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La plebe, parte I
Un terzo dei loro amici, ed era appunto quello che stava con essi quella tal sera di cui vi narro, aveva preso moglie, teneva in affitto un quartiere, di cui poteva cedere la maggior parte ai due compagni, e deliberarono vivere tutti insieme che sarebbe un gusto ed una economia. Questo terzo amico si chiamava Antonio Vanardi e faceva il pittore. Ancor egli era un profugo della famiglia. Possedeva uno zio ricco e droghiere nel quale si era tutta concentrata l'autorità domestica verso di lui. Lo zio aveva pensato dapprima, per ambizione, fare di Antonio un avvocato come tanti altri; e mandandolo a quest'uopo all'Università gli aveva dato occasione di stringere amicizia con Romualdo, con Giovanni Selva e con Francesco Benda; ma il buon Antonio, per quanta buona volontà ci mettesse, non era riuscito mai di farsi entrare in capo un bricciolo di Diritto romano; onde battuto tre volte di seguito alla prova degli esami, avea dovuto rinunziare alla toga dottorale con gran dispetto e disappunto del bravo zio droghiere.
Non potendo farne un Cicerone, il buon zio sperò almeno che Antonio diventerebbe un valente venditore di droghe e robe vive. Niente affatto: quel pazzerello s'era cacciato in testa di voler essere artista e di fare il pittore. Il nipote era testardo e lo zio più testardo ancora. Il primo fu scacciato di casa; ed egli corse allegramente a riparare in una soffitta colla tavolozza e coi pennelli. Forse la collera dello zio non avrebbe tardato a placarsi, se quel benedetto figliuolo non l'avesse rinfocolata con un'altra ed a senno dello zio assai peggiore pazzia: quella di sposare una povera fanciulla, che non aveva un soldo di dote e lavorava colle sue sante dita per vivere. Il droghiere, al colmo dello sdegno, aveva giurato che non avrebbe più perdonato ad Antonio, che non l'avrebbe più voluto veder mai, e finora aveva mantenuto il suo giuramento.
Francesco Benda, come ho già detto, non ostante il suo modo signorile di vita, non aveva scemato d'un punto l'amicizia che lo congiungeva a questi tre compagni, e veniva di spesso a visitarli.
Così vivevano essi, la moglie di Vanardi, che si chiamava Rosa, una buona creatura tutto ciarla e tutto cuore, facendo da donna di casa per tutti; quando un mattino Romualdo, entrato di buon'ora nella stanza di Selva, che non avea visto tornare la sera innanzi, lo trovò seduto al capezzale del proprio letto, sostenendo amorosamente colle mani la testa abbandonata d'un giacente a volto sparuto, il cui sonno l'irrequietudine soltanto distingueva dall'apparenza della morte.
Romualdo stupito fu per muovere un'interrogazione, e Giovanni fattogli cenno tacesse, depose con attenzione sovra i cuscini il capo ardente dell'addormentato e disse sotto voce:
– Lo riconosci?
Romualdo rispose col capo di no.
– Egli è quel giovane che venne due giorni sono a domandarci lavoro, e che noi mandammo a quella terra.
