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La plebe, parte IV
La plebe, parte IV

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La plebe, parte IV

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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La seconda e rilevantissima cosa a cui volle provvedere Valpetrosa fu il destino della moglie e del figliuolo da nascere. E per ciò a cui aveva egli da affidarsi se non a Nariccia, al quale la sua fama di religioso dava aria di onesto, e che, nelle attinenze sino allora avute, all'inesperto e confidente giovane era apparso fedele e leale? Lo pregò volesse egli assumere codesta opera pietosissima; salvasse Aurora e il suo bambino dall'ira e dalle vendette della famiglia di lei; gli consigliò la moglie e la madre da cui la morte lui disgiungesse, Nariccia facesse riparare in qualche oscuro, rimotissimo luogo della Svizzera, e là sovvenisse di quanto abbisognavano quelle infelici; egli, Valpetrosa, con una ultima lettera da consegnarsi loro in caso di sua morte, avrebbe alle medesime manifestato come in tutto e per tutto dovessero in lui rimettersi ed a lui affidarsi.

Quanto ai mezzi di vivere, quanto alle fortune di quelle poverette, ohi come si dolse allora Valpetrosa d'avere così sconsideratamente sciupata tanta parte dell'aver suo! Ma quel che rimaneva, come fare perchè rimanesse e bastasse al sostentamento della famigliuola, e s'aumentasse da fornir poi al figlio che doveva nascere se non un'agiatezza, quanto meno una sicurezza del pane? Qui si trovarono a fronte la facile fiducia e la leale natura del giovane da una parte e dall'altra la frodolenta accortezza dell'antico servo dei Gesuiti, il quale non era stato tardo ad architettare per queste circostanze sopra le proposizioni del giovane un suo perfido disegno. E si decise: che Valpetrosa facesse un atto solenne di cessione d'ogni aver suo a Nariccia medesimo, perchè da costui si potesse esigere ogni capitale di spettanza del primo ed insieme colle somme che ancora rimanevano presso di lui in deposito, trafficarlo nelle sue speculazioni ch'e' chiamava bancarie; che di tutto questo avere il depositario pagherebbe un annuo interesse del cinque per cento non che una data parte degli utili ricavati dall'uso di tali somme, le quali annualità sarebbero pagate a Valpetrosa medesimo finchè e' vivesse, alla madre ed alla moglie venendo egli a mancare; che Nariccia pagherebbe a semplice richiesta di Valpetrosa di chi per lui, tutto o quella parte di tal capitale che si volesse poi ritirare; e che per impedire gli effetti giuridici di quell'atto di cessione, Nariccia avrebbe rilasciato a Maurilio una privata dichiarazione, con cui si certificasse come quella cessione fosse una finta soltanto e si determinassero i veri patti fra loro intravvenuti.

Valpetrosa prese di poi le mani dell'ipocrita Nariccia, e stringendogliele con forza, guardandolo con occhi umidi, con atto e voce che erano tutta una supplicazione, soggiunse:

– Vi raccomando ancora una volta Aurora e mia madre… e mio figlio! (Nel dire quest'ultima parola, tremò la sua voce.) Oh mio figlio! Se il mio sangue avesse da farlo felice, con qual gioia lo darei tutto!.. Egli porterà il mio nome… Aurora lo desidera… lo desidero anch'io… ricordatevene! ch'ei sia battezzato sotto il nome di Maurilio… Ma più di tutto egli e sua madre sieno sottratti alla famiglia di Baldissero… Appena lo scontro avvenuto, s'io muoio, accorrete a torli di qua, perchè il marchese non li trovi… Ch'e' fuggano, per amor di Dio!.. Voi me lo promettete? Voi me lo giurate?

Nariccia diede tutte le promesse e tutti i giuramenti che piacquero a Valpetrosa, e questi ebbe il coraggio di rientrare colà dove aspettavalo sua moglie, con una fronte serena così che Aurora se ne sentì rassicurare la povera anima conturbata.

