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La Vicina Perfetta
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La Vicina Perfetta

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“Buon appetito,” mormorò.

“Grazie,” disse Jessie, scegliendo di concentrarsi sull’offerta del dolce piuttosto che sul modo in cui le era stato dato.

A volte il leggero risentimento di Hannah veniva fuori sotto forma di scatti da adolescente passivo-aggressiva o, come in questo caso, nelle vesti di tortine alle pere bruciacchiate. A volte si manifestava attraverso un cupo silenzio. Non era costante, ma emergeva abbastanza spesso da farsi notare. Gli occhi verdi della ragazza diventavano burrascosi, la sua figura alta si piegava e richiudeva e i suoi capelli biondo sabbia venivano improvvisamente raccolti in una severa e sdegnosa coda di cavallo.

Le circostanze non erano ideali neanche per Jessie e Ryan, dato che nessuno dei due se la sentiva di lasciarsi davvero andare, romanticamente parlando, con una diciassettenne nella stanza che si trovava dall’altra parte del salotto. Vivano insieme in questa nuova configurazione da meno di un mese, ma stava già diventando chiaro che una discussione riguardo alla loro futura sistemazione era ormai inevitabile.

“Con tutta la sicurezza che hai qui, magari potremmo investire in una camera da letto insonorizzata,” era l’unica battuta che Ryan aveva fatto sull’argomento.

E poi c’era l’altra cosa, quella che stava sospesa e aleggiava su tutto. Hannah Dorsey era una persona stabile? Jessie si era recentemente assunta la custodia della sorellastra di cui prima neanche conosceva l’esistenza. Era venuta a sapere di lei solo dopo che il loro padre serial killer aveva assassinato i genitori adottivi di Hannah, e poi un altro assassino di nome Bolton Crutchfield aveva massacrato i genitori affidatari, rapendo Hannah e cercando di indottrinarla per farla diventare come lui. Erano un sacco di eventi da cui chiunque avrebbe avuto la necessità di riprendersi, figurarsi una ragazzina delle superiori.

“Fai attenzione con quel coltello, per favore,” disse Jessie, mentre Hannah lo usava per grattare i resti delle tortine dalla carta forno sulla teglia.

“Grazie, mamma,” mormorò Hannah sottovoce mentre continuava a usare la lama come una spazzola per le briciole.

Jessie sospirò senza rispondere. La vista della sorellastra con in mano un coltello lungo e affilato la innervosiva. Anche se stava tentano di creare un ambiente sicuro, era preoccupata che magari dei residui istinti omicidi si fossero insinuati nella mente della ragazza. Aveva segretamente sviluppato una sete di sangue dopo aver visto il potere crudele che la violenza offriva a coloro che la abbracciavano? C’era un qualche germe di desiderio omicida che era stato trapassato da suo padre alla figlia? E se così fosse, ce l’aveva anche Jessie?

Era una domanda sulla quale rimuginava da mesi. Ne aveva parlato con la sua terapeuta, la dottoressa Janice Lemmon, che seguiva ora anche Hannah. Lo aveva chiesto addirittura al suo mentore, il famoso profiler criminale Garland Moses, al quale aveva domandato di indagare sulla questione. Ma nessuno era stato in grado di offrirle niente di definitivo sulla natura di Hannah, proprio come Jessie sembrava incapace di discernere una chiara risposta riguardo al proprio carattere.

Per buona parte del tempo, Hannah sembrava come una normalissima ragazza adolescente, con tutti i consueti sbalzi d’umore, gli ormoni e tutto il resto. Ma considerato il trauma che aveva sofferto negli ultimi mesi, a volte quella ‘normalità’ le sembrava sospetta.

Jessie scosse la testa, tentando di cacciare dal cervello quei pensieri. In quel momento, le cose erano accettabili. Sua sorella aveva preparato il dessert, anche se gliene aveva dato un pezzo bruciato. Tutti erano carini. Jessie sarebbe dovuta tornare al lavoro d’ufficio la settimana successiva e sperava di rientrare pienamente in servizio come profiler criminale quella dopo. Le cose stavano procedendo.

Sì, era frustrante vedere Ryan uscire ogni mattina, diretto alla Stazione centrale del LAPD, dove entrambi lavoravano. Ma presto lo avrebbe raggiunto. Poi sarebbe potuta ritornare al mondo che amava, dove doveva catturare assassini tuffandosi nelle loro menti.

