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Le Mura Di Tarnek
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Le scale in pietra erano strette, ma per tutta la loro lunghezza sporgevano dalle pareti dei corrimani in ferro. Anche se la luce delle torce era sufficiente, pensò che ci andava particolare attenzione, soprattutto durante la discesa. Tutto traspirava un’estrema ordinarietà. Non c’erano rilievi o altro che indicasse la peculiarità del posto verso cui si era incamminato. Terminata l’ascesa, si ritrovò di fronte a una porta solitaria, quasi identica a quella che si era lasciato alle spalle, con un battente eccezionalmente pesante a forma di quadruplice occhio. Lo stesso simbolo gli pendeva sul petto, lo portavano tutti coloro che avevano subordinato la propria esistenza a Dio. La superficie metallica era piacevole al tatto e lui bussò.

“Entra”, riconobbe la voce del Sacerdote.

L’ambiente era tanto grande quanto il diametro della torre, ma le pareti non erano abbastanza per accogliere tutti i tomi rilegati in pelle che quella tesoreria ospitava. L’eccedenza era disposta ordinatamente in pile che senza un criterio visibile spuntavano in diversi punti, in particolare intorno a un massiccio tavolo la cui parte anteriore era decorata con dettagli che non riusciva a riconoscere. Quando fece un passo sul sontuoso tappeto che ricopriva il pavimento, la morbidezza sotto i suoi stivali fu tale che per un attimo pensò di togliersi le scarpe. Stregato dal calore, si accorse della presenza del Sacerdote solo quando quegli gli rivolse nuovamente la parola.

“Ti piace quel che vedi?”. Era stato tutto il tempo accanto al tavolo, ma Sarius non lo aveva neppure notato. Devo sembrare uno stupido.

“È stupendo… vostra santità”. Per la forte agitazione per poco non si era dimenticato a chi si rivolgeva.

Il Sacerdote sorrise. “Condivido la tua osservazione. Ogni kas sapiente prova venerazione di fronte alla conoscenza che ci suggeriscono i libri”. Un grande occhio di giada pendeva sopra di lui, quasi vivo alla luce delle candele che bruciavano su quattro candelabri di acciaio nero. “Avvicinati, Sarius, avvicinati senza timori”.

Obbedì, ma non osò parlare.

“Immagino che t’interessi sapere perché ti ho chiamato?”.

Il predicatore chinò la testa in un cenno d’assenso. “Vostra santità, spero che siate soddisfatto del mio servizio”.

“Più che soddisfatto. Sai, anche se non sembra, seguo con attenzione il lavoro di ognuno”.

“Non ne ho mai dubitato”.

Il Sacerdote sorrise. “Tu no, ma altri probabilmente sì”.

È una domanda o un’affermazione? Sarius di solito non si faceva problemi a esprimere il proprio pensiero. Tuttavia, la situazione in cui si trovava non era ordinaria. Come se avesse percepito quel dilemma, il suo interlocutore continuò.

“Non preoccuparti, il dubbio è cosa buona. Ci rende attenti, e se siamo attenti vuol dire che peccheremo di meno. Al giorno d’oggi l’attenzione non basta mai, concordi?”.

“Concordo, vostra santità”.

“Questo è bene”.

Tios si mosse gentilmente di lato, senza distogliere lo sguardo da Sarius, e mosse la mano in direzione di un simbolo che si trovava sul muro. “Predicatore, dimmi, cosa vedi qui?”.

“Un occhio… vedo il quadruplice occhio”.

“L’occhio dell’Eternorisorto, simbolo del nostro Dio e della nostra fede”. Si toccò d’istinto il medaglione sul petto, come se cercasse una conferma della correttezza della risposta.

“Esatto. Non molto fantasioso, ma esatto”. Evidentemente soddisfatto di quanto aveva sentito, si avvicinò nuovamente al suo interlocutore, allargando le braccia. “E cosa vedi qui?”.

Sarius era confuso. Il miscuglio di tensione e di enigmi lo rendeva nervoso. L’esito di tutto ciò dipende da me?

“Non capisco, vostra santità”.

Sembrava che tutto ciò divertisse il kas davanti a lui. “Hai capito, predicatore. Non lasciarti tormentare dalle paure, ma rispondi così come hai risposto alla mia domanda precedente. Che cosa vedi qui, attorno a noi?”.

“Vedo… vedo… una stanza, santità. Il vostro alloggio”.