CAPITOLO III

Era una fredda mattinata invernale, e Maurilio Valpetrosa tutto avvolto nel suo mantello stava passeggiando da un po' di tempo nella strada innanzi alla sua abitazione, quando, visto da lontano due persone bene imbacuccate ancor esse venire a quella volta, e' si piantò sulla soglia del portone che metteva nella casa ove dimorava; e trattasi giù dal viso la falda del mantello, lasciò scorgere le sue leggiadre fattezze. E' non s'era ingannato nella sua previsione; que' due si fermarono a quella porta, lui guardarono bene, si ammiccarono, scambiarono sommesso e ratto due parole, ed avvicinandoglisi uno si scoprì la faccia del pari e gli disse con un accento in cui sotto una finta cortesia nascondevasi un'ostilità superba:

– Giusto Lei, signor Valpetrosa, è la persona di cui venivamo in traccia… La mi riconosce?

Valpetrosa fece un lieve inchino ed un gentile sorriso:

– Perfettamente, rispose, signor conte di Castelletto.

Il compagno di costui s'era pur egli scoperta la faccia, e il conte lo presentava dicendone il nome.

– Ed ora, riprese Valpetrosa con elegante scioltezza, a che cosa debbo attribuire l'onore che mi fanno cercandomi?

Rispose il conte di Castelletto:

– È cosa che richiede per dirsi altro luogo più acconcio che la strada; ma spero ch'Ella indovinerà agevolmente la qualità della nostra ambasciata, sapendo che ci manda il marchese di Baldissero figlio, il quale è qui, a Milano, venuto apposta da Madrid.

– Capisco senza bisogno d'altra parola: disse Valpetrosa con una serena tranquillità, ma benchè mi rincresca assaissimo il non poter aver l'onore di accoglierli nella mia umile casa, capiranno, spero, senza difficoltà anche loro le ragioni che mi tolgono di invitarli a salire nel mio quartiere.

I due padrini di Baldissero fecero un moto di assenso.

– D'altronde, continuava lo sposo d'Aurora, quello che si ha da trattare fra chi li manda e me, esige anche da parte mia l'intravvento di intermediarii. Faccianmi il favore di stabilire un luogo di ritrovo e fissare un'ora, ed io manderò colà i miei rappresentanti.

– È giusto: rispose di Castelletto. Ella non vorrà stupirsi se questo ritrovo lo fisseremo ad un'ora piuttosto vicina. Per le ragioni ch'Ella può facilmente immaginare, il marchese brama ardentemente che ogni cosa sia presto, assai presto finita.

Valpetrosa sorrise con mesta ironia.

– Capisco la sollecitudine del signor marchese, diss'egli, e non la condanno; anzi la partecipo ancor io. Ma lor signori capiranno pure come, per quanta volontà io abbia di accondiscendere alle brame del signor marchese, mi ci vuole un certo tempo a trovare due fidati amici a cui commettere il mio mandato, e come io, dovendomi preparare a quello che è scopo della loro venuta con provvedere ad infinite cose, non posso altrimenti che differire a domani l'onore di trovarmi a fronte del loro principale.

I padrini di Baldissero mossero di subito alcuna obiezione, da cui non si lasciò smuovere Valpetrosa, il quale dichiarò fermamente che nulla lo avrebbe fatto cambiare di proposito a tal riguardo. Si stabilirono il luogo e l'ora de! convegno fra i padrini, e poi sì separarono. Lo sposo d'Aurora non tardò a trovare due amici che acconsentirono a rendergli quel funesto servizio, e si decise che il duello all'ultimo sangue avrebbe avuto luogo il domattina per tempissimo, arma la spada.

