più raffinato, che ne pensate? Prego, prendetelo in mano… sentite com’è al tatto”.

Obbedendo al maestro, l’uomo afferrò l’elsa e fece qualche movimento agile e veloce attraverso l’aria. L’arma sembrò cantare nelle sue agili mani. L’ho fatto io, pensò Gihtar, io li ho forgiati e questo kas può uccidere con essi. Solo l’abilità poteva risvegliare la natura mortifera di un coltello. Guardando con quale abilità l’arma si muoveva nelle sue mani, Gihtar comprese che questa era l’ultima cosa che mancava al misterioso ospite.

“È un buon lavoro, maestro. Proprio come avevi promesso”.

Kulu prese a vantarsi.

“Il mio nome è noto in lungo e in largo. In tutto ciò che faccio lascio una parte di me”.

Il maledetto si fa bello del mio lavoro. Non che fosse una novità, ma questa volta la situazione era ben diversa. Se per tutti i braccialetti, le collane, le corazze, le piastre e tutte le altre cose gli era toccato creare senza nemmeno la parvenza di ricevere il benché minimo riconoscimento era riuscito a rimanere zitto, non aveva intenzione di lasciar correre con quest’ultima sua creazione. Le armi che aveva forgiato erano qualcosa di ben più serio – non erano orecchini e accessori che qualcuno avrebbe indossato nell’insensato tentativo di imitare la bellezza e la gloria. Erano la prova della sua maturità – come fabbro e come kas. È vero che una parte di qualcuno rimane impressa per sempre nel ferro lucente, ma questa parte non apparteneva a chi lo aveva dichiarato. Da dove si è preso un simile diritto? Gihtar aprì la bocca, pronto a difendere il proprio onore ad ogni costo, ma prima di riuscire a emettere un suono, rimase atterrito. Se l’impudente tentativo dell’apprendista aveva colpito il maestro, non era il caso del committente.

Il suo sguardo gli imponeva di trattenersi.

Non pensò neppure di mettere in discussione quanto gli avevano ordinato quei due occhi di un nero brillante nello spazio di un secondo. No. Il viso era privo d’espressione, ma gli occhi ardevano di vita.

“I miei servitori passeranno a ritirare la merce e ti porteranno la somma pattuita. Entro stanotte”, le labbra tirate si aprirono solo per far passare le avide parole.

Kulu chinò la testa. “Va bene, va bene. L’importante è che nessuno sospetti…”.

“Non preoccuparti. Piuttosto fa’ attenzione che la tua lingua non si spinga troppo oltre”.

“Non c’è di che preoccuparsi, la discrezione è il mio motto. Spero che lavoreremo a lungo insieme e che ne siate soddisfatto”.

Il suo interlocutore chinò la testa. “Per quanto riguarda il tuo inventario…”, ma non finì la frase. Kulu, con un’impazienza totalmente in disaccordo con il comportamento tenuto fino ad allora, alzò la mano bloccandolo a metà della frase.

“Questi sono solo inutili braccialetti, anelli e qualche altra robetta. Non li terrei nemmeno, se non mi ci avessero costretto i debitori. Ci sono kasi di ogni sorta – arrivano, ordinano la merce, la portano via e non pagano. E così io m’impoverisco, devo darmi da fare e prego Dio di riuscire a ripagare almeno un po’ le mie pene, almeno con questi ninnoli. Ecco il motivo per cui ce li ho”.

“Dunque non sarà un problema vendermeli”, rispose pacifico l’estraneo. Kulu fece un cenno di dissenso.

“Non vi arrabbiate, ve ne prego. Vi ho detto che non voglio farlo. La mia Sirmiona è solo una kasa, le ho dato la mia parola che questi gioielli sono suoi”.

“Sei un uomo d’affari. Ogni cosa ha un prezzo”.

Gihtar riusciva a percepire la pena del maestro. Non poteva immaginare di quali gioielli si trattasse, ma la consapevolezza della sua sottomissione alla kasa con cui condivideva il tetto lo divertiva. Era strano, lo conosceva bene e sapeva che per il giusto prezzo avrebbe venduto la sua stessa pelle. Come ha fatto quella lì a comprarlo?

“Vi prego”, continuò Kulu quasi implorandolo, “posso farvi delle copie identiche. Le farò per metà del prezzo che farei a chiunque altro, cosa ne dite? Come gesto dalla mia buona volontà, in vista dei lavori futuri”.

“Non dubito della tua abilità”. Il suo sguardo si soffermò appena un attimo su Gihtar. “Sono certo che le copie sarebbero persino meglio degli originali. Tanto buone che neanche l’interessata si accorgerebbe della differenza”.

