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La plebe, parte IV
Durava tuttavia, e nelle stesse proporzioni, l'amor suo per l'uomo a cui aveva sacrificato ogni cosa; ed egli si mostrava e mantenevasi degno pur sempre di tanto affetto. Se Valpetrosa avesse potuto dare tutto il suo tempo, o la maggior parte almeno, al dolcissimo compito di circondare dell'amor suo l'anima e l'esistenza della sua giovane sposa, qual traversìa, qual contrarietà avrebbe ancora avuta tanta forza da penetrare sino al cuore di lei, difeso da sì cara e potente armatura? Ma le bisogne della congiura esigevano imperiosamente il tempo, le cure, la mente tutta di Maurilio Valpetrosa, che nella rischiosa intrapresa aveva impegnati la sua più dominatrice idea, le sue più forti aspirazioni, il più solenne suo giuramento. Aurora, per forza trascurata, rimaneva sola, in casa, senza trammezzo nessuno, alla presenza della suocera ostile, al contatto delle uggiose volgarità, all'inevitabile paragone del suo presente col passato.
Si ritraeva ella nella camera coniugale, così infaustamente disertata dal marito, e si affondava nelle più dolorose meditazioni dei suoi casi. La sua colpa, della quale il trasporto dell'amore le aveva dapprima velata la gravità, allora le appariva d'una inesprimibile enormezza. Vedeva la faccia sdegnata di suo padre improntata d'una severità che non perdona; le pareva d'udire suonare da quel labbro superbo la maledizione sul suo capo; pensava eziandio a sua madre morta, e si figurava con ispavento vederla ella stessa, che pure l'aveva amata cotanto, sorgere dal suo sepolcro e lanciarle un'inesorabil condanna. Correva allora a prendere quel rosario d'agata che aveva portato seco, unico ricordo della spenta genitrice, e lo baciava implorando perdono, e, gettatasi in ginocchio, pregava. Poi piangeva, e correva il suo pensiero all'amoroso fratello colaggiù nella Spagna. Che cosa avrà detto del fallo di sua sorella? pensava la misera. Certo si sarà unito ancor egli a tutti gli altri a condannarla e maledirla. Sentiva coll'immaginativa il coro di riprovazione che aveva dovuto levarsi nella nobile società torinese, in tutta la cittadinanza, allo spargersi della scandalosa novella della sua fuga; arrossiva e tremava, tutto sola, a questo pensiero, e si copriva colle mani la faccia e si diceva con infinito tormento: – «Nessuno, nè anche mio fratello, non ha diritto di impor silenzio a quelle voci che affermano il mio disonore.»
Ma pure il fratello, ella sperava, sapeva che non si sarebbe congiunto cogli altri ad imprecare su di lei. Egli l'amava tanto! Se c'era anima al mondo in cui potesse entrare un sentimento di compassione per essa, insinuarsi un generoso impulso di perdono, era quella. Dov'essa Io avesse pregato intercessore fra lei e suo padre, non egli si sarebbe rifiutato all'opera pietosa. E se a lui scrivesse?.. Ah! no; era inutile. Intercessione veruna non avrebbe giovato mai a placare la giusta collera paterna, ch'ella immaginava seco stessa tremando. Quando erasi partita aveva pure pensato un istante di lasciare pel padre un motto che umilmente supplicasse perdono; e non aveva nemmanco osato vergarlo. Ora gli parve che pur tuttavia al fratello potesse e dovesse assolutamente dirigere una parola; scrisse a Madrid e stette ansiosamente aspettando risposta.
Infelice! Ella non prevedeva quanto crudeli e fatali avrebbero avuto ad essere le conseguenze di questa sua lettera.
Pel superbo marchese era stata la fuga della figliuola una ferita crudele e profonda; non tanto per l'amore ch'egli avesse ad Aurora, il quale in verità era temperatissimo, e veniva dopo altri affetti e sentimenti parecchi, quanto per l'orgoglio che giudicò l'onore della stirpe gravemente offeso. Suo primo impulso era stato correr dietro egli stesso ai fuggitivi, strappare dalle braccia del rapitore la figliuola e gettarla in un monastero, lui ammazzare come si fa del ladro che si coglie nell'atto di rubare; ma la riflessione lo trattenne. La sua condizione sociale, il suo grado, la età non gli consentivano di questi partiti spicciativi; non a lui sì apparteneva raggiungere e punire i colpevoli; egli, supremo capo della famiglia, doveva avvisare e decidere ciò che occorresse per vendicarne l'offesa e lavarne la macchia, ma un altro doveva essere di quella il braccio vendicatore, l'individualità esecutrice. Si diresse alla Polizia per avere esatti ragguagli sull'essere di quel Maurilio Valpetrosa e sul luogo dove si sarebbe potuto afferrarlo, e scrisse a suo figlio in Ispagna. Gli apprese ogni cosa e comandò venisse in patria tosto: quel che gli toccasse di far poi, non disse nemmanco, sicuro che il figliuolo avrebbelo ben saputo discernere da sè.