Tutto quel giorno Valpetrosa ebbe lo straordinario coraggio di comparire in presenza di sua moglie e di sua madre più lieto, sereno e tranquillo che mai; se vi fu un cambiamento in lui non si mostrò che nella tenerezza dell'affetto che si sarebbe detta più espansiva e maggiore; potè avere la forza d'animo di parlare con Aurora dell'avvenire, di confortarla colle più lusinghiere speranze d'un destino migliore, di parlare delle gioie che la nascita del loro bambino avrebbe arrecato a far più prezioso e più santo ancora il diviso amor loro. E in cuore il misero aveva pur troppo i più funesti presentimenti; e la sua natura abitualmente risoluta era tutto ondeggiante fra le più opposte contraddizioni. Ora non voleva difendersi, voleva disarmare il suo avversario colla mitezza del suo contegno, presentandogli il petto indifeso, chi sa che alcun resto dell'antico affetto non fosse ancora per lui nell'animo di Baldissero, ed al vederlo così non si ridestasse tornando quale al tempo della loro amicizia? pensò perfino un momento – ma fu un solo momento – ad umiliarsi innanzi all'avversario, a tentare di vincerne colle parole e colle supplicazioni la collera, a dirgli come di loro l'uno a niun modo potesse uccider l'altro, perchè egli non doveva tornare dalla sua sposa lordo del sangue del fratello di lei, e questi non poteva presentarsi alla sorella, omicida dell'uomo a cui ella aveva dato l'amore, la sua sorte, tutto di sè. Ora invece egli pensava a difendersi con ogni vigore, a combattere con accanimento, ad offendere con feroce ardimento. I vincoli del sangue, le memorie dell'antico affetto non dovevano aver più ragione alcuna di farlo riguardoso verso i giorni di Baldissero: non s'aveva da veder più in costui che un fiero nemico il quale veniva per distruggere la sua felicità. Era suo diritto, era suo dovere, anche per Aurora, il ripulsarne, fosse pur colla sua morte, la minaccia e l'offesa.

Ed era egli tuttavia colla tenzone di questi varii pensieri in capo quando il mattino di poi Valpetrosa vide giunta l'ora di recarsi al fatale convegno. A Nariccia, col quale il giorno innanzi aveva terminato ogni cosa che occorresse per quel certo aggiustamento che ho detto; a Nariccia, cui aveva pregato di un ultimo abboccamento prima dello scontro, Valpetrosa diede la lettera per la moglie e per la madre e tutte le più minute istruzioni sul modo di governarsi, ed ottenuto anco una volta i più solenni giuramenti di fedeltà da quell'ipocrita, partissi accompagnato da' suoi padrini pel luogo del ritrovo, mentre Aurora, ignara affatto d'ogni cosa, dormiva tuttavia tranquillamente.

Quale fosse l'esito del duello fra il marchese di Baldissero e Maurilio Valpetrosa, lo sappiamo già dalle parole che dal primo di costoro sorprendemmo pronunziate a se stesso in un momento d'angoscia nell'attesa del figlio e poscia nel suo colloquio col Governatore.

Non vi narrerò la desolante scena che avvenne quando in casa di Maurilio Valpetrosa fu quest'ultimo recato in aspetto di cadavere, innanzi alla povera Aurora che di nulla sapeva, ma che pur tuttavia era turbata da un'indefinibile inquietudine che era un presentimento di sventura. Il marchese di Baldissero non volle, non osò presentarsi innanzi alla sorella per annunziarle cotanta disgrazia; e nessuno l'osò di quelli che avevano assistito al duello fatale, da Nariccia in fuori, a cui si diede e il quale accettò l'incarico di correre a preparare, per quanto fosse possibile, al brutto colpo l'anima sensitiva dell'infelice amante. Ma Nariccia, fosse insufficienza in lui al dilicato ufficio, fosse anche (e di quel tristo ben può pensarsi cotanto orribile disegno) uno scellerato proposito di ferire mortalmente al cuore la misera donna, annunziò la cosa in modo che Aurora svenne e parve dovesse morire di quel colpo ancor essa. La madre di Valpetrosa non aveva guari maggior forza e coraggio della sposa di lui. Il trafitto recato con ogni precauzione a casa, non potè parlar più, non potè più esprimere che cogli sguardi i suoi ultimi addii alle dilette persone del suo cuore, e raccomandarle ancora a Nariccia, e morì fra le braccia delle sconsolatissime donne.