Per mezzo secondo, la natura preoccupante del proprio ‘amore’ per quel mondo la fece sobbalzare. Ma mandò giù velocemente la preoccupazione, insieme a un morso della deliziosa tortina alle mele di Hannah. Anche se leggermente abbrustolita, era buonissima. Mentre tutti stavano finendo il dolce, il telefono di Ryan suonò. Ancor prima di guardarlo, tutti capirono di cosa si trattava. A quell’ora, era quasi certamente un caso.

“Pronto?” rispose Ryan.

Ascoltò in silenzio per quasi un minuto. Jessie poteva distinguere appena la voce dall’altra parte della linea. Ma sulla base dello stile brusco e frettoloso, era sicura di sapere chi fosse.

“Garland?” chiese quando Ryan riattaccò.

“Già,” le rispose, annuendo mentre si alzava in piedi e iniziava a raccogliere le sue cose. “Sta gestendo un caso a Manhattan Beach e pensa che sia adatto al HSS. Vuole il mio aiuto.”

“Manhattan Beach?” insistette Jessie. “Un po’ fuori dalla nostra giurisdizione, no?”

“A quanto pare il marito della vittima è un pezzo grosso nel giro del petrolio in centro città. Ha sentito parlare di Garland e ha richiesto nello specifico il suo intervento. Si presume che sia un mega-stronzo, quindi la polizia del posto è felice di passare il malloppo al Dipartimento di Polizia di Los Angeles.”

“Sembra divertente,” commentò Jessie.

“Ecco la cosa strana,” disse Ryan, rivolgendosi non a lei ma ad Hannah, mentre si infilava il giubbotto sportivo e si allacciava la cintura con la pistola. “Molta gente lo direbbe sarcasticamente. Ma tua sorella lo dice sul serio. È gelosa di non poter venire con me. È malattia questa.”

Aveva ragione, in più di un senso.

CAPITOLO TRE

Garland Moses si sentiva in colpa.

Stava guidando velocemente, cercando di arrivare alla scena del crimine il prima possibile. Mentre si dirigeva verso ovest sulla Manhattan Beach Boulevard, in direzione dell’oceano, valicò la collina proprio mentre il sole quasi del tutto tramontato proiettava il suo bagliore rosa-arancio sulla cittadina balneare e oltre, sull’Oceano Pacifico.

Qualcosa in quella veduta sciolse lo stretto nodo di anticipazione che gli opprimeva il petto. La maggior parte della gente lo conosceva come il burbero profiler veterano che raramente mostrava le proprie emozioni, meno che meno lo stupore. Ma da solo nella sua auto, era libero di meravigliarsi davanti allo spettacolo dei surfisti le cui sagome si stagliavano contro il cielo cremisi, con le barche a vela come sfondo. Ma mentre guardava stupito quello scenario da cartolina, il senso di colpa iniziò a farsi strada dentro di lui, dicendogli che non si trovava lì per ammirare il panorama. Era lì per lavoro.

Però, mentre percorreva l’ultimo tratto della strada che terminava davanti al molo, guardò con invidia le folle di persone che riempivano le strade, vestite con indumenti da spiaggia. Anche se erano quasi le otto di sera, lui aveva ancora indosso la sua uniforme non ufficiale: una logora giacca sportiva grigia e una vecchia camicia bianca. Di solito ci aggiungeva anche un gilet di lana, ma in una giornata così calda era troppo anche per lui. Si era messo però i tradizionali pantaloni blu sbiadito e i mocassini marroni ormai consumati. Tutto l’insieme era come un costume di scena, preparato per indurre sospettati e testimoni ad abbassare la guardia quando si trovavano al cospetto dell’anziano e apparentemente sbadato signore che poneva loro domande personali.

Svoltò a destra sulla Ocean Drive, a un solo isolato dalla spiaggia. Era più un vicolo che una strada e Garland dovette districarsi tra le auto parcheggiate alla meno peggio per arrivare all’indirizzo che gli avevano dato. Quando arrivò, parcheggiò in una zona di carico e scarico, espose la targa del Dipartimento di Polizia di Los Angeles sul cruscotto e uscì.

Venne subito sopraffatto da una combinazione di fresca brezza e odore salmastro nell’aria, un netto cambiamento rispetto ai soliti odori del centro, che erano una mescolanza di gas di scarico e asfalto. Camminò frettolosamente fino ad arrivare al viale pedonale che la gente del posto chiamava Strand. Mezzo isolato più a nord, vide del nastro di delimitazione della polizia e diversi agenti che bloccavano parte della Strand ai passanti.