Pur messo con le spalle al muro, il maestro non si arrendeva. “Non sono in vendita”, la sua voce era secca ma decisa. Come se non fosse successo nulla, il suo interlocutore s’inchinò velocemente e si avviò verso la porta.

“Non serve che mi accompagni, conosco la strada”.

Kulu si trattenne ancora un po’ nella bottega, senza accennare a quanto era appena successo. Fissava l’inventario con aria assente, borbottava fregandosi la barba e scrutava quasi impaurito in ogni angolo. Poi si tranquillizzò e ordinò a Gihtar di riposarsi fino all’indomani, regalandogli un sorriso amichevole in segno di riposta quando quegli gli chiese altro tempo libero. Erano trascorsi tre mesi di lavoro sanguinoso, e a giudicare dalle parole del maestro tutto si sarebbe dovuto concludere così. L’apprendista lo maledisse tra sé e sé e poi, dopo lungo tempo, si diresse verso la propria baracca.

La stanchezza accumulata fece la sua parte. Non appena ebbe incrociato le gambe e appoggiato le spalle al freddo muro, gli occhi si chiusero da soli. Il silenzio lo inondò, e iniziò a cullarlo dolcemente. Le emozioni gli inondarono il corpo e lo attraversarono fino alla punta delle dita, dalla quale fuoriuscirono in lontananza e tornarono depurate. Da lì tutto si sfogava, e lui sentì un piacevole flusso di tensione che presto sarebbe sparito dagli arti. Finalmente.

Quando una voce iniziò a parlare, cercò invano di sobbalzare.

“Lo odii?”, nel silenzio più assoluto il sussurro risuonò come un tuono.

“Chi va là?”, il corpo non obbediva, gli occhi continuavano a restare chiusi, ma almeno la voce non si rifiutava di obbedire. “Chi va là?”, domandò nuovamente. Conosceva la risposta prima ancora di ottenerne una.

“Calmati, non avere paura. Puoi chiamarmi Set”.

“Pensavo… pensavo foste uscito”.

“Sono tornato per dare il giusto riconoscimento al tuo lavoro. Da molto tempo non m’imbattevo in un simile ferro. Dimmi, lo odii?”.

Qualcosa nel suo tono, nell’atmosfera in generale, lo liberò dalla paura e gli fece provare un’inspiegabile vicinanza. Gihtar sapeva di non poter mentire. E non voleva mentire.

“Lo odio”, rispose.

“Anch’io lo odierei, se fossi al tuo posto. Sei più in gamba di lui, più in gamba di molti altri. Eppure, sei un semplice prigioniero. Sei uno schiavo, Gihtar”.

“Sono solo un apprendista”.

Il riso riempì lo spazio avvolto dalle tenebre. “Sei solo quel che vuoi essere. Ognuno sceglie il proprio destino, artigiano”.

“Faccio ciò che Dio mi ha donato con il mio risveglio”.

“Dio ti ha assegnato il ruolo di maestro, ma lui non te lo permetterà mai. Perciò lo odii. Tu non sei un maestro”.

“Posso creare ciò che m’immagino. Sono un maestro”.

“E il suo schiavo. A che serve l’abilità se non puoi godertela?”. Set aveva colpito un punto delicato. Perché non riesco a calmarmi?

“Che cosa volete?”, domandò. L’assenza di paura era assolutamente incredibile. Mi ha stregato. In qualche modo ci è riuscito.

“Te l’ho già detto. Sono qui per darti il giusto riconoscimento, ma anche per farti un’offerta. Desideri la libertà, Gihtar?”.

Non rispose subito. Forse è tutto un tranello, forse Kulu mi sta mettendo alla prova. Che sia un esame della mia maturità? Non aveva mai sentito di una pratica simile, ma il suo padrone era uno che si discostava spesso dalla norma. Qualcosa accanto a lui frusciò, e lui comprese che non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Non ora, non dopo tutto quel che aveva passato. Se Set se ne fosse andato, avrebbe potuto perdere per sempre ogni possibilità. Sarebbe andato fino in fondo, senza curarsi dell’esito.

“La voglio”.

“Quanto?”.

“Più di ogni altra cosa”.

La voce si fece più vicina. “Posso dartela, ma dovrai fare alcune cose, e farle esattamente come te le dirò. L’unica cosa che voglio è che tu sia risoluto nella tua decisione. Non c’è prezzo per quanto ti viene proposto, ma dovrai essere pronto a batterti”.

“Sono pronto”, rispose Gihtar. Lo era davvero, più che mai.

“Allora ascoltami con attenzione e cerca di ricordarti ogni mia parola. Un’occasione migliore, caro apprendista, non l’avrai mai”.