Fu allora che primamente Baldissero ardì entrare in quella casa in cui egli aveva recato il dolore. Aurora giaceva priva di sensi abbandonata sul corpo di suo marito che abbracciava strettamente: la vecchia madre, in un accesso di dolore furibondo, malediva colei che aveva portato al suo figliuolo la barbara morte immatura.

Baldissero sentì stringersi il cuore, e fino da quel momento gli penetrò nell'animo quel dubbio crudele che gli abbiamo udito manifestare tanti anni dopo all'epoca del nostro racconto, quando si domandava, s'egli aveva avuto il diritto di troncare colla spada dell'omicida il nodo di quelle due esistenze, se Dio aveva da perdonargli l'aver versato quel sangue.

Mentre il marchese rimaneva colà fermo, immobile, sovraccolto, la faccia pallida, i lineamenti contratti, stretto il cuore da un'emozione impossibile a dirsi, Nariccia gli si appressò rispettosamente, e gli parlò piano:

– Che ordina Ella si faccia?

Il fratello d'Aurora volse su di lui uno sguardo torbido e semispento.

– Lasciamo quell'infelice al suo dolore. L'intendente s'appressò ancora di più al figliuolo del suo padrone e soggiunse con voce ancora più bassa:

– Mi rincresce, ma ho altri ordini da S. E. il marchese suo padre.

Baldissero levò la testa con qualche vivacità:

– Ah! quali?

– Trar subito fuori di questa casa l'illustrissima signora marchesina Aurora.

– Per condurla dove?

– Ho già preso a pigione una comoda casetta fuori di città dove è intenzione di S. E. che nascostamente da tutti la stia finchè siasi sgravata… E mi pare opportuno profittare di questo suo stato medesimo per togliere la signora marchesina di qua.

Il marchese stette un momento sopra pensiero e poi rispose asciuttamente:

– Fate quel che vi ha comandato mio padre.

Quando Aurora tornò in sè la si trovò in letto entro una stanza che non aveva visto mai, con intorno un medico sconosciuto, la sua cameriera Modestina e dietro le cortine del letto l'ombra d'un uomo ch'ella non poteva scorgere chi fosse.

Dapprincipio non la si ricordò di nulla; non sentiva che un indolorimento generale, e per raccogliere il suo pensiero aveva bisogno d'uno sforzo penosissimo che gli tornava come una viva trafittura al cervello. Ma poi venne la funesta memoria: gittò un grido e volle gettarsi giù dal letto: ve la trattennero con amorosa violenza.

– Lasciatemi, lasciatemi… Il mio Maurilio!.. Il mio Maurilio!.. Dov'è?.. Voglio vederlo ancora… Siate pietosi… Vo' morire con lui.

L'ombra d'uomo dietro le tende s'agitò, si mosse e come tratto da una forza esteriore, venne fuori con passo lento, quasi riluttante fino all'arrivo degli sguardi della giacente.

Questa mandò un'esclamazione soffocata che pareva di sorpresa: si lasciò andare sul letto senza più sforzi per togliersene, guardò fiso fiso un istante la faccia di quell'uomo che pareva non poter riconoscere. Dopo un poco allargò le pupille, come sotto l'impressione d'un insuperabile orrore, si trasse indietro sui cuscini più che potè, allungando innanzi le braccia come per respingere un'orribile visione ed esclamò con accento pieno di ribrezzo, di sdegno, d'odio:

– Via, via, via!.. Tu qui!.. Tu osi venir qui!..

Il fratello d'Aurora si ritrasse; uscì di quella stanza con infinita oppressura dell'anima.

La misera diede nuovamente in ismanie: ma il medico che le stava al fianco trovò pure le magiche parole con cui ricondurla alla calma, infonderle forza e coraggio.

– Se la fa di questa guisa, le disse, la si uccide.