“E poi? Che altro?”.

“Vedo un tavolo, vedo dei libri… dei libri sugli scaffali… sul pavimento… vedo delle pergamene sul vostro tavolo…”.

“Altro?”.

Sarius si guardò più liberamente attorno. “Vedo delle matite sul tavolo, due… tre, una è caduta a terra… la vostra collana cerimoniale è appesa allo schienale della sedia… laggiù accanto alla porta una pila è inclinata come se stesse per cadere…”.

“Non è un esempio di ordine? Questa mia stanza?”, domandò il Sacerdote aggrottando la fronte.

L’ho offeso, Sarius fu preso dall’inquietudine. Anche se avrebbe voluto esserne capace, non aveva intenzione di mentire. Andrà come deve andare, ma se è tutto un suo gioco, giocherò onestamente.

“Non lo è, vostra santità”.

Quel che seguì fu una risata calda e rumorosa.

“La tua sincerità è una gioia per le mie orecchie. Penso che gli altri fratelli avrebbero accettato di farsi strappare gli arti prima di ammettere che negli alloggi personali del loro Sacerdote regna il caos. Neppure il mio sovrintendente avrebbe avuto il coraggio di farlo. Esatto, Sarius, qui attorno a noi si può vedere solo un gran disordine, ma ciò che ora vorrei che m’illustrassi, e prometto che non ti tormenterò più, è che cosa secondo te può esserne la causa”.

Questa volta rispose senza indugi.

“I vostri impegni. Sembra che siate sempre di fretta. Forse la mancanza di tempo per riportare le cose al proprio posto?”.

Senza smettere di guardarsi attorno, notava sempre più dettagli. Praticamente non c’era spazio in cima al tavolo che non fosse uniformemente ricoperto di polvere, e i pochi mucchietti di quest’ultima erano ulteriormente smossi dalle cose che venivano portate e rimesse a posto. Anche le pile di libri, a differenza di quelli sulle pareti, non erano disposte in ordine per colore o dimensione. Se fossero messe lì per mancanza di spazio, probabilmente avrebbero un qualche ordine. Ma mentre stava ancora formulando quest’ipotesi, si accorse del numero considerevole di fessure scure sugli scaffali. Non sono a terra perché non c’è spazio per loro, sono qui perché li sta leggendo. Era mai possibile? Ce n’era almeno qualche centinaio.

Mantenendo la promessa, il Sacerdote corroborò la sua affermazione.

“Il lavoro, predicatore, hai detto bene. Attorno a noi puoi vedere il lavoro”.

“Il lavoro”, ripeté Sarius.

“Proprio così. Qui ci sono dei simboli che ci ricordano chi serviamo. Eppure, il semplice simbolo o la divisa che indossiamo non ci rende suoi degni strumenti. Un Sacerdote incapace di comprenderlo non è più messaggero di Dio di un qualsiasi ignorante a cui li abbiamo dati perché li indossi. Solo il lavoro, un lavoro difficile e solerte, una completa dedizione e un’assidua ricerca della verità ci rendono ciò che siamo stati destinati a essere nel risveglio. Dalla Torre di Cristallo escono solo le ombre di ciò che deve diventare un’immagine dell’Eternorisorto. L’ombra di nulla deve diventare ombra delle sue idee, solo così siamo realizzati, solo così possiamo ottenere la perfezione. Ciò vale per noi come per tutti gli altri kasi”.

“Così è, vostra santità”.

“Purtroppo”, continuò Tios, “oggi siamo più persi di quanto non siamo mai stati. Lascio di rado lo spazio della chiesa e ne sono grato. Questo nulla che ha messo radici tra noi… è… è difficile trovare la parola giusta”.

“Rovinoso”. Sarius si era quasi liberato.

“Inammissibile!”, gli occhi del Sacerdote s’illuminarono. “Dobbiamo lavorare più che mai. Se vogliamo diventare almeno un pallido ricordo di quanto eravamo un tempo”.

Il predicatore chinò la testa. “Concordo perfettamente con vostra santità”.

“Allora siamo in due, caro mio. E per una stanza come questa è uno stato delle cose più che buono”. Come se aspettasse di trovarvi dei capelli, passò la mano sulla nuda pelle della testa, poi rassettò gli orli del mantello che oltre a lui in tutta Tarnek solo in quattro avevano l’onore di indossare. “Dimmi, com’è andata la tua attività odierna?”.