»« »« »«

Mancava ancora qualche ora all’alba, e Gihtar si sentiva comunque più stanco di quanto fosse stato da molto tempo. Anche se non c’era rischio che lo sentissero, scivolò silenziosamente attraverso la porta socchiusa della baracca, e tenendo d’occhio le ombre sgattaiolò fino al muro della bottega. Nella stanza aveva qualche metro di tela morbida, ottenuta in pagamento, e vi avvolse le suole rinforzate delle sue scarpe. Nel silenzio notturno si muoveva senza fare alcun rumore.

Questa volta la bottega non era la sua destinazione. Era uno scarto rispetto alla pratica ormai da anni consolidata, ma era un nonnulla rispetto a quello che sarebbe dovuto accadere dopo. Per quanto fosse il simbolo della sua sofferenza e dell’ingiustizia subita, amava quel posto. Là da qualche parte mi attende qualcosa di meglio e di più bello, pensò mettendosi a cercare la risolutezza dentro di sé. Le istruzioni erano chiare, presto tutto ciò sarebbe stato soltanto una parte del suo difficile passato. Per sempre alle mie spalle.

Il giardino era inondato dalla luce lunare. All’altra estremità si trovava il padiglione, che – come un fiore – si levava in alto su uno zoccolo di pietra. Da qualche parte laggiù meditavano Kulu e Sirmiona, incuranti della propria insolenza, sicuri della certezza di cui godevano immeritatamente. Non farò più parte di tutto ciò.

In pochi passi Gihtar si trovò accanto al muro che cingeva la proprietà, ma non si diresse verso il cancello principale. Non ancora. Il terreno dietro la baracca non era così ben ordinato, ma rappresentava piuttosto l’altro lato della vita nella proprietà di Kulu, di cui lui stesso faceva parte. Pezzi rozzi di minerali e materie prime non lavorate erano accatastati in grosse pile nell’attesa che mani esperte dessero loro forma. La loro quantità non era conseguenza di un’attenta raccolta delle riserve, ma il frutto di un insensato acquisto di tutto ciò che si poteva avere con la minima spesa. A volte per mesi si accumulava solo legname, mentre vi erano periodi in cui ogni cinque giorni vi si scaricavano i metalli più svariati, spesso perdendo la possibilità anche solo di registrare quanto era stato così depositato. Ogni tanto accadeva che una pila crollasse, e se presagiva tale possibilità, il maestro la preveniva esortandoli a lavorare come dei forsennati e a riversare articoli già pronti nell’immenso magazzino sotterraneo.

Ciò che lo interessava era il portone di servizio, e notò con felicità che era vuoto. Il compito di Tolum prevedeva tra le altre cose di montarvi la guardia durante la notte, ma la pigrizia riempiva ogni parte del suo essere. Probabilmente per la gran mole di lavoro e perché conducevano esistenze separate, Gihtar non aveva mai avuto l’occasione di conoscerlo meglio e anche i pochi contatti che avevano avuto non avevano suscitato in lui un desiderio più serio. La guardia era un’armatura vuota, tanto priva di personalità e tanto ordinaria che gli dava fastidio anche solo dedicargli i propri pensieri. Un tempo si era interrogato sul suo rapporto con il maestro, se anche lui condividesse la grave pena di un arduo servizio, ma alla fine si era stancato di tutto ciò. Se qualcuno meritava un superiore come Kulu, quello era Tolum.

Come sempre, l’ampio portone era ben sbarrato. Gihtar dubitava che qualcuno se ne fosse occupato mentre lui era impegnato alla forgia. Aveva avuto indicazioni di svolgere tutti i lavori pesanti e probabilmente proprio una serie di incarichi era l’unica ricompensa che lo attendeva nei giorni successivi. Bussò con calma sul portone al ritmo del segnale concordato, e due ombre passarono come un fantasma presso il muro e si appostarono sulla sua sommità senza compiere più alcun movimento. Persino a una tale vicinanza era difficile distinguerle dall’ambiente circostante. Sicuramente per loro non è la prima volta.

Doveva procedere oltre.

Mentre lasciava i cumuli delle scorte alle sue spalle, gli sembrò di vedere un movimento sul muro opposto, ma non riuscì a capire se era solo la distanza a prendersi gioco di lui. Tieni conto solo di quanto ti dico di fare, gli era stato chiaramente indicato, e fermamente deciso ad attenersi a tali istruzioni si avvicinò alla dimora di Kulu. Si fermò solo quando avvistò Tolum.