Aurora lo guardò con una certa espressione che significava chiaramente: – E che m'importa? Se gli è questo appunto ch'io voglio!

Ma il medico lesto a soggiungere:

– E la sua morte sarà quella eziandio della innocente creaturina che porta nel suo seno. Ella ha l'obbligo, il sacrosanto obbligo di conservarsi per suo figlio.

Aurora non rispose parola: ma si calmò di presente; stette lungo tempo sopra pensiero, muta, immobile, appena se con sembianza di viva, tanto era pallida, solo che tratto tratto due grosse lagrime le colavano giù delle guancie. Quando il medico tornò a vederla, ella gli disse piano:

– Ha ragione. Debbo vivere per mio figlio: e lo voglio… Mi faccia guarire.

Il medico si pose con tutta la sua scienza e con tutto il suo zelo a lottare contro la morte che pareva aver già posto il suo artiglio su quella infelice; e la lotta fu varia, lunga, dolorosa.

Mai non fu che il marchese fratello d'Aurora le comparisse dinanzi: il medico lo aveva assolutamente proibito: ma Baldissero seguiva con ansia e sollecitudine l'andamento della malattia di lei, nè si sarebbe mosso di colà se notizie arrivate di Madrid non avessero costrettolo ad una ratta partenza. Suo figlio nato da poco, Ettore, era stato assalito da una di quelle malattie infantili che tante vite mietono nella prima età e temevasi pei giorni suoi. Il marchese raccomandò la sorella a Nariccia, e partì.

Ed era proprio in buone mani, la povera Aurora, affidata alle cure di quel tristo uomo di Nariccia, il quale veniva dicendosi fra sè con cinica e scellerata speranza:

– Se questa donna morisse, portando seco nel mondo di là il frutto del suo amore, chi vi sarebbe ancora a cui dovrei dar conto dei capitali di Valpetrosa?

Legalmente egli s'era già governato di modo da non avere ostacolo nessuno alla sua ruba, poichè aveva fra le carte dell'ucciso Valpetrosa frugato, trovato quella sua dichiara che certificava simulata la cessione, presala e distruttala: ma se la vedova e il figliuolo del derubato sparissero, tanto di meglio: alla madre di Maurilio contava dare una piccola somma per azzittirla.

Ma dopo alcuni giorni intorno all'ammalata venne da Torino un'altra persona, mandata dal padre medesimo di lei: il frate Bonaventura, il quale Aurora guarita e liberata, doveva poi condurre al scelto monastero: e la misera vedova di Valpetrosa fu dunque in piena balìa di queste tre persone: Nariccia, il gesuita e la fante Modestina Luponi. Quella che per si poco tempo era stata sua suocera non sapeva dove Aurora fosse riparata, nè ancorchè lo avesse saputo avrebbe cercato vederla: ned Aurora chiese mai menomamente di lei.

Non andò gran tempo che una quarta persona si aggiunse a prestare le sue cure alla giacente, e queste furono le cure veramente amorevoli ch'ella ebbe. La cameriera, Modestina, si lagnava che da sola erale troppo faticoso e poco meno che impossibile il bastare ai moltissimi ed incessanti uffizi da rendersi all'ammalata, e siccome se a quella piccola schiera in mezzo a cui viveva Aurora era da aggiungersi una persona, questa volevasi delle più fidate, Modestina, che tutta oramai s'era posta ai servigi di Nariccia e di Padre Bonaventura uniti in una comune e strettissima lega d'interessi, suggerì ella stessa una donna che secondo lei poteva ed era dispostissima ad aiutarla nell'accudire l'inferma, senza pericolo di ciarle o d'indiscrezioni qualsiasi: ed era questa insieme una buona opera che la Modestina, in quel tempo non ancora trista del tutto, come quando la conoscemmo noi sotto il nome di Gattona, invecchiata e pezzente, faceva in vantaggio d'una povera vittima, che era sua cognata, la moglie di suo fratello Michele, soprannominato più tardi Stracciaferro.

E qui ci occorre fare una nuova digressione per narrare brevemente la storia di questa infelice.