Lo sa, pensò Sarius, e ne fu grato. La situazione inattesa in cui si era ritrovato aveva quasi completamente scacciato il pensiero di quanto accaduto al rifugio. Riferì al Sacerdote ogni dettaglio, proprio come, inconsapevole di cosa lo attendeva al suo ritorno, aveva pianificato di fare di fronte al sovrintendente Kal. L’altro ascoltò il rapporto con grande attenzione.

“Hai agito bene, predicatore. Tenendo conto delle circostanze oserei dire con gran coraggio. Già stasera informerò l’Ordine”.

“Vi ringrazio”, s’inchinò Sarius. Voleva sentire il rapporto, voleva assicurarsi che avessi agito correttamente. A Tarnek tutti i muri hanno occhi e orecchie, ma voleva sentire cosa avevo da dire prima di credere alle voci di corridoio. Gli faceva piacere l’onore che gli era stato dimostrato ricevendolo personalmente. Per la prima volta da quando era tornato alla chiesa, provò un sincero sollievo. Durò appena un istante, finché il Sacerdote non prese nuovamente la parola.

“Passiamo ora al dunque. Non ti ho chiamato senza motivo”. Tios si avvicinò al tavolo e iniziò a frugare tra le pergamene sparpagliate qua e là.

Pensavo che desiderasse sentire il mio rapporto. Che stupido che sono.

“Stamane è arrivata una lettera”. Gli porse un involto mezzo arrotolato. Il timbro che lo proteggeva da occhi indiscreti era stato spezzato, ma Sarius lo riconobbe all’istante. Tre occhi disposti a piramide, il simbolo della Santa Fratellanza. Il simbolo dei Tre.

Non dovrei guardarlo.

“Leggila. Non morde”. Il Sacerdote sprofondò nella sedia. “T’inviterei volentieri a sedere, ma come vedi lo spazio scarseggia”.

Sarius srotolò con attenzione la lettera, tenendola per le estremità. La grafia era fitta, ma leggibile.

Il giorno dodicesimo del trimestre del Pensatore dell’anno 1989 la Santa Fratellanza della città di Tarnek ha tenuto una seduta straordinaria ed è giunta alla conclusione di cui venite informati per grazia dell’Eternorisorto:

Il Sacerdote Galanor, priore della Chiesa Vecchia di Tarnek, dopo un devoto adempimento quarantennale del proprio dovere, e dopo settantadue anni di servizio nella Chiesa, è stato richiamato dal Sarto dei sogni ed è entrato nella Torre di Cristallo, lasciandoci a ricordare il suo fruttuoso ciclo, le cui tracce serviranno in eterno come base su cui proseguire la costruzione della nostra dottrina.

Seguendo la santa legge della Chiesa, che impone che i sacerdoti non possano essere nuovi risvegliati ma solamente scelti tra le schiere dei kasi che hanno fatto voto a Dio, i Tre hanno intrapreso un’analisi approfondita dei candidati adatti, sui quali erano stati informati per grazia delle vostre santità tramite i resoconti annuali.

Basandosi esclusivamente sul valore delle virtù, dopo una seduta di nove ore, i Tre hanno preso una decisione unanime.

Come sacerdote della Chiesa Vecchia si nomina il predicatore Sarius, fratello della Chiesa della Speranza, risvegliatosi nell’anno 1979 nel quinto giorno del trimestre del Sarto.

La Santa Fratellanza informa della propria decisione il Sacerdote della Chiesa dello Sguardo Divino Logon, il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios, il Sacerdote della Chiesa di Beanor Kudor, nonché il sovrintendente della Chiesa Vecchia Vandor. S’invita il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios a informare tempestivamente al ricevimento della presente lettera il neoeletto Sacerdote della decisione dei Tre.

Che l’Eternorisorto Vi porti la pace!

Le braccia di Sarius ricaddero pesanti accanto al corpo e lui rivolse uno sguardo silente alla figura che lo osservava in silenzio. Il sorriso sul volto di Tios non diminuiva la serietà della situazione che gli era crollata come un muro sulle spalle, mentre lottava senza successo per placare la tempesta dei suoi pensieri. Era impossibile collegare le righe che aveva letto alla realtà.

“Vuoi leggere ancora una volta?”, gli domandò gentilmente quello che fino a qualche istante prima era il suo priore.