Il fratello d'Aurora, appena ricevuta la lettera paterna, non mise tempo in mezzo, e benchè sua moglie l'avesse reso da pochi giorni padre d'un figliuolo (che fu quell'Ettore, uno dei principali personaggi del nostro racconto) partissi alla volta del Piemonte, risoluto a vendicar l'onore della famiglia, punire il rapitore e tornare poi tosto presso la moglie.
Ma frattanto, appena divulgatasi per Torino la notizia del ratto d'Aurora, un altro erasi presentato al marchese padre, per assumere questa parte di vendicatore. Era un giovane gentiluomo, il conte di Castelletto, amico del fratello d'Aurora, che non aveva nascosto un rispettoso amore per quest'essa, che fra i nemici di Valpetrosa contava quindi per primo, cui tutte le condizioni di famiglia, di fortuna, d'età facevano degno sposo della fanciulla, e che quindi nella società aristocratica era già da tempo considerato come il futuro marito di madamigella di Baldissero. Chiesto un colloquio da solo a solo col marchese, ed intromesso alla superba presenza di costui nel suo riposto gabinetto, il giovane, senza preamboli, colla franchezza di un carattere schietto ed impetuoso, coll'accento di chi ha preparate e studiate le precise parole da dirsi, così parlò:
– Signor marchese, io amava immensamente – l'amo tuttavia – madamigella Aurora; non posso permettere che l'infame suo rapitore goda del suo delitto, respiri ancora in questo mondo. Ella può – deve contentarsi di punirlo colla sua maledizione e col suo disprezzo; non io: nè s'acqueterebbe pure suo figlio se qui fosse. Ho la superbia di credere che nessun altro ne può prender le veci, può aspirare a sostituirlo, meglio di me. Sono dunque venuto a pregarla, per l'amicizia che mi lega a suo figlio, per l'amore che nutro verso quella infelice, di volermi permettere che io mi consideri come della famiglia e prenda il desiderato incarico della sua vendetta.
Il marchese lo guardò un poco in silenzio con quel suo superbo cipiglio quasi ostile; poi rispianò le rughe della fronte, ed abbozzato un suo cotal sorriso pieno di orgoglio, rispose tendendo al conte di Castelletto la mano:
– La ringrazio; ma la famiglia di Baldissero non ha ancora, grazie a Dio, bisogno alcuno che uno a lei estraneo ne pigli le difese e ne compia i doveri. Ho scritto a mio figlio e senza aspettare altra risposta, confido che verrà, partitosi di Madrid a volta di corriere. Se mio figlio mancasse, cosa che io credo impossibile, gli anni non hanno tuttavia così logorato il mio corpo da non poter io stesso compiere quel che si deve.
E siccome Castelletto s'inchinava con una certa penosa mortificazione, il marchese soggiunse con maggiore e quasi domestici espansione:
– Terrò tuttavia conto della sua offerta. Mio figlio avrà bisogno di compagni nella sua impresa; ed Ella, conte, sarà senza fallo uno di questi.
Pochi giorni dopo, viaggiando in posta, senza riposo, e facendo premura ai postiglioni con ogni fatta sollecitazioni e generose mancie, giunse a Torino il fratello d'Aurora, afflitto, sdegnato, pieno di cordoglio verso la sorella, di odio e di furore verso l'antico amico Valpetrosa.
I discorsi col padre non furono molto lunghi nè molto precisi; ma si capirono ciò nulla meno i due Baldissero. Non si aspettava più, perchè il figliuolo corresse a raggiungere il seduttore, se non le esatte informazioni dalla Polizia del luogo dove quell'infame, secondo essi lo appellavano, si fosse rimpiattato. Ma già fin d'allora era cosa usuale che la Polizia non riuscisse a saper bene cosa nessuna che importasse davvero.