Si chiamava Eugenia ed era figliuola di un armaiuolo; questi che un tempo se la ricavava per benino, aveva fatto dare alla figliuola un po' d'educazione di cui essa, dotata d'un ingegno non comune, d'una buona volontà eccezionale e di una rarissima disposizione ad apprendere, aveva tratto un tal profitto che si sarebbe giudicato impossibile. Bellissima e virtuosissima, aveva intorno una nuvola di galanti, da cui era la sua saviezza sola a difenderla, perchè sua madre era morta, e suo padre, sempre inclinato al vizio, s'era ora buttato sulla mala strada addirittura e crescevano in lui lo sciupo del danaro, la smania dei bagordi nella proporzione diretta con cui diminuivano il lavoro ed i guadagni.

Michele era allora maestro di scherma; era di umore irascibile, di carattere impetuoso, d'abitudini manesche, conscio della sua forza e facilmente tracotante, ma non aveva commesso ancora atto che si potesse dir disonesto. La sua abilità nel mestiere gli dava sufficienti guadagni, e il marchese di Baldissero dietro la raccomandazione della cameriera di sua figlia (sorella di Michele) lo aveva fatto nominare eziandio maestro all'Accademia militare. Per ragione del suo mestiere. Michele aveva dapprima conosciuto l'armaiuolo padre di Eugenia, e veduto poscia quest'essa se n'era fieramente innamorato. Aveva cercato ogni maniera per diventare intrinseco dell'armaiuolo; e siccome la più facile era quella di farglisi compagno nella vita disordinata ch'ei menava, Michele, il quale aveva pur esso le medesime tendenze, non trascurò questo mezzo e divenne il compagno assiduo delle orgie e dei bagordi di quello sciagurato, il quale in breve tempo ebbe la maggiore ammirazione e della robustezza di stomaco del maestro di scherma che ingollava vino a bizzeffe senza manco darsene per inteso e della forza straordinaria dei muscoli di lui che lo facevano temuto e rispettato da tutti e la miglior salvaguardia per quelli che fossero dalla sua in ogni baruffa che potesse nascere, tanto che non poteva più passarsela senza l'amico Michele.

Quando adunque quest'ultimo ebbe fatto appena un cenno del suo amore per Eugenia e del suo desiderio d'ottenerla, il padre di lei glie la gettò, come si suol dire, fra le braccia, lieto e di far cosa grata al suo amicone, e per dir tutto il vero, di sbarazzarsi d'un imbarazzo e d'una spesa.

Eugenia non amava nessuno, ma l'ideale dell'uomo a cui avrebbe voluto dare il suo bel cuore ed il suo animo eletto era ben diverso da quello che suo padre le presentava in isposo. La grossolanità fisica, morale ed intellettiva di quell'omaccione facevano il più spiccato contrapposto colla delicatezza di lei: tutto in essa si ribellava a codesta che in fatti era una mostruosa unione, e più che un presentimento la certezza d'un'infelicissima sorte le si affacciava alla mente. Volle contrastare, ma essa era debole, mite, timida; ed ai primi peritosissimi detti che ardì pronunziare di opposizione e diniego, il padre la rimbeccò con tale violenza ch'ella non ebbe altro scampo che curvare il capo e tacersi.

Sposò adunque Michele, ma senza farsi la menoma illusione sul conto di lui, sulla possibilità di trarlo a miglior condotta, sul destino che l'aspettava: andò realmente come vittima rassegnata all'altare, e le sue previsioni e le sue paure avevano pur troppo ad essere tutte effettuate!