Quindi, tratto l'amico nell'altra stanza per potere più liberamente discorrere, soggiunse:
« – Un poveretto che ho salvo dal suicidio. Ieri sera mi sono fermato un po' più tardi in casa la Adelina; e ciò ha fruttato a me una buona azione, a costui la vita. Egli era là sul ponte di Po, che fissava lo sfilar dell'acqua sotto gli archi con quell'occhio che l'affamato un tozzo di pane. Lo vidi tra l'ombre spiccarsi per un salto, non poterlo, ricadere a terra. Accorsi: era svenuto. Lo riconobbi tosto e sentii quasi un rimorso del non averlo potuto soccorrere quando se ne venne qui elemosinando pudicamente lavoro. Che cosa fare? Tutte le botteghe erano chiuse, e non passava un'anima per colà. Me lo presi in braccio e venni più affrettatamente che potei verso la più vicina spezieria, deliberato a fracassare anche la porta per entrarci. Egli tornò in sè. Volle essere deposto in terra e camminare. Ma nol poteva, ed io dovetti sorreggerlo. Mi disse, quasi in delirio, che non aveva famiglia, non tetto, non pane, non più coraggio: lo lasciassi morire. – Ed abbandonato sarebbe morto senza fallo. La farmacia non mi venne aperta per quanto chiasso facessi; ma si apri il fondaco d'un liquorista, ed io gli feci bere un bicchierino di rhum. Questo gli diede forza, ma gli salì con impeto al cervello. Uscimmo, ed io lo accompagnava sostenendolo, e non sapevo dove. Ei si mise a parlare. Furono strani discorsi i suoi, in cui c'era un po' di tutto: scienza e poesia, erudizione e mattane fantastiche, ingegno e pazzia, un farnetico d'infermo, un vaneggiamento della febbre, un racconto straordinario di Hoffmann. Ma in quella confusione di cose balenava a vivissimi sprazzi il genio. Stupito, commosso, talvolta rapito d'entusiasmo io non credeva a me stesso. Oh! come ha parlato questo demonio!.. E poi ha uno sguardo in que' suoi occhi verzigni che incanta; una testa che non è d'essere volgare; una fronte tanto vasta da posarvisi comodamente tutto un mondo di pensieri.
«Ho di subito determinato associarlo al nostro destino, e gli ho proposto di esserci fratello. Tacque un istante, tremò di tutte le membra e poi disse con accento da scendere nell'anima:
« – Dio v'ascolti!
«Venne meco e qui il suo male sovraccogliendolo di nuovo, dovetti io stesso spogliarlo e metterlo a letto. Tutta la notte delirò con parole tronche, inintelligibili. Ora corro per un medico, lo faccio guarire, e lo avremo nuova recluta nella nostra piccola schiera. Egli mi ha detto ad un punto mostrandomi questo suo piccolo involto:
– Qui, è tutto ciò ch'io posseggo; ma qui (e si toccava la fronte), qui sta la mia ricchezza.
«Lo ha detto con tale accento di convinzione e di verità che non ne ho riso, te lo giuro. Se non avesse una così bella testa direi che gli è un avventuriere; se non m'avesse incantato colle sue parole, avrei sentito compassione della sua miseria, ma non l'avrei amato così ad un tratto. Lì dentro c'è una grand'anima. Quando l'udrai, l'amerai anche tu.»
In quel piccolo involto che il povero giovane aveva seco non si contenevano che pochi libri: Dante – Orazio – Virgilio – Macchiavelli – La Scienza nuova del Vico – il Trattato di economia politica di G. B. Say, – ed un manoscritto tutto spiegazzato ed a strappi, su cui stava scritto a grossi caratteri: – Farragine.
Romualdo diede la sua approvazione a Selva con una stretta di mano; gliela diede eziandio Vanardi; e stettero aspettando con ansia lo svegliarsi del nuovo venuto.
Ed ecco che dalla stanza di Selva un grido richiama la loro attenzione. Ci corrono e trovano lo sconosciuto che, levatosi a sedere sul letto, getta le magre gambe fuori delle coltri per torsi di là, infuocato nelle guancie, gli occhi orribilmente fuor del punto, le mani agitantisi in moto convulso.
Giovanni fu in un salto allato al giovane e lo trattenne. Il delirante gli si abbrancò alle braccia e glie le serrò da fargliene sembrare le sue mani tanaglie di ferro. Le carni gli scottavano.
– Che avete? che volete fare? Gli domandò Selva; e l'altro, fissandogli negli occhi i suoi tutti smarriti, con voce affannosa, a balzi e vibrata, gli disse:
– Trista cosa è la vita! Un'empia lotta, che vince eterna la sventura. Ai primi passi tu se' di questa via d'affanni, e ti par che sorrida all'uom la terra felicemente, e duol supremo estimi il mister della morte. Oh folle! oh folle! Io spesso, il credi, ad invidiar mi trassi la sepolcral de' morti ignota pace; e i dolor della creta maledissi, che s'assuperba nel chiamarsi viva.
– Misericordia! Esclamò Romualdo, giungendo le mani, e' parla in una specie di versi. È matto!
– L'ho detto io che era un fratello: disse Giovanni. È poeta.