Valpetrosa aveva le mille ragioni per nascondersi, fra cui era eziandio, se non la principale, non delle ultime nemmanco, quella del ratto della nobile ragazza torinese. Principalissima poi fra codeste ragioni era la congiura politica, di cui egli era uno dei capi. Avvisato da quei personaggi autorevoli, da cui egli aveva avute le efficaci commendatizie per Torino, che il Governo austriaco era in sospetto della cospirazione e stava per mettere la mano su alcuni fra i più compromessi di cui gli era uno; Valpetrosa, consigliato a fuggirsi e non volendo ciò fare e per non essere lontano al momento dell'insurrezione ch'egli sperava possibile e prossima, e perchè sua moglie in uno stato già inoltrato di gravidanza non avrebbe potuto sostenere il viaggio, ed egli non voleva separarsene; Valpetrosa, dico, fece correr voce della sua partenza e nascose il suo domestico focolare e sè stesso in un rimoto quartiere, presso fidatissimi amici, dove nessuno mai sarebbe riuscito a scoprirlo.
La Polizia adunque fece sapere ai Baldissero che quel cotal individuo, nominato Maurilio Valpetrosa, stato a Milano un po' di tempo, erasi poscia partito di là e fuggito in Isvizzera, dove non si sapeva bene in qual città avesse riparato.
Il figliuolo del marchese stava per partire in compagnia del suo amico il conte di Castelletto per la Svizzera coll'animo di girarne tutte le città e borghi e casolari finchè vi avesse trovato i fuggitivi, quando la fatalità volle che sopraggiungesse a Torino la lettera che Aurora aveva scritto al suo fratello a Madrid, la quale, arrivata colà quando egli erane già partito, gli veniva rinviata. In questa lettera la infelice pregava suo fratello perchè non la volesse condannare severamente egli stesso, perchè si facesse intercessore di pietà e perdono eziandio verso il padre così che non proseguisse col suo odio e colla sua maledizione lei e l'uomo che essa amava: queste supplicazioni le faceva non tanto in nome suo, ella di cui certo la colpa meritava ogni pena, ma in nome dell'innocente creatura che stava per nascere. Pensasse egli e chiamasse al pensiero del padre che quella creatura era pure sangue loro e che il proteggerla, l'amarla era in essi ad ogni modo un debito. Sè affermava piena di tristi presentimenti, aver paura della morte, sentire tremenda pesar sul suo capo la collera paterna, tremare, piangere, abbrividire al solo pensiero che quando avrebbe dato la luce al frutto già dilettissimo delle sue viscere, potrebbe per lei dischiudersi la tomba; affronterebbe con animo più calmo il fatale momento, non si spaventerebbe più dell'avvenire quando sapesse che almanco suo figlio non sarebbe fatto reo di quella colpa ch'ei non aveva, avrebbe trovato malgrado tutto nella famiglia di sua madre una famiglia eziandio. Da quanto aveva potuto scorgere e capire delle condizioni del suo sposo, avrebbe potuto nascere agevolmente il caso in cui l'innocente nascituro sarebbe stato esposto anco alle strette del bisogno: oh il diletto fratello di sua madre, quegli che aveva tanto amato la infelice Aurora, non l'abbandonasse, non lasciasse che a quel misero si chiudesse affatto come ad un estraneo il cuore e la casa dell'avo. Se sciolta da queste paure ella sarebbe lieta pur anco morendo. Affinchè suo fratello potesse farle risposta, l'imprudente scriveva il preciso indirizzo del luogo in cui Valpetrosa nascondeva la donna dell'amor suo e se stesso.
Il marchese figlio non lesse quella lettera, che avreste detto scritta con inchiostro di lagrime, senza grande commozione. Il suo tanto affetto per Aurora non era spento, ed a quelle umili e calde preghiere gli si era tutto risuscitato in cuore insieme con una immensa pietà. Si recò incontanente dal padre a dargli comunicazione di quello scritto ed a prenderne gli ordini ulteriori.
Mentre nel rileggere forte a suo padre le parole della sorella la voce tremava al giovane marchese, ed alla fine non erano senza lagrime i suoi occhi, il fiero capo di quella famiglia ascoltò ogni cosa con aspetto freddo, maligno, quasi ironico, e poichè il figliuolo si fu taciuto, un baleno di feroce soddisfacimento passò ne' suoi sguardi.
– Ah ah! esclamò egli con un sogghigno. Ella stessa ci rivela il covo della mala bestia. Non avrete dunque da sciupar tempo e fatica per andarla a schiacciare.