La condotta di Michele non si mutò pel matrimonio e non accennò neppure volersi mutare; ma tuttavia da principio l'amore che aveva per Eugenia, se con questo nobil nome può pure chiamarsi il sentimento affatto materiale di desiderio che gli ispirava la bellezza di quella giovane, la mite dolcezza di lei e quell'influsso inesplicabile che in certa misura esercita anche sull'animo più rozzo la grazia d'una donna gentile, poterono ottenere che almanco verso la moglie quello sciagurato usasse alcun riguardo e mostrasse qualche rispetto: così che quando tornava a casa concitato dai bevuti liquori, coll'anima sconvolta e l'umore inasprito dalla perdita nel giuoco, dalle liti che sempre finivano male pei suoi avversari grazie alla sua forza erculea, e cui sempre era il suo spirito tracotante a provocare, Michele cercava di nascondere il suo stato alla giovane moglie e si faceva uno studio di non dirigerle pure la parola. Ma questa specie di suggezione non volle durar lungo tempo. Non tardò guari ad accorgersi il marito, che la sua presenza, i suoi modi, le grossolane manifestazioni de' suoi ardori non cagionavano in Eugenia che una ripugnanza invano voluta dissimulare; sotto l'azione del dispetto ch'e' ne sentì, scomparve anche quella suggezione che prima si prendeva di lei; cominciò dalle rampogne e da quelle ond'era capace la sua anima bassa e volgare, ne venne alle minaccie, senza più riguardo nessuno si mostrò in tutta la bruttezza della sua indole; la qual cosa se fosse atta a scemare quel sentimento di ripulsione che era in lei giudicatelo voi.

Frattanto, come sempre accade, anche le condizioni materiali di quella famigliuola andavano peggiorando. Il padre d'Eugenia aveva fatto capo ad un fallimento in conseguenza del quale aveva dovuto smettere il fondaco e vivere oramai di varii, incerti e non sempre onorevoli spedienti, a cercare e mettere in atto i quali concorreva massimamente Michele. Questi da parte sua, per la mala condotta, aveva perduto il posto da maestro all'Accademia militare, e vedeva ogni dì più dimagrarsi di accorrenti e di allievi la sua sala di scherma. Se malesuada, secondo il poeta latino, è la fame, più mal consigliero ancora è il vizio che non ha più mezzi di soddisfare le sue accanite ed empie voglie: un dì Michele e lo suocero furono implicati in un certo processo di truffa, ed andarono tuttidue a far conoscenza la prima volta col pane di prigione. Furono condannati a più anni di carcere: il padre d'Eugenia dopo non molto tempo ci morì; lo sciagurato di lei marito fu onninamente perduto, perchè colà strinse conoscenza e lega coi più scellerati fra i delinquenti, primo dei quali quel Graffigna che, conosciuto ben tosto il giunto della corazza in quel robusto colosso, seppe colla sua felina accortezza insinuarvisi nell'animo e governarlo a suo talento.

La povera moglie di Michele rimase adunque sola, senza mezzi di fortuna, con una salute resa cagionevole dai sofferti affanni, coll'onta d'avere padre e marito colpevoli, e per maggior sventura portando nel seno un frutto del materiale amore di Michele. Gli era in queste condizioni che l'aveva lasciata la Modestina, quando insieme colla padroncina erasi fuggita per alla volta di Milano. Siccome Eugenia erasi venuta raccomandando più volte alla cognata, e questa non poteva a meno che sentire alcuna pietà per lo stato veramente compassionevole in cui quell'infelice era ridotta, trattandosi poscia di avere qualcheduna a compagna nelle cure da prestarsi alla marchesina Aurora, la sorella di Michele propose e riuscì a fare aggradire da Padre Bonaventura e da Nariccia che a questo ufficio fosse chiamata Eugenia, della segretezza della quale essa si rendeva compiutamente garante. Aveva inoltre la Modestina in codesto un'altra idea ed un'altra speranza: ed era che Eugenia essendo per diventar madre ancor essa, quantunque la liberazione di lei dovesse venire qualche mese dopo quella di Aurora, potesse tuttavia combinarsi che la medesima diventasse poi nutrice, custode ed allevatrice del figliuolo della marchesina, la qual cosa all'immaginativa non infeconda della Modestina si presentava come sorgente e cagione di prosperità e di vantaggi, non che per sua cognata, ma eziandio per sè.

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