Poi, facendolo ricoricare a forza, disse al delirante:
– State quieto; e se avete bisogno di qualche cosa, ditecelo.
– Pace! Ripigliava l'altro. Pace! Pensi tu che l'abbiano da godere i morti?.. Se tutto di noi va in cenere, bene! Un buffo di vento che spegne una candela, e buona sera. Se lo spirito non muore, come avrà pace? Come, perchè spogliatosi di questi ceppi di carne, sarà egli giunto di botto alla fine dei suoi travagli?.. Il rimedio sarebbe troppo facile… Non sai? Io qui dentro ci ho un tumulto che è peggio d'ogni battaglia… Ci bollono tante cose! Tante facoltà che lottano, tanti pensieri che si cozzano, tante immensità che non furono mai dette, perchè non si possono dire. E tutto questo avrà da finire senza conclusione colla poca vita della mia materia?.. Guardate! se ne dovrebbe piangere lagrime di sangue. L'anima continuerà a vivere e tramenarsi di dolore in dolore, di dubbio in dubbio, di morte in morte, donec longa dies, perfecto temporis orbe, concretam exemit labem, purumque reliquit ætherium sensum atque aurei simplicis ignem. Lo ha detto con indovinamento di poeta e con sentimento di cristiano il pagano Virgilio.
I tre amici che tenevano il delirante alle braccia si guardarono spaventati da quel latino.
– Io ho qui intorno al fronte un cerchio di ferro arroventato che m'arde e mi costringe in questa poca sfera lo spirito immortale… Oh! se potessi allargare il mio cranio!.. Se non fosse di questo cerchio, il mio spirito ha penne tali da pervolare tutto l'infinito degli spazi, di mondo in mondo, di sole in sole, di plaga in plaga di questo gran circolo della creazione che ha il centro dapertutto e la circonferenza in nessun luogo… sino ad andar posare il capo sulle ginocchia di Dio! Questo cerchio fatale che mi stringe la fronte, lo sapete? gli è il Zodiaco. I suoi segni mi danzano intorno un trescone d'inferno… Li sento che mi cantano: – «Tu se' schiavo qui, tu se' condannato alla nostra carcere… va là, va là che hai da gingillarti per un pezzo in una burlesca contraddanza fra il cancro e lo scorpione!» Pazienza! Fate fiammare la vaporiera. Io corro il mio regno su d'una via ferrata fatta sull'etere cosmico. Voglio visitare la Vergine che è l'innocenza, e la Libbra che è la giustizia; ma la seconda fu trovata coi pesi falsi, e la prima s'è acconciata a stare in via de' Pelliciai… Il mio regno! È quello del pensiero; quello dove si gettano i germi del vero, nasce il sofisma e si raccoglie la confusione… Inchinatemi. Io sono l'ingegno dell'umanità dagherotipato sulla lastra d'un uomo. Datemi la penna. Essa è il mio scettro; in mia mano avrà ad essere una spada d'Alessandro da troncare l'eterno nodo gordiano dell'astruso problema che è la società all'uomo, che è l'uomo a se stesso.
Selva affissandosi nella faccia contratta del vaneggiante, disse:
– Poverino! Qui c'è uno squilibrio delle forze intellettuali colle fisiche.
– In altri termini, soggiunse Romualdo, gli è pazzo per davvero.
– Non tardiamo a domandare un medico: disse Vanardi; e la sua osservazione fu trovata la più giusta.
Il medico, venuto sollecitamente, pronunziò:
– È una famosa febbre cerebrale, e bisogna in fretta in fretta salassare alla brava.
Rosa, la moglie del pittore, da quella buona donna che era, si piantò al capezzale del malato, e gli fece un'assistenza da suora di carità. Francesco Benda, senza pur dire una parola agli amici, provvide del suo ad ogni spesa. Il giovane fu salvo per allora; ma il medico, dando siffatta assicurazione a Giovanni Selva che ne lo interrogava con molto interesse, come quegli che aveva posta una subitamente profonda affezione nello sconosciuto; il medico soggiungeva:
– È salvo per ora; ma il germe del male non è distrutto. Quello è un organismo che porta seco un elemