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La plebe, parte I
La plebe, parte I

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La plebe, parte I

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Maurilio sollevò in volto a Benda il suo sguardo espressivo.

– No: rispose. Ciò che qui mi trasse, non è nulla che possa inquietare nessuno. Ebbi immenso bisogno di penetrar sin qui, ho immenso bisogno di fermarmici un istante… Ho pensato ricorrere alla protezione del tuo nome.

Benda stupito stava per fare alcuna interrogazione, quando un movimento generale interruppe il colloquio dei due amici.

Un domestico passò correndo e gettò queste parole: – È qui la Corte. Sotto l'atrio suonò con voce vibrata il cenno del guardiavoi dato dal comandante delle Guardie del Palazzo: le Guardie del Corpo nel vestibolo e su per lo scalone si misero nella postura del soldato in rango e portarono a bracc'-arm le loro lucenti carabine: la Commissione dei soci incaricata del ricevimento scese la branca ultima dalla scala e s'avviò verso l'atrio.

Prima di riunirsi a questa schiera, Francesco Benda disse affrettatamente a Maurilio:

– Mettiti lì, dietro quel vaso, ed aspettami. Appena accompagnata la Corte negli appartamenti, torno giù, e riparleremo.

Maurilio non desiderava di meglio: sparì dietro un grosso vaso d'oleandro, mentre preceduto dal susurro della folla curiosa dal di fuori, entrava sotto l'atrio il battistrada a cavallo, coperto il mantello rosso di neve.

– Presentat-arm! Comandò la medesima voce.

Si udì il rumore secco e vibrato del movimento dell'arma eseguito dalle guardie colla precisione di vecchi soldati, e sei carrozze della Corte, l'una dietro l'altra, entrarono in mezzo ad un profondo silenzio del popolo che si accalcava fuori del portone e che i Carabinieri e i Veterani tenevano indietro non sempre con buona grazia.

Quello non era ancora il tempo in cui ogni comparsa in pubblico del sovrano desse pretesto ad un'ovazione popolare.

Gli augusti personaggi scesero di carrozza e brevemente complimentati dall'apposita deputazione, si avviarono verso le scale. Veniva primo re Carlo Alberto, con alla destra la regina ed alla sinistra, d'un passo indietro, il presidente della Società che lo accompagnava; poscia il duca di Savoia Vittorio Emanuele colla duchessa, al cui lato dall'altra parte camminava il duca di Genova; dietro, dame ed ufficiali d'ordinanza ed aiutanti di campo e cortigiani.

Le brillanti uniformi degli uomini, i diamanti ed i vivaci colori delle acconciature femminili lucicchiavano alle mille fiamme di quella luminaria, come un'accolta di fuochi. Tutto quello che ha di più maestoso e di più splendido la società civile, radunato in quel gruppo di grandezze e di suntuosità, passava innanzi agli occhi abbagliati di Maurilio, di quel povero giovane senza nome e senza famiglia, nato e vissuto nella povertà e nel lezzo della più umile plebe, che veniva pur ora dagli sconci quartieri ove s'agita la più sprezzata ciurmaglia ed aveva a' suoi piedi appiccato il fango dei trivii più sozzi. Un mordente pensiero gli spuntò nel cervello, e un gran quesito, quello della sorte umana, lo morse improvviso nell'animo.

– Quelli son tutto, ed io nulla!.. Perchè?

Sentì nel petto un'angoscia che gli parve la stretta d'un'invidia potente.

– Oh! se potessi aver mio uno di quei nomi, una di quelle grandezze!

Pensava a quella giovane beltà cinta di ricchezza e d'orgoglio che nella fila dei cocchi attendeva la sua volta per venire a montar quello scalone e introdursi in quell'Eden di gioie mondane a lui serrato dalla tirannia delle convenzioni sociali.

– E v'è un uomo al mondo, continuava egli nel suo pensiero, il quale con atto di sua volontà potrebbe farmi grande e potente; e quest'uomo è quello che ora mi passa dinanzi; è quello che chiamano col nome di re.

Colle mani Maurilio aprì un piccol varco tra le frondi della pianta dietro cui si riparava, e spinse alquanto innanzi la faccia per vedere il re ch'egli conosceva soltanto dai ritratti che abbondavano presso tutti i mercanti di stampe.