“Questo… questo è…”, porse la lettera al Sacerdote. Come se si aspettasse una simile risposta, quello rispose al suo posto.

“Questa è la decisione dei tre Santi Fratelli. Riguarda la nomina del nuovo Sacerdote della Chiesa Vecchia. Galanor ha concluso il suo ciclo e si è avviato verso un nuovo risveglio”.

“C’è scritto che hanno scelto… io… c’è scritto che io sono …”.

“Il neoeletto Sacerdote. E in nome di Dio, contieniti. Sembri un predicatore qualsiasi”.

Se la battuta doveva tranquillizzarlo, ciò non avvenne. Fece un passo avanti, poi si fermò, poi ne fece un altro. Tios si alzò velocemente dal proprio posto, e gli andò incontro a braccia aperte.

“Vostra santità…”, incominciò Sarius.

“Chiamami Tios, fratello. E concedimi l’onore di essere il primo a complimentarsi”.

CAPITOLO SECONDO

“Un vecchio ferro non riposa mai”

Proverbio degli artigiani

Il profondo silenzio fu interrotto da un rumore ben scandito di colpi metallici, portato dal vento fin dall’altra parte del cancello. Gihtar amava la pace notturna, anche quando doveva trascorrerla lavorando, come negli ultimi tempi.

Qualcun altro sta forgiando, pensò. Probabilmente si tratta di Mink lo Zoppo. Nel quartiere artigiano non vi era kas più laborioso, e gli altri maestri lo prendevano spesso in giro per il modo in cui lo storpio elogiava la propria merce. La sua abilità era sprecata – e la prodigalità ormai da tempo aveva portato la sua attività sull'orlo del precipizio. La parsimonia è metà della ricchezza, gli diceva spesso il suo padrone Kulu vantandosi del proprio patrimonio. Gihtar si accigliò con un’aria di disprezzo.

“Parli di nuovo da solo?”, udì una voce alle sue spalle.

“Non hai niente da fare, Lenora? Gli stampi non si laveranno da soli”.

La kasa stava appoggiata allo stipite e giocava con la sua ricca treccia, mentre i riverberi delle fiamme nella grossa fornace formavano delle ombre sul suo viso sporco. Forse potrebbe anche essere bella, se avesse modo di mettersi un po’ in ordine.

“Li ho già lavati da un pezzo, mio signore. Solo che non volevo interrompere i tuoi sogni ad occhi aperti”. Il fatto che fosse il primo apprendista non sembrava contare nel suo rapporto con Lenora. Aveva una mente fina e una lingua tagliente, e se ne serviva con gran gioia.

“Allora faresti meglio a sparire. A meno che tu non voglia finire sotto il martello”.

Uno sguardo carico di disprezzo fu l’unica risposta che ottenne. A volte la offendo senza alcuna ragione.

“Arrivo subito”, aggiunse contrito.

“Tranquillo. In ogni caso devo versare l’acqua nelle botti”.

Ho un gran bisogno di meditare. Anni di lavoro instancabile avevano instaurato una routine che garantiva la qualità del suo lavoro, ma poteva alleggerire la tensione accumulata sul collo e sugli arti solo con qualche ora di profonda concentrazione. L’intera Tarnek era diventata un pallido ricordo dei bei tempi andati, quelli del benessere, ma per Gihtar la cosa non voleva dire nulla. La vita nella bottega del maestro Kulu era la stessa da sempre, e non c’era alcuna possibilità che potesse cambiare in meglio. A differenza di alcuni apprendisti che conosceva, non coltivava illusioni che quell’egoista potesse mai apporre il suo timbro sul riconoscimento ufficiale che lui era progredito abbastanza da avviare la propria produzione. Di ereditare la bottega neanche a parlarne, soprattutto da quando Kulu aveva trasferito il diritto di proprietà alla sua compagna Sirmiona. Anche se si preoccupava solo di condurre una vita agiata, si sapeva che un giorno lei avrebbe ricevuto in eredità anche coloro che le sarebbero toccati in base al loro risveglio. Il suo carattere lo preoccupava ancor di più.