Mentre si dirigeva da quella parte, i suoi sensi investigativi ebbero la meglio sull’apprezzamento del posto. Osservò comunque le partite di pallavolo dopo-lavoro sulla spiaggia e le mamme che spingevano i passeggini mentre facevano la loro corsetta serale, ma studiò anche le case vicine alla scena del delitto.

Si affacciavano tutte sulla spiaggia, con porte che stavano a pochi metri dal viale. Pochissime avevano un cortile e quasi nessuna era dotata di recinzione e cancello. Sembrava che in questo quartiere la facilità di accesso alla spiaggia fosse di gran lunga più importante delle precauzioni per la sicurezza.

Si sentiva leggermente fuori dal suo elemento in questo ambiente. Anche se abitava nel centro di Los Angeles, era imbarazzato ad ammettere che andava raramente in spiaggia, dato che passava la maggior parte del suo tempo nella zona circostante la stazione centrale, dove lavorava.

In quella parte della città, tutti i proprietari o affittuari di una casa avevano delle misure di sicurezza, che fosse un cancello, sbarre alle finestre o sistemi di sicurezza, o magari tutto quanto insieme. La sua amica e collega profiler Jessie Hunt aveva messo in atto tutte le misure citate, insieme a videocamere, guardie addette alla sicurezza, un garage continuamente sorvegliato e più serrature alla porta che interruttori della luce. Ovviamente aveva dei buoni motivi per farlo. Ad ogni modo, non era abituato all’atteggiamento noncurante di questa comunità da spiaggia. Ma avrebbe dovuto farsene una ragione. Non che avesse molta scelta.

Normalmente Garland Moses aveva il lusso di poter scegliere i casi che gli interessavano. Dopotutto era stato per decenni un celebre profiler per l’FBI, nell’unità di Scienze Comportamentali. Rimasto vedovo presto e senza figli, si era gettato a capofitto nel suo lavoro. Quando alla fine si era trasferito nel sud della California per la pensione, lo avevano convinto a lavorare per il LAPD come consulente. Ma solo alla condizione che potesse scegliere i casi che gli interessavano.

Ma non oggi. In questo caso, il capitano della Stazione Centrale Roy Decker lo aveva implorato di fare un’eccezione. Il marito di questa vittima, un ricco manager nel settore di gas e petrolio di nome Garth Barton, aveva elargito oltre 400.000 dollari alle forze di polizia negli ultimi tre anni. Sebbene la coppia ora vivesse a Manhattan Beach, che aveva un suo dipartimento di polizia, Barton lavorava in centro ed era al corrente della leggendaria reputazione del profiler Garland Moses.

“Barton insiste per avere te nel caso,” gli aveva detto Decker al telefono. “Allude al fatto che i suoi contributi al corpo di polizia potrebbero finire se non accetterai il lavoro. Lo considererei come un favore personale, Garland.”

Considerato il fatto che si trattava del primo favore che il capitano gli avesse mai chiesto, Garland si era dimostrato incline a concederglielo. Quando gli aveva detto di sì, Decker aveva continuato a parlare rapidamente, come se preoccupato che potesse cambiare idea.

“Prometto che il Dipartimento di Manhattan Beach sarà al servizio tuo e del tuo team,” gli aveva assicurato il capitano. “In effetti sembrano entusiasti all’idea. A quanto pare Barton ha una reputazione di vero rompi palle e loro sono più che felici di passare a qualcun altro il compito di gestirlo, soprattutto quando è emotivamente sovreccitato, come dicono sembri essere al momento.”

Mentre Garland si avvicinava all’area delimitata della Strand, si tolse dalla testa tutti i pensieri politici e si concentrò sul crimine in sé. Sapeva ben poco: Priscilla Barton era stata trovata morta nella casa dei vicini e si sospettava un delitto. Arrivò sulla scena e si guardò attorno per vedere se Ryan Hernandez, il detective della Sezione Speciale Omicidi che aveva chiesto come partner, fosse già arrivato.

Non vedendolo, si avvicinò all’agente di polizia di Manhattan Beach più vicino e gli mostrò le sue credenziali.

“Garland Moses, Dipartimento di Polizia di Los Angeles, consulente profiler forense. Chi è il responsabile qui?”

L’agente, la cui targhetta riportava il nome di Timms e che non sembrava avere tanto più di ventun anni, deglutì nervosamente.