La figura di Carlo Alberto era tale, che, non fosse pure stata quella d'un re, avrebbe in ogni dove attirata l'attenzione e meritato dall'osservatore un posto singolare ed una preminenza sulle altre. Sul suo sembiante stava l'impronta della sua natura generosa, ma in alcuni lati incerta, sostenuta in parte da una fede potente, travagliata in altra da un dubbio crudele – dubbio degli uomini e di sè stesso. La vastità della fronte informava di quella dell'intelligenza; le rughe precoci delle tempia, la canizie anticipata delle chiome svelavano segreti, forse da nessuno mai compresi dolori; il pallore quasi cadaverico delle guancie emaciate, lo sguardo spento de' suoi occhi affondati stavan segno di profondi travagli, in notti vegliate ai tormentosi studi, in cui un pensiero ribelle affannava un'anima, forse non vigorosa abbastanza, un generoso concetto lottava contro una volontà non adeguata di forza, una seducente ambizione ed un coraggio individuale, accresciuto da una tradizione di razza, contrastavano colle esigenze d'un prudente riserbo, alcune volte timido per necessità fatale e dolorosa.

Su questi tratti del politico e del re, gettava un velo, che ne accresceva l'incertezza, una specie di misticismo ascetico; sopra le sembianze del cavaliere scorgevi una traccia del rinunciamento, del sacrificio passivo dell'anacoreta; avresti detto che quelle tormentose veglie, onde rimaneva affranta la combattuta carne, cominciate nel faticoso problema delle cose terrene, finivano in rapimenti estatici nell'incomprensibile delle cose divine. Al postutto una grandiosa figura, una delle più complesse e delle più degne di studio che abbia la storia moderna.

Maurilio sentì una strana attrazione verso quella imponente figura di sì misteriosa espressione. Non era lo splendore della potenza che lo colpisse, non era la corona regale ch'egli vedesse su quella pallida fronte; era come la malìa d'un ignoto, che pur si sente racchiudere la grandezza d'un pensiero fecondo, era la traccia del travaglio doloroso di un'anima superiore, travaglio che pareva sin d'allora il preavviso che quella fronte avrebbe portata una corona ancora più preziosa: la corona di spine del martirio.

Il giovane plebeo non potè tenersi dallo spingersi alquanto innanzi a mirare di meglio quell'alta, scialba, severa, solenne persona di re incanutito, brillante il petto di tutte le cavalleresche insegne, circondato di tutte le mostre della potenza. Carlo Alberto ebb'egli attirata la sua attenzione dal lieve rumore del fruscio delle foglie, fu egli avvertito da un influsso magnetico dello sguardo penetrante di Maurilio? Il fatto è che il sovrano volse il capo a quella parte, e visto, in mezzo ai fiori dell'oleandro, due occhi, ardenti come carboni accesi, fissi su di lui, diede in un sussulto lievissimo, e il suo occhio semispento si affissò a sua volta in quegli occhi e balenò d'un istantaneo bagliore in cui si sarebbe potuto dire ci fosse dubbio, sospetto, un'ombra di fugace apprensione tostamente repressa. Ma non una linea de' suoi tratti si mutò, non un muscolo della sua faccia menomamente si mosse. Lo sconosciuto non aveva chinato le sue pupille nell'incontrare lo sguardo di quelle del re; ma in quegli occhi profondi non c'era pure un accenno di ostilità, piuttosto vi era un desiderio, una specie di aspirazione, un voto, quasi una speranza1.

Carlo Alberto continuò il suo cammino, e l'occhio suo, senza pur muoversi, corse via dal viso squallido e tormentato del giovine plebeo all'imponente corporatura della Guardia del Corpo vicina, che presentava l'arma, immobile e dura come un pezzo di marmo.

Era l'epoca in cui credevasi Carlo Alberto aver detto, e certo avrebbe potuto dirlo con tutta verità, trovarsi egli fra il pugnale dei Carbonari ed il cioccolato dei Gesuiti. Damocle coronato, l'antico cospiratore del ventuno camminava sopra un terreno malfido, frammezzo a due abissi, senza una mano a cui sicuramente appoggiarsi, sotto le cortigianerie dei grandi e sotto il muto riserbo dei popoli sentendo romoreggiare cupamente odii infiniti, ed implacabili sospetti, ed infinite minaccie; camminava fra un sì ed un no che nel capo gli tenzonavano incessantemente, verso un'ignota meta, di cui non iscorgeva egli stesso la qualità e la sorte. Che meraviglia se alcuna volta esitasse nel passo? Che meraviglia se all'aspetto d'ogni cosa ignota, s'attendesse ad un avverso colpo del fato? Se al semplice fatto d'un luccicar di due occhi accesi tra i fiori di una festa, nascesse nel suo cervello l'idea d'un pericolo?