D’altra parte, per quanto le condizioni in cui si trovava fossero difficili, aveva acquisito un’abilità eccezionale nella lavorazione del metallo, e i suoi lavori potevano stare fianco a fianco a quelli dei maestri. Il risveglio gli aveva donato una forza inusuale, con cui poteva temprare anche i pezzi più duri di minerale, e il suo oppressore era anche colui che gli aveva infuso nelle dita una precisione e una sensibilità tali da poter formare con le materie più grezze spettacoli meravigliosi davanti ai quali i potenziali clienti rimanevano rapiti. Tuttavia, questa era una magra consolazione – al posto di rendersi indipendente e realizzare il proprio destino, era un ordinario prigioniero di una volontà superiore. Ti libererò solo quando mi supererai, gli aveva detto una volta il maestro, e per farlo ti serviranno due cicli. Purtroppo, Gihtar ne aveva a disposizione soltanto uno.

La luce di una torcia illuminò le finestre del padiglione all’altra estremità del cortile e lui si affrettò a tornare nella bottega. Kulu e Sirmiona di solito meditavano l’intera notte, e se uno di loro due avesse deciso di passare a controllare, sarebbe stato meglio che non lo trovassero con le mani in mano.

Lenora aveva appena versato l’ultimo secchio in un grosso barile di legno decorato in acciaio.

“Sembra che oggi avremo un controllo. Ho visto una luce”, le disse. Lenora si era risvegliata appena cinque anni prima e riponeva ancora una grande speranza nel proprio futuro.

“Perché vengono adesso?”.

“Come potrei mai saperlo?”.

“Non importa, saranno soddisfatti. Riusciremo a finire l’ordine prima dell’alba”.

“Come se me ne fregasse”.

“Non dire stupidaggini del genere. Ti sentiranno prima o poi”.

Senza degnarsi di risponderle Gihtar afferrò un pesante bollitore e gettò qualche sottile foglia di tellurio nella vaschetta con cui terminava. Le sue mani continuavano a bruciare a causa dei colpi di martello. Era uno dei materiali più difficili da preparare.

“Hai preparato gli stampi per i braccialetti?”.

“Eccoli là”.

“E le pietre? Sono lì dentro?”.

“Calmati”, imprecò lei sottovoce. Sapeva che la cosa la faceva impazzire, ma doveva punzecchiarla. Spesso sprofondava nei propri pensieri, diventando del tutto assente. In un turno precedente lei si era dimenticata di mettere le pietre preziose nelle apposite sedi negli stampi. Li aveva montati vuoti e lo aveva costretto a riempirli con una lega a caldo. L’ordine era enorme, e il risultato catastrofico. La nuova fusione ne aveva compromesso la qualità, e il peccato più grande era il tempo perso. Fuori di sé per la rabbia, Kulu si era rimborsato la perdita sottraendo loro il poco tempo che avevano per il riposo.

Il calor bianco all’interno del forno garantiva una temperatura soddisfacente. Tenendosi a distanza di sicurezza, v’infilò il bollitore e lo spinse fino in fondo. Teneva le mani ben salde sul manico, per poter giudicare in base al calore quando la colata sarebbe stata pronta per essere versata. Era la parte più noiosa della lavorazione, ma anche quella in cui gli inesperti sbagliavano più spesso.

Anche se il lavoro fioriva, Kulu era sempre più spesso insoddisfatto. Il giorno prima aveva portato alcuni dei campioni migliori nel padiglione, e in base a ciò lui aveva immaginato che li aspettasse un lungo lavoro. Di solito i mercanti venivano nella bottega vera e propria o nello scantinato dove era depositata la maggior parte della merce, mentre solo i più seri avevano l’onore di essere accolti nelle stanze private del maestro. Non poteva non notare il panciotto decorato con piastrine di rame addosso al solitamente trascurato Tomul, che svolgeva il servizio di guardia del corpo, anche se era totalmente inutile e particolarmente sbadato. Con sua grande sorpresa, la porta fu aperta da Sirmiona.

“Che vuoi?”, gli chiese bruscamente, fingendo di non notare il contenuto della bisaccia che aveva in mano.

“Cerco il maestro”. Gihtar si sforzava sempre di essere gentile con lei, ma proprio non ci riusciva. Non era mica lei quella a cui doveva i beni che si era guadagnato e un tetto sulla testa.

“Il tuo maestro è uscito ad aspettare un ospite importante. Dimmi cos’hai lì”.

“Stamattina mi ha ordinato di portare questi campioni. Qui ci sono braccialetti incisi, collane di stihira e tellurio e qualche cammeo a bassorilievo”.

Sirmiona sbirciò con disprezzo la borsa senza neanche provare a prenderla.