“C’è il sergente Breem che sta gestendo le cose fino all’arrivo dei detective,” disse, la voce che tremava imbarazzata. “Adesso è dentro.”

“Ti spiace se lo raggiungo?” chiese Garland.

“No signore. È nel foyer. È lì che si trova il corpo.”

“Grazie,” rispose Garland. Si incamminò verso l’ingresso, ma poi si fermò e si girò. “Conosci i Barton, agente Timms?”

“Non proprio,” disse il giovane. “Non ho mai interagito con loro personalmente, ma li conoscevo di reputazione.”

“In che senso?”

“Il signor Barton chiamava spesso con lamentele sui suoi vicini, violazioni dei limiti del rumore, roba del genere.”

“E la signora Barton?” insistette Garland, scribacchiando furiosamente degli appunti nel suo blocchetto.

“Non voglio parlare male dei morti,” disse Timms esitante.

“Non stai parlando male. Stai solo condividendo delle informazioni. E le informazioni sono quello che ci serve per catturare l’assassino.”

Timms annuì, apparentemente convinto.

“Ok,” disse, la voce che calava a un sussurro. “Aveva una certa reputazione come stalker delle celebrità. Innocua ma fastidiosa. Un po’ di volte delle persone famose che vivono qui si sono lamentate perché se la trovavano appresso. Tentava di intavolare delle conversazioni, di farseli amici, cercava di sedersi con loro a bere qualcosa. Niente di grave. Non che facesse irruzione nelle case della gente e si mettesse sul letto ad aspettarli.”

“Ne siamo certi?” chiese Garland scettico. “Questa non è casa sua, giusto?”

Timms si fece rosso in viso.

“Non ci avevo pensato in questi termini,” disse, chiaramente imbarazzato.

“In che termini?” chiese qualcuno dietro di loro.

Garland si voltò e si trovò davanti un sorridente Ryan Hernandez.

“Lascia stare,” disse. “Come va, detective?”

“Considerando che sono stato strappato via alla comodità domestica e alla buona compagnia, diciamo che va. E tu?”

“Mi sto effettivamente godendo il cambio di scenario,” confessò Garland. “Quasi non ho voglia di entrare.”

“Eppure…” disse Ryan con riluttanza.

“… dobbiamo,” concluse Garland, facendo segno al collega di fare strada.

Mentre Hernandez camminava davanti a lui in direzione della porta, Garland si meravigliò del giovane detective. Neanche a trent’anni lui aveva mai avuto un aspetto così composto come quello di Ryan Hernandez. Ovviamente non poteva neanche sfoggiare il suo bell’aspetto.

Aveva preso in giro di tanto in tanto Jessie affermando che la sua altezza quasi da guerriera Amazzone, i suoi occhi verdi, i capelli ondulati scuri e gli zigomi ben definiti, mescolati con i capelli corti e neri del suo compagno, gli occhi castani e i pettorali così delineati, avrebbero sicuramente assicurato ai loro potenziali figli un posto di diritto sul Monte Olimpo. La cosa la faceva sempre arrossire. Decise di non fare la stessa battuta al collega.

Entrarono in casa, dove il sergente Breem, un tipo allampanato e molto abbronzato sulla quarantina, che Garland sospettò essere un surfista, li stava aspettando insieme ad altri due agenti e alla squadra addetta alla scena del crimine. Un medico legale stava facendo delle foto al corpo. Il marito non si vedeva da nessuna parte.

Garland si guardò attorno nel foyer, prendendo appunti sul suo blocchetto man mano che i suoi occhi scrutavano ogni dettaglio. Solo quando fu sicuro di essersi fatto un’idea della stanza, guardò la vittima. Priscilla Barton era sdraiata supina con quella che sembrava una calza avvolta attorno al collo.

Aveva evidenti capillari rotti negli occhi sgranati, evidente segno di strangolamento. Indossava un top sportivo rosso, pantaloni da yoga e una ciabatta infradito. L’altra giaceva abbandonata a metà corridoio. Non c’era rigor mortis: non si era ancora gonfiata e la pelle era solo leggermente pallida, tutti segni che suggerivano che la morte fosse piuttosto recente, probabilmente non più di due ore prima.

“Sergente Breem,” disse Hernandez, porgendo la mano per salutare e presentarsi. “Sono il detective Ryan Hernandez del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Questo è il nostro profiler Garland Moses. Apprezziamo la vostra offerta di partecipare a questa indagine.”