Il figliuolo sentì nel suo cuore generoso tutto aperto in quel momento alla pietà, entrare una profonda amarezza ed un raccapriccio, che erano una dolorosissima pena. Ripiegò lentamente la lettera di sua sorella e disse con voce sommessa ed accento d'un gelato rispetto e d'una malvogliosa sommessione a suo padre:
– Che cosa mi ordina Ella adunque di fare? Nel volto del marchese apparve più spiccata quell'espressione d'una fierezza mista a crudeltà, che guastava la bellezza scultoria di quei lineamenti.
– Avete bisogno degli ordini miei? disse con superba severità. Non vi dicono abbastanza quali sieno la coscienza del vostro dovere e il sentimento dell'onore?..
Il figliuolo interruppe con qualche vivacità:
– Sì padre, per quanto riguarda lui… ma essa? Aurora? (e pronunziò questo nome quasi esitando); ma il figlio che ne nascerà?
Il marchese padre corrugò la fronte molto minacciosamente:
– Quello non è sangue nostro: proruppe; invano vorrebb'essa, quella perduta, impietosirmi su quel figliuolo d'ignobil padre, d'un perfido e abbominato e disprezzevol lignaggio. Nulla possono aver di comune i Baldissero con quella schiatta di volgo… Ma cominciamo a punir lui. Tolto di mezzo quel vile, penseremo alla disgraziata ed al frutto della sua colpa.
Il fratello d'Aurora accennò voler insistere, e il padre, come per torsi di subito ogni ulteriore fastidio in proposito, soggiunse, non lasciandolo parlare:
– Ad ogni modo non dimenticherò mai che quella è mia figlia.
Il giovane marchese sapeva anche troppo che nessuna sollecitazione avrebbe mai potuto ottenere di più e di meglio da suo padre a questo riguardo: s'inchinò in segno di riverente acquiescenza, e si tacque.
Quel giorno medesimo partirono alla volta di Milano il fratello d'Aurora, il conte di Castelletto ed un capitano delle Guardie, amico dei due precedenti, il quale venticinque anni dopo, all'epoca del nostro racconto, abbiamo trovato governatore della città di Torino. Insieme con loro partiva eziandio l'intendente del marchese, messer Nariccia, con particolari e segrete istruzioni del suo padrone.
Per far conoscere quali fossero queste istruzioni, ci convien qui riferire un segreto colloquio che poche ore prima della partenza aveva avuto luogo fra il marchese padre, l'intendente e Padre Bonaventura, in quel tempo giovane gesuita d'una trentina d'anni, molto operoso e inframmettente, frequentatore assiduissimo e graditissimo di tutte le case dei nobili.
Il marchese padre aveva raccontato al gesuita la scoperta avvenuta del luogo in cui si nascondevano i fuggitivi e la partenza che stava per avvenire del figliuolo affine di coglierli alla posta; poscia, guardando fisso il frate con quella sua aria imperiosa che voleva dire: le mie parole hanno da accettarsi senza discussione, e parlando con una certa simulata deferenza, nella quale pure si faceva sentire il tono orgoglioso della superiorità, soggiunse:
– Ella, quantunque viva all'infuori delle esigenze e delle passioni del mondo, pur sa, reverendo, quali siano gli obblighi che a noi, gentiluomini, impone l'onore della famiglia, e a quelli nè io nè mio figlio non saremo per mancare giammai.
Padre Bonaventura incrocicchiò le mani, le serrò al petto che teneva ricurvo, levò un momentino gli occhi al soffitto e poi li abbassò tutto compunto, mandando un profondo sospiro che voleva significare:
– Eh! pur troppo conosco le crudeli esigenze dell'onore mondano: le deploro, ma sono disposto a dar loro passata.
Il marchese continuava:
– Ciò riguardo a quello scellerato; ma riguardo a mia figlia ed al frutto della sua colpa, sento il bisogno di consultarmi con un buon religioso qual è Lei, padre Bonaventura.
Il gesuita s'inchinò.
– Di udire dalle sue labbra se le mie decisioni possono approvarsi da Quel di lassù, come sento che le approva e stima necessarie la mia coscienza.
Queste parole erano dette con una maschera di umiltà sì mal messa che di sotto appariva agevolmente e più effettivo ancora il vero intendimento del favellante, che suonava: «Voglio che mi diate la ragione, e coll'autorità del vostro carattere religioso consecriate come opera irriprovevole lo sfogo della mia passione.»