Il Re passò lentamente, e dietro di esso la frotta ordinata e smagliante della Corte. S'udì in alto, per la vastità degli appartamenti suonare la marcia reale e perdersi il plauso di battimani, con cui i beati del censo, invitati a quella festa, salutavano l'arrivo di quei sommi rappresentanti dell'autorità sociale. Le Guardie del Corpo si formarono in isquadra e salirono lo scalone dopo il corteggio reale; e le carrozze degli arrivanti ripresero il loro sfilare sotto l'atrio, interrotto dall'arrivo degli equipaggi di Corte.

Maurilio non abbandonò il suo ripostiglio. L'impressione prodotta in lui dalla vista del regio corteo era già scancellata pel ridestarsi più vivo del sentimento e del desiderio che lo avevano tratto colà. Allungato il collo di dietro la pianta che lo nascondeva, egli guardava ansiosamente le eleganti femminee forme che non cessavano dallo sfilargli dinanzi. La carrozza su cui egli aveva tutto concentrato il suo pensiero tardava a sopraggiungere. L'orchestra del ballo gettava giù per le ampie volte dello scalone le sue armonie febbrilmente concitate. Quella musica e gli acri profumi di quei fiori che lo circondavano, salivano al cervello del nostro povero giovane come il principio d'un'ebbrezza fatale, come lo sventurato solletico d'una tentazione indefinita.

Era sua intenzione di non abbandonare il suo ripostiglio, ma secondo la fatta promessa, Francesco Benda, tosto che il potè, venne affrettatamente a raggiungerlo.

– Eccomi a te, diss'egli a Maurilio, fattolo venire a mezzo il vestibolo. Che cos'è che mi dicevi? Che avevi mestieri di venir qui? Perchè? In che cosa posso giovarti? Vuoi forse parlarmi più agiatamente e in segreto? Posso condurti in una riposta cameretta qui sopra, segregata dalla festa…

– No, no: s'affrettò ad esclamare Maurilio.

L'imbarazzo di proseguire nella risposta gli fu accresciuto dalla profonda emozione che di botto s'impadronì di lui. Dalla carrozza ferma in quell'istante sotto l'atrio era uscita e veniva verso i due giovani la persona che Maurilio stava con tanto desiderio aspettando.

Francesco Benda non fu in caso di scorgere il turbamento del suo compagno, perchè ancora egli era in preda ad uno per nulla minore. Mandò una esclamazione, e senza più badare all'amico, tutto preso com'era da un nuovo potentissimo sentimento, si spinse innanzi ad incontrare e salutare le due donne e l'uomo che le accompagnava.

L'attempata ed il cavaliere accolsero il giovane avvocato con molto altiero sussiego e risposero al suo saluto con modo di superba superiorità: ma la giovane gli diresse un gentile sorriso che ben valeva a scancellare ogni sinistra impressione per le maniere degli altri.

Benda si mise allato alla vecchia patrizia e venne accompagnando le due donne verso lo scalone. Il cavaliere s'era fermato un istante per dare qualche ordine al domestico dal lungo soprabito che seguiva col cappello in mano. La giovane all'altro lato della signora attempata passò proprio accosto a Maurilio fermo al posto in cui si trovava, come se vi avesse piantato le radici, incapace di fare il menomo atto, di dire la menoma parola, quasi di trarre il rifiato.

Ella passò colla stessa indifferenza con cui sarebbe passata presso ad una statua o ad uno spigolo della parete, e le vesti leggiere ed eleganti che avvolgevano come d'una nube candidissima la gran dama, sfiorarono frusciando i rozzi, umili panni del povero trovatello. Questi sentì un brivido scuotergli le intime fibre ed un subito gelo figgergli il sangue nelle vene, arrestargli il battito del cuore; una nebbia gli passò innanzi agli occhi e temette un istante cadere. Chi l'avesse guardato in quel punto, avrebbe esclamato: – Gran Dio! Quell'uomo sta per morire.

– Signora marchesa: diceva alla vecchia Francesco Benda, con voce un po' commossa, guardando la giovane: mi permette ch'io le offra il mio braccio?

– Grazie, signor Benda: rispondeva con altiera gentilezza la marchesa, stringendo vieppiù alla persona il suo braccio, come per rifuggire dal contatto di quello che le veniva offerto. Virginia, soggiunse ella poscia, volgendosi alla giovane, vedi un po' se i miei fiori in capo non sono andati fuor di posto?

– No, zia: rispose la ragazza con una voce soave che all'orecchia dell'estatico Maurilio suonò come la più dolce delle armonie.

In quella, il cavaliere che accompagnava quelle dame, finito di dare i suoi ordini al servitore, si affrettava a raggiungerle; e Maurilio trovandosi sul suo passaggio per la via più corta a recarsi allato alla bella giovane, egli senza il menomo riguardo lo ributtò con un urtone come si fa con un inciampo qualunque che vi capita tra i piedi.

Maurilio barcollò e di presente ebbe il sangue acceso da una subita ira che gli salì insieme con la vergogna alla testa. Si dirizzò della curva persona, e saettò uno sguardo pien di minaccia sopra il suo oltraggiatore, il quale, senza pur volgersi, senza badargli dell'altro, continuava il suo cammino, venendo a fianco della ragazza cui abbiamo udita chiamare Virginia, alla quale e' parlava lezioso e sorridente.

Il nostro povero giovane ebbe un istante in pensiero di arrestare quell'elegante insolente e farsi dar ragione del tratto. Mosse un passo verso di lui; ma si contenne tosto. Che avrebb'egli detto? Ella si sarebbe volta a guardare chi fosse quest'importuno interrompitore; ella che era passata senza pur vederlo, ella che non sospettava nemmanco l'esistenza di lui che in essa aveva posta l'adorazione dell'anima sua. Ella avrebbe ascoltato le parole che egli avrebbe dette. Come osar parlare sotto il suo sguardo? E non sarebbe egli comparso troppo da meno in tutto, appetto a quei due eleganti e forbiti vagheggini che lei accompagnavano?

La piccola brigatella era già sullo scalone, e quindi tolta al suo sguardo, ed egli rimaneva ancora immobile a quel posto. Un domestico, che passò e lo guardò curiosamente, lo fece ricordare del dove si trovasse. Prima che l'altro venisse, come mostrò intenzione, a domandargli che facesse colà, Maurilio si sferrò di luogo e corse sotto l'atrio per partire.

S'imbattè quasi da urtarsi in un elegante giovinotto, sceso allor allora da un bel legnetto ad un cavallo. Maurilio strabiliò credendo riconoscere in lui quel suo antico compagno d'infanzia che aveva lasciato, non era forse nemmanco un'ora, vestito di poveri panni, nella lurida bettola di mastro Pelone.

– Gian-Luigi! Esclamò egli a mezza voce.

Quell'altro portò rapidamente al naso l'indice della mano destra come per intimargli silenzio, e proseguì verso lo scalone con tutta indifferenza, come se non avesse udito quelle parole, come se la faccia di colui che aveva incontrato gli fosse affatto sconosciuta.

– È dunque vero che Gian-Luigi vive da signore; pensò Maurilio. Che mistero è mai questo?

Quando era già per uscire del portone, un uomo gli passò dinanzi e si volse a guardarlo ben bene nel volto, ed a Maurilio parve aver già visto altra volta quella figura. Ed aveva ragione; l'aveva vista poc'anzi nell'osteria di Pelone altresì, perchè quell'uomo non era altri che quel tal messer Barnaba che spaventava sì forte l'onesto bettoliere.

Per ragione del suo ufficio, l'agente della polizia s'era trovato colà alla venuta della Corte, aveva visto la sollecitudine affannosa di Maurilio per intromettersi nel palazzo, i ratti colloquii coll'avv. Benda, e finalmente l'incontro coll'elegante giovanotto venuto da ultimo. Era suo mestiere l'osservar tutto, il tener conto di tutto e il trarre deduzioni da tutto. Troppo lontano per udire le parole mormorate da Maurilio nel trovarsi a fronte l'antico compagno d'infanzia, s'era pur tuttavia accorto della sorpresa che il primo aveva provata in quell'incontro.

– To', to'; aveva egli esclamato fra sè. Questo giovane deve conoscere qualche cosa del dottor Quercia il cui modo di esistenza è ancora un problema per me. Chi sa che costui non mi possa servire d'aiuto per iscioglierlo, questo problema? Ma per ciò bisogna ch'io conosca prima di tutto chi è costui.

E passatogli prima dinanzi per vederlo meglio e stamparsene i lineamenti nella infallibile memoria, lo lasciò poscia andare per la sua via, e lo venne con santa pazienza seguitando dalla lungi traverso la nebbia e la neve che calava giù più densa e a larghi fiocchi che mai.

E noi faremo lo stesso, riserbandoci di venir più tardi a dare un'occhiata in questa splendida festa, dove ci aspettano alcune scene non indifferenti allo svolgimento del nostro dramma.

CAPITOLO XI

Maurilio giunse sino alla metà della piazza di San Carlo, e poi si fermò. Il suo sguardo acceso corse alle alte finestre del palazzo da cui pioveva tanta luce nella tenebria della notte. Pareva che volesse penetrarvi per entro, e con esso il suo spirito. Un'intensa aspirazione di desiderio vedevasi dipinta sul volto di lui, la quale tenevalo colà immobile coi piedi affondati nell'umido strato della neve, sotto i densi fiocchi che gli cadevano sulle spalle.

Ad un punto, con un evidente sforzo ch'egli fece, tolse gli occhi da quel bagliore in cui s'affissava, e li reclinò su se stesso. Un profondo sospiro dapprima gli uscì dal petto, poi un amarissimo ghigno gli stirò le pallide labbra, e quindi ruppe in una secca risata che avrebbe fatto pena l'udire.

– Come potrei io comparire in mezzo a tanto splendore, allato a tanta bellezza ed a tanta eleganza?

Si tolse dal luogo in cui pareva inchiodato e camminò con passo frettoloso come se rattamente volesse partire di là; ma il suo andare venne ben tosto rallentandosi; non era giunto per anco all'estremità della piazza, che diede volta, e venne lento lento, di nuovo, verso il palazzo dell'Accademia.

Sostò di colpo mandando un'esclamazione, e gettato indietro il cappello, percotendosi la fronte, come si fa quando ci sovraccoglie il lampo d'una idea:

– Ah! Diss'egli: come fu commosso Benda al vederla!

Il pensiero che si conteneva dietro queste parole parve profondamente turbarlo. I suoi lineamenti si scomposero in modo da far pietà, e giungendo convulsamente le mani, egli esclamò con un accento d'angoscia infinita:

– Gran Dio! Francesco l'ama!

Stette un momento come annientato sotto il peso di quella rivelazione che si affacciava alla sua mente con tutta l'evidenza della verità. Al campanile della vicina chiesa di San Carlo cominciarono a suonare a lenti rintocchi le ore. Maurilio alzò a poco a poco il capo che gli era caduto sul petto e stette ascoltando, mentre le sue labbra, quasi meccanicamente, contavano l'un dopo l'altro i colpi della campana.

– Dieci ore! Diss'egli quando l'orologio ebbe finito di suonare; e colà mi aspettano. Suvvia! Andiamo.

Questa volta camminò di passo veramente risoluto verso la via di S. Teresa; da questa s'intromise poi nella strada che era scritta sulle cartoline ch'egli avea dato a Gian-Luigi ed alla Gattona, e giunto alla porta numero sette vi entrò.

Messer Barnaba, non ostante tutti gli andirivieni di Maurilio, con una pazienza che è una delle prime qualità del mestiere, non aveva cessato mai di tener d'occhio il giovane, ed ora era venuto seguitandolo dalla lungi sino alla casa in cui questi si era intromesso.

– Sta egli qui o viene soltanto a trovarci qualcheduno? si era domandato il poliziotto. Vediamo.

Era entrato ancor egli sotto il portone, e traverso un finestrino sopra del quale stava scritto: PARLATE AL PORTINAIO, aveva visto al fioco lume d'una lucerna una donna nella loggetta del portiere, la quale faceva andare i ferri in certe sue calze.

– Una portinaia! Aveva egli detto fra sè. Buono! Gli è il fatto mio.

E picchiando discretamente nell'uscio che vide allato al finestrino, domandò con una voce insinuante, tutto gentilezza:

– Si può?

– Avanti: rispose la portinaia alzando il naso dalla sua calza.

E Barnaba sgusciò dentro tutto umile e in sembianza peritoso. Verremo poi ad udire che discorsi avess'egli colla portinaia; per ora vi piaccia seguitare Maurilio che più triste in volto di quella notte nevosa va su per le scale sino al quarto ed ultimo ripiano.