“Sta scherzando?” disse Breem quasi ridendo. “Noi siamo più che felici di starcene nelle retrovie. Non per essere insensibile, ma Barton non è un tipo facile con cui avere a che fare. È stato tutto un susseguirsi di rogne da quando lui e signora si sono trasferiti qui. Vi daremo tutto il supporto di cui avete bisogno, ma quando si tratta di interfacciarsi con quel tizio, sinceramente ci tiriamo formalmente indietro.”

“Dove si trova il signor Barton?” chiese Hernandez.

“A casa sua. Qui, alla porta accanto. Se ascoltate attentamente, lo potete probabilmente sentire che grida contro il mio agente.”

“Allora aspetteremo un po’ prima di andare a parlargli,” disse Hernandez voltandosi verso il medico legale, un tipo piuttosto giovane di nome Pugh. “Cos’hai trovato finora?”

“La temperatura corporea indica che è morta meno di tre ore fa. I segni di legatura e l’emorragia congiuntivale suggeriscono fortemente lo strangolamento. Ci sono dei lividi su braccia e petto, a indicare un possibile alterco prima della morte. Nessun segno di aggressione sessuale fino ad ora.”

“Nient’altro?” chiese Hernandez.

Il sergente Breem si intromise.

“Abbiamo trovato una bottiglia di vino con un biglietto in cucina. Sembra un regalo di benvenuto da parte sua. Il biglietto suggerisce che la vittima pensasse di avere un nuovo vicino. Ma la coppia che possiede la casa non si è trasferita. Sono in vacanza, ma non hanno affittato il posto.”

“Strano,” disse Hernandez.

Breem annuì.

“Abbiamo pensato che magari qualcuno fosse entrato in casa per rubare e che lei sia arrivata nel bel mezzo. O magari qualcuno l’ha vista entrare e l’ha seguita.”

Hernandez si voltò a guardare Garland, che non fece alcun commento sulla teoria. Si chinò invece accanto al corpo e studiò la calza avvolta attorno al collo della Barton.

Era una scelta strana come arma del delitto. Garland aveva visto un sacco di strangolamenti, molti eseguiti con cavi, prolunghe e addirittura a mani nude. Ma non ricordava che nessuno avesse mai strozzato a morte la vittima con una calza.

Sembra costosa.

Alzò lo sguardo, intenzionato a chiedere se qualcuno conoscesse la marca. Ma vedendo che il foyer era esclusivamente occupato da uomini, si prese un appunto mentale di fare una ricerca personale più tardi.

“Qualcuno può insacchettare questa?” chiese.

Un tecnico della scena del crimine si avvicinò ed eseguì gli ordini, raccogliendo la calza con una pinza e lasciandola cadere in un sacchetto per la raccolta delle prove.

“Dubito che riusciremo a ricavarne delle impronte,” mormorò Breem. “Il posto è stato tutto ripulito. Intere sezioni della casa non ne hanno neanche mezza, neppure dei proprietari. Chiunque abbia commesso il crimine è stato tanto diligente da ripulire, e pare abbia indossato dei guanti per tutto il tempo.”

“Possibilità di ricavare dalle fibre della calza resti di pelle o capelli?” chiese Garland al tecnico.

“Possibile. Ma ci vedo sopra dei pezzi di materiale che suggeriscono anche che il colpevole possa aver indossato dei guanti. Vi faremo sapere.”

Garland lasciò che Hernandez e la polizia del Dipartimento di Manhattan Beach si concentrassero sui dettagli della scena del crimine, mentre lui girovagava per la casa, cercando di farsi un’idea di quello che poteva essere successo. Non c’erano segni di colluttazioni da nessun’altra parte, il che lo faceva sospettare che la teoria di Breem – che la donna fosse stata seguita o fosse finita nel mezzo di qualcosa – potesse essere corretta. Sapeva che era arrivata almeno alla cucina prima che le succedesse qualcosa. Ma dove altro fosse stata nella casa era ancora un mistero.

“Garland!” lo chiamò Hernandez.

Garland tornò nel foyer, dove tutti lo stavano guardando in completa attesa.

“Sì?”

“Garth Barton vuole parlare con te,” disse Hernandez. “Sta insistendo e pare si stia innervosendo.”

“Andiamo,” sospirò Garland. “Non vorrei far aspettare il VIP. Dove si trovava quando il fatto è accaduto, comunque?”