Bonaventura prese il contegno di chi si mette ad ascoltare con profonda, vivacissima attenzione.
– Disgiunta dal suo vile seduttore, mia figlia sarà tenuta in luogo dove nessuno la veda nè pur la sappia finchè siasi liberata… Dopo, appena guarita, entrerà in un monastero, dove rimarrà finchè… finchè decideremo noi che basti… Lei, padre Bonaventura, mi farà il favore di cercarmi un monastero acconcio, in cui possa ravvedersi quella povera anima, espiare colle preghiere e colle macerazioni della carne il proprio fallo, e dove nello stesso tempo non si dimentichi che quella è figliuola del marchese di Baldissero.
Il gesuita tornò ad inchinarsi.
– Mi farò una premura d'obbedirla, Eccellenza, diss'egli, e spero che riuscirò a soddisfarla compiutamente.
Successe un istante di silenzio; il marchese pareva non voler più dir nulla; il frate, chinato un poco verso il suo interlocutore, stava nella mossa di chi aspetta il principale del discorso; Nariccia, rimasto sempre a bocca chiusa, seduto un po' discosto, guardava di sottecchi colle sue pupille bircie ora l'uno ora l'altro.
– E?.. e?.. disse poi il frate.
– Che cosa? interrogò il marchese superbamente.
– E il fanciullo? susurrò con voce sommessa che quasi non s'udiva, padre Bonaventura.
Nella faccia del marchese apparì quella feroce espressione che già gli conosciamo.
– Quel fanciullo, diss'egli a voce bassa, ma fremente, è l'onta della mia famiglia personificata: e come questa onta si de' cancellare, così egli ha da scomparire.
Padre Bonaventura si trasse indietro colla seggiola; Nariccia fece un leggier trasalto sulla sua.
– Scomparire! esclamò il frate; come la intende, signor marchese?
Questi si piegò verso il gesuita.
– Che privilegio può aver egli ad una sorte diversa da quella degli altri frutti di simili colpe? La famiglia di suo padre andrà dispersa, nella nostra non può entrare: non gli resta che il destino del trovatello. Sarà posto come tale in un ospizio.
I due che udivano queste parole erano troppo soggetti al potente personaggio che parlava, per manifestare in alcun modo, anche il più lieve, la menoma riprovazione, e fors'anco non sentivano neppure entro sè veruno sentimento siffatto; ma tuttavia a que' detti del marchese tenne dietro un silenzio che tornò per tutti impaccioso e che nessuno sapeva rompere.
Fu il signor di Baldissero che dopo un poco riprese a dire come complemento del precedente discorso:
– A quell'ospizio, nello stesso tempo che sarà presentato il bambino, arriverà una vistosa somma d'elemosina, così che tutti i compagni di sventura di quel frutto della colpa avranno dalla sua venuta alcun giovamento; e nello stesso tempo, a propiziare la divina pietà all'anima medesima di quell'empio che mi rapì la figliuola, alla nostra così crudelmente provata famiglia ed alla sorte del neonato, intendo presentare alcuna offerta alle chiese dei Ss. Martiri e della Madonna del Carmine, che sarà di due lampade d'argento, e pregare la loro carità, reverendi padri, a voler dire un centinaio di messe a mia intenzione.
Padre Bonaventura s'inchinò più basso di quello che non avesse ancora fatto per l'innanzi, e disse col suo tono mellifluo, colla sua voce untuosa, coi suoi occhi bassi e colle sue mani incrociate:
– S. E. invero è sempre un esemplare di sentimenti religiosi e di generosità. Iddio saprà darle compenso, e dileguate queste poche nubi, vedrà che le manderà più splendido il sereno di quella felicità anche terrena che la si merita.
Fece una pausa, mandò un sospiro, strabuzzì degli occhi e poi riprese con maggior compunzione:
– Ah! certo Ella ora si trova in una penosa condizione. La nostra divina religione inculca il perdono delle offese, ed io che conosco il suo bel cuore so quanto sarebbe pur dolce a Lei il perdonare.
Il marchese fece una smorfia, che smentiva ricisamente l'allegazione del frate.
– Ma, continuava questi, pur troppo noi non possiamo aggiustare il mondo e le cose come vogliamo, e ci conviene accettare quali sono le circostanze in cui ci volle mettere la Provvidenza. Ella, pel grado che occupa, pel lignaggio a cui appartiene, per le condizioni sociali in cui si trova ha certi obblighi, certe necessità su cui non può transigere, ed è volontà divina che ciascuno compia suoi doveri varii secondo il diverso stato. Considerata adunque bene ogni cosa, io credo che V. E, fu bene ispirata nelle sue decisioni, e che a Lei, nel metterle in atto, non sarà per mancare il divino aiuto.