Era un kas grande e grosso, e ciò che impediva alla sua figura intera di essere armoniosa erano di fatto le mani – innaturalmente piccole in rapporto alla sua altezza, indubbiamente funzionali e tuttavia troppo impacciate per poter possedere qualche qualità più nobile della forza bruta. Lo stemma maldestramente ricucito del maestro Kulu, un martello da fabbro circondato da quella che sarebbe dovuta essere una collana, s’intravedeva appena sulla stoffa scadente della tunica che persino sotto il manto della notte appariva sporca. Se non riesco a convincerlo, sarò in guai grossi. Tastò il pezzo di carta rilegata e lo strinse forte. Le cose erano ormai andate troppo oltre, non poteva più tornare indietro e tutto quel che poteva fare era riporre la speranza nell’attendibilità delle promesse di Set. Nella tasca troverai un messaggio. Non leggerlo per nessuna ragione, ma dallo al guardiano quando arriverai sul posto.

“Tolum”, lo chiamò sottovoce. Non vi fu alcuna reazione. Quanta devozione al proprio dovere. “Tolum”, tentò un po’ più forte, temendo per le possibili conseguenze. Anche se il guardiano era duro d’orecchi, i due dentro il padiglione no. Per fortuna, riuscì a strapparlo al suo sonno e lui alzò lo sguardo. Gihtar fece un passo avanti, facendogli segno con le mani di non fare rumore.

“Che ci fai qui?”, sussurrò il guardiano.

“Sono venuto a portarti questo”, gli porse il rotolo. Tolum lo fissò guardingo.

“Che cos’è?”.

“Una lettera per te”.

“Una lettera? Sai che ora è?”.

“Prendila e leggila, su”.

“Non dovresti essere qui”, continuò l’altro, si guardò attorno, poi aggiunse più piano: “Da parte di chi?”.

“Ti prego, prendila”.

Tolum infine obbedì, e sembrò trascorrere un’eternità prima che riuscisse infine a sciogliere la cinghia con cui era avvolta. Gihtar poteva distinguere le spesse linee che formavano le poche parole, ma il guardiano dovette avvicinarla al volto. Per fortuna, sa leggere. L’alfabetizzazione non era affatto una rarità, ma nel caso di Tolum non lo avrebbe sorpreso il contrario.

Qualsiasi cosa vi fosse scritta, ebbe un certo effetto. L’uomo nascose in tutta fretta la carta sotto la cintura, e si passò le mani impacciate tra i radi capelli.

“Spero che non sia un qualche trucchetto. Se mi prendi in giro, te ne pentirai”. Benché dovesse suonare come una minaccia, dalla forte apprensione nella sua voce risultò quasi buffa. Gihtar aveva la risposta pronta e sperava che servisse allo scopo.

Occhio di Luna, non ho altro da dirti”.

Tolum rimase di stucco, come se non potesse credere a quanto aveva appena sentito. Poi si mosse di scatto e iniziò ad allontanarsi a passi veloci verso la bottega. Proprio quando iniziava a pensare di essersene sbarazzato, quello si fermò, si voltò verso di lui e fece qualche passo avanti.

“Non muoverti da qui. Finché non torno”.

“Non c’è fretta. Ma non fare rumore”.

Il guardiano chinò la testa e riprese ad affrettarsi. In breve tempo di lui vide solo i contorni, e poi le tenebre si chiusero attorno a lui. Gihtar si sentiva a disagio. Non si sentiva alcun rumore.

Ancora un po’ e tutto sarà compiuto. Ora che l’ostacolo principale era stato aggirato, il pericolo di essere colto sul fatto era di gran lunga inferiore. Combattendo con l’agitazione si trascinò fino all’ingresso principale e tirò la maniglia che apriva il battente. Il cigolio del meccanismo squarciò la notte, finché l’ultima difesa della sicurezza di Kulu non si aprì per lasciare spazio a ciò che doveva accadere.

Tutto si svolse come un lampo.

Preoccupato che il rumore potesse risvegliare i proprietari, Gihtar si diresse verso il padiglione, giusto in tempo per vedere delle figure ombrose scivolare abilmente sulla rampa e prendere posizione accanto al portone indifeso. Mentre cercava rifugio al riparo del muro, attraverso il silenzio riecheggiò un’esplosione e lui con un malevolo piacere di cui non avrebbe mai neppure immaginato di essere capace capì che avevano fatto irruzione. Sirmiona lanciò un urlo acuto quando la luce di una fiaccola illuminò l’ambiente. Farà loro del male? Dalla distanza a cui si trovava non poteva vedere l’interno, ma i rumori portati dal vento gli fecero comprendere che nelle stanze del suo padrone non stava succedendo niente di piacevole.

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