“Ha detto che stava venendo a casa in auto e che per tutto il viaggio è stato impegnato in una riunione telefonica,” gli spiegò Breem. “Dice che il viaggio dal lavoro a casa gli richiede circa settanta o ottanta minuti. Stiamo confermando il tutto. Ma se dice la verità, ha un alibi per il momento della morte.”

“Circostanza spiacevole, se vera,” mormorò Garland sottovoce.

“Perché?” chiese Breem.

“Perché se non è stato il marito, abbiamo una vera sfida tra le mani: area fortemente trafficata, pochissima sicurezza e prove fisiche minime.” Poi, incapace di trattenere il proprio cinismo, aggiunse: “Non invidio chi dovrà risolvere questo caso.”

CAPITOLO QUATTRO

Kyle Voss si svegliò il mattino dopo e rotolò giù dal letto.

Cadde a terra e fece immediatamente cento flessioni. Poi fece tre minuti di plank, seguiti da cinquanta burpee. Felicemente madido di sudore dopo essersi alzato da soli quindici minuti, andò in bagno e si spogliò.

Fissandosi nello specchio, non poteva che ammirare il proprio fisico. Due anni di prigione potevano aver messo in pausa la sua vita professionale, ma avevano fatto miracoli per il suo corpo. Era più sodo e in forma di quanto fosse mai stato anche ai tempi del football al liceo. Con un’altezza di un metro e novanta e cento chili di muscoli, pensava seriamente di essere passibile come Safety nella nazionale di football americano. Aveva i capelli biondi ancora piuttosto corti, un rimasuglio del taglio a spazzola portato in prigione. Gli occhi azzurri erano limpidi.

Si infilò sotto la doccia e aprì l’acqua completamente fredda. Si assicurò di strofinare ogni centimetro della sua pelle, rifiutandosi di fare frettolosamente e di rabbrividire. Quando ebbe finito, si asciugò e indossò il suo completo preferito. Questa era una giornata importante e lui voleva apparire al meglio.

Aveva mantenuto un basso profilo da quando era uscito di prigione, pianificando le basi per i suoi imminenti programmi senza attirare troppo l’attenzione su di sé. Ma tutto questo sarebbe cambiato oggi. Questo era l’inizio del suo re-inserimento pubblico, del suo re-inventarsi. Era cruciale per il piano generale e doveva andare bene. Sentì una strana sensazione allo stomaco e alla fine la identificò come nervosismo.

Il programma della giornata era piuttosto fitto. Anche se il giudice aveva chiuso il suo caso, Kyle doveva comunque incontrare un ufficiale di sorveglianza due volte alla settimana. Non era un problema. La presenza a queste sessioni avrebbe portato i suoi vantaggi quando il suo personaggio sarebbe stato inevitabilmente interrogato in futuro.

Dopo quell’appuntamento, aveva un incontro con la fondazione che aveva recentemente fondato, la WCP, che stava per ‘Wrongly Convicted Project”: progetto per detenuti incarcerati per errore. Devolveva fondi alle associazioni che fornivano supporto legale ai prigionieri che lottavano contro false accuse. Questo permetteva a Kyle anche si eseguire delle furbe magie contabili, che alla fine avrebbe utilizzato per aiutare gli amici che si era fatto dietro alle sbarre.

Dopodiché, aveva un’intervista con un notiziario locale riguardo alla fondazione. A seguire avrebbe incontrato un esperto di relazioni con i media che gli stava insegnando come concentrarsi sulla fondazione senza trovarsi incastrato in spiacevoli conversazioni sul motivo per cui era stato condannato lui stesso e tutto quel casino con Jessie. Quello sarebbe stato il suo primo tentativo di navigare quelle acque tumultuose.

Una volta terminata l’intervista con il notiziario, aveva un altro colloquio di diverso genere. Doveva incontrare una ditta di gestione finanziaria con base alle porte di Rancho Cucamonga, poco distante dalla sua residenza di Claremont. Si era trasferito nell’affascinante cittadina universitaria, una cinquantina di chilometri da Los Angeles, in modo che nessuno potesse credibilmente accusarlo che stesse tentando di intimidire la sua ex moglie. E se il colloquio fosse andato bene (i suoi amici di Monterrey gli avevano assicurato di sì), avrebbe ottenuto un’approvazione di legittimità che sarebbe stata cruciale per il lavoro che aveva programmato per le settimane e i mesi a venire.

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