Il marchese si alzò; e gli altri ne seguirono lo esempio.
– Non dubitavo punto che avrei trovato anche questa volta in Lei, padre Bonaventura, quel religioso prudente e di buon consiglio che sempre mi si mostrò. Ecco dunque ciò che rimane da farsi. Voi Nariccia partirete con mio figlio per essere colà sopra luogo a provvedere a tutto ciò che possa occorrere. A voi l'incarico di condurre Aurora nel più rimoto ritiro che sappiate trovare; a voi quello di togliere, quando sia tempo, dal fianco di lei il neonato… A Lei, padre Bonaventura, l'accorrere presso la infelice a farle udire la voce di Dio e condurla al convento… Io, quella disgraziata, non la vo' manco vedere… Non ho bisogno di dirvi, Nariccia, che tutto quanto occorrerà, potrete spendere.
Il gesuita e l'Intendente uscirono insieme, e il secondo accompagnò il primo per un tratto di strada verso il suo convento.
Non si parlarono per un po': sembrava che evitassero perfino di guardarsi. Ad un punto fu il frate che, chinatosi vivamente verso il suo compagno, gli disse all'orecchio:
– Credo che fareste bene a mettere un segno a quel bambino nell'esporlo, affinchè in un caso qualunque lo si potesse riavere… Non si sa mai quel che possa arrivare!..
Nariccia fissò entro gli occhi il gesuita e gli sguardi di quei due maliziosi s'affondarono l'un nell'altro.
– Ci ho già pensato: disse poi l'intendente. E continuarono la loro strada in silenzio.
E di molte cose ne aveva pensato il tristo Nariccia. Egli aveva continuato a mantenersi in relazione col rapitore d'Aurora; quando Valpetrosa stava per partire, aveva scritto all'intendente dei Baldissero quella lettera di cui il medichino aveva letta una parte salvata dalla fiamma, allorchè Graffigna, che se n'era impadronito in casa dell'assassinato Nariccia, aveva voluto porgergli fuoco da accendere il sigaro.
Ritirate da Valpetrosa le quindici mila lire che aveva creduto necessarie per la sua fuga con Aurora, un altrettanto e più di spettanza del giovane milanese rimaneva tuttavia presso Nariccia; e questi, posseduto fin dalla sua prima giovinezza da una smania feroce di arricchire, dalla passione dell'avaro e da quel rabbioso amore dell'oro onde cotanto si degrada l'anima umana, all'apprendere la venuta del fratello d'Aurora e il suo disegno di vendetta su Valpetrosa, aveva pensato che quando questi nello scontro con Baldissero morisse, quella somma rimarrebbe sua senz'altro.
Quando arrivarono in Milano Baldissero coi suoi due padrini e Nariccia, quest'ultimo, mentre gli altri per l'ora troppo tarda decidevano di non presentarsi a Valpetrosa che il domattina, di soppiatto e sollecitamente recavasi dallo sposo d'Aurora ad avvisarlo di quel che lo minacciava. Il giovane ebbe una forte emozione che non cercò nemmeno dissimulare: ah! non era timore per sè, che dotato egli era d'ogni valore; ma era paura, viva paura del dolore e della sorte che sarebbero toccati a sua moglie ed al figliuolo suo nascituro. Macchiarsi egli del sangue del fratello di lei era grave al suo pensiero, ed era più grave ancora il pensare ch'egli stesso potesse nello scontro soccombere. Per intanto ciò che premeva era fare in modo che Aurora non avesse a concepire pure un sospetto della minacciata sventura, da avanzarle almanco delle ore penosissime di spasimi e paure. Decise a quest'effetto che il mattino vegnente si sarebbe appostato fin di buon'ora sulla strada ad aspettare la venuta dei padrini di Baldissero, perchè non avessero da entrargli in casa ed esser visti dalla sposa, la quale, riconoscendoli, avrebbe potuto agevolmente indovinare il motivo della loro presenza. Già di molto erasi turbata Aurora del vedere l'intendente di suo padre, e benchè le avessero detto che cagione di questa venuta erano gli affari d'interesse tuttavia pendenti fra quell'uomo e suo marito, tuttavia una specie d'istinto la teneva in un'ansietà piena di sospetti.