Colà c'erano due usci. A quello in prospetto della scala era attaccata con quattro bullette una polizza, su cui stava scritto in mezzo a girigori a colori: Antonio Vanardi pittore; l'uscio a sinistra di quello era socchiuso ed una riga di luce ne usciva ad allungarsi per lo spazzo di quadrelli, facendo impallidire al confronto l'umile lanternino appeso sopra la scala, il quale misurava una scarsa luce a chi la salisse fin colassù.

Maurilio sospinse quest'ultimo uscio ed entrò.

Una stanza piuttosto grande: sulle pareti tappezzeria da poco prezzo a fiorami bianchi su fondo bigio scuro; appiccatevi su ai quattro lati, due per parte, delle litografie incorniciate di legno nero, che rappresentavano il trasporto delle ceneri di Napoleone; un camino e sopra la pietra di sporto un busto di Dante in gesso, ed al di qua ed al di là due altre figurine di gesso, l'una Gianni che ride, l'altra Gianni che piange; presso al camino, appese al muro a chiodi e funicelle, una dozzina di pipe d'ogni dimensione, forma, materia e colore, e inoltre più saccoccie da tener tabacco; un paravento separava un angolo della stanza nascondendo dietro sè i misteri d'un letto; in tondo presso alla finestra, da una parte una scrivania, dall'altra una scancia con suvvi pochi libri, tutti in disordine; vicino a questa scancia un uscio metteva in altre stanze. Nel mezzo della camera una gran tavola e sopravi una lampada con coprilume. Nel camino ardeva un vivissimo fuoco, il quale più che non facesse la lampada mandava un brillante chiarore per tutta la stanza. Seduti presso la tavola stavano tre giovani, i quali all'entrar di Maurilio si volsero vivamente e lo salutarono con molta cordialità.

Questi tre giovani erano gli amici di Francesco Benda e di Maurilio. A quest'ultimo da due anni tenevano luogo di famiglia ed erano come fratelli.

Il meno giovane, che era presso a compire i sei lustri, aveva nome Romualdo. Viveva modestamente d'un piccolo patrimonio lasciatogli dal padre, ch'egli con alcune follie di gioventù aveva alquanto sminuito, ma che bastava pur tuttavia ai gusti rimessi che aveva acquistati colla disillusione nelle cose della vita. Aiutava uno degli amici (il quale stava appunto in quel momento seduto alla sua destra), in qualche lavoro letterario, onde questi cercava alcuno stentato guadagno.

Quest'amico, per nome Giovanni Selva, era un bello, robusto ed aitante giovane, bruno di carnagione, d'occhi, di capelli, alto di persona, di atletiche membra, di franco, gaio e simpatico aspetto. Come Romualdo e come Francesco Benda, che abbiamo lasciato al ballo dell'Accademia Filarmonica, era avvocato, e tutti tre s'erano conosciuti e fatti amici intrinseci all'Università, benchè Romualdo fosse di alcuni anni più attempato e quindi più innanzi negli studi.

Giovanni Selva apparteneva ad un'agiata famiglia borghese, ma se n'era e viveva separato per dissensioni profonde colla madre, vecchia bigotta tutta in mano d'un intrigante di confessore, la quale per far guadagnare al figliuolo la vita del paradiso si era impuntata a fargli intollerabile quella della terra.

Messo fuor di casa dall'influenza d'un cattivo prete e d'un tristo fratello, senza sovvenzione alcuna, Giovanni s'era trovato nel caso di dovere trar profitto dal suo lavoro personale. Avea dapprima voluto provare il mestiere dell'avvocato: ma dalle tasche polverose degli atti di lite non aveva tardato ad allontanarlo la faccia arcigna della noia. Allora s'era abbandonato all'aggradevole, ma poco fruttuosa occupazione della poesia e delle lettere.

– Che vuoi tu? (Quando s'incontrarono, disse a Romualdo, Giovanni con quel suo piglio scherzoso e vivace che era una delle sue maggiori attrattive.) Mia madre ed io non c'intendevamo. Era un concerto di strumenti discordi; ho pensato meglio di romperlo per amore dell'armonia… domestica. Ho lasciato le soglie materne consolate dalla santità di mio fratello teologo, e mi sono ridotto sul monte Aventino. Tu sei solo ed io pure. Andiamo insieme. Uniamoci contro il nemico comune, che sono le difficoltà della vita, troviamoci insieme la nostra strada; andremo per essa a braccia intrecciate, lavorando di compagnia, da buoni fratelli, al conquisto dell'avvenire.

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