“Di che bassorilievi si tratta?”.

“I cavalieri delle stelle, l’effigie del dodicesimo canto. E il banchetto dei serafini”.

“Mi sembra più materiale sprecato che un lavoro vero e proprio”.

“Se concedeste loro l’onore del vostro nobile sguardo, vi convincereste subito che state sbagliando”, non nascondeva l’ironia nella propria voce. Nessuno, neppure lei, aveva diritto di schernire il lavoro delle sue mani.

“Lascia tutto qui e sparisci”, sibilò l’arpia e lui con piacere obbedì a quella richiesta. “E sarà meglio che iniziate a lavorare! Dovete guadagnarvi ogni singola goccia del balsamo che versiamo sulle vostre inutili pellacce!”, gli gridò dietro, ma quelle parole non erano nient’altro che una vuota minaccia indegna della sua attenzione.

Le tenaglie divennero spiacevoli al tatto e Gihtar versò con destrezza la liquida colata in uno stampo cilindrico. Altre diciannove volte così. Guardò Lenora che in silenzio infilava perle variopinte su un cinturino perlaceo, osservando con attenzione ciascuna di esse prima di passare alle rimanenti che avrebbero formato la collana. Ne desidera mai qualcuna per sé? Tutte le kase, al di là dello status sociale, amavano la moda e gli accessori. Lei non poteva essere un’eccezione. Venti bracciali e altrettante collane, recitava l’ordine. Senza alcun ulteriore dettaglio. Dopo aver ricevuto le istruzioni, in un primo momento si era stupito. I braccialetti con la superficie liscia erano di uso comune, molto popolari tra il popolo per la semplice ragione che erano di facile fattura e avevano un prezzo abbordabile. Ordinare qualcosa che avrebbe potuto fare praticamente chiunque nel quartiere degli artigiani dal maestro Kulu era quantomeno irrazionale. Ricchi snob, non badano alla bellezza, ma al prezzo che devono pagare.

Si aspettavano la temuta visita appena all’alba, quando la maggior parte del lavoro sarebbe stata pronta. Gihtar pensò che fosse ancora troppo presto per chiamare il maestro, quando Kulu entrò nel laboratorio. Incredibilmente, era di buon umore.

“Come procede?”, domandò loro dalla porta. Il suo volto oblungo emanava soddisfazione. Prima ancora di ricevere risposta, posò un vassoio ovale sul tavolo e si sfregò con noncuranza le mani sull’elegante vestito di tela leggera. “È per voi, non sprecatelo”.

“Maestro, è tutto pronto. Pensavamo giusto di chiamarvi”, disse Gihtar.

“Vedo, vedo. Avete lavorato bene”. Guardò di sfuggita i gioielli e sorrise un’altra volta. “Hai scelto dei bei modelli. Hanno comprato tutto e pagato in anticipo per la merce ordinata. Ben più di quanto mi aspettassi”.

“Queste sono ottime notizie, maestro”, disse Lenora.

“Ottime, nientemeno. Potete liberamente ringraziarmi. Finché avrete me, la vostra vita sarà facile. Lavorare con successo al giorno d’oggi richiede grande fatica, ma io ho un gran fiuto per gli affari”.

“Grazie”, disse l’apprendista con aria sottomessa. Gihtar era infastidito dalla sua sottomissione. Senza curarsi della sua condiscendenza, Kulu si voltò verso il suo servo più anziano.

“È una bella giornata. Andiamo a fare due chiacchiere in cortile”.

Sei invidiosa, Lenora?, pensò con cattiveria, e si allontanò dietro al maestro senza controllare la sua reazione.

Il cortile era veramente bello. I viottoli fioriti si allungavano fino al padiglione, e perfino i muri di pietra della tenuta, ricoperti di vite vergine, avevano un’aria quasi tenera. Kulu gli mise una mano sulle spalle.

“Sono soddisfatto delle tue prestazioni”.

Gihtar rimase basito. Si prepara infine ad affrancarmi?

“Be’, hai ancora molta strada da fare”, le parole del maestro infransero le sue speranze. Come aveva potuto pensare che fossero finite le sue sventure? Il silenzio del suo interlocutore poteva essere male interpretato. “Non offenderti, qui potrai sempre sentirti al sicuro finché mi ascolterai. Mi ascolti, Gihtar, visto che siamo già in argomento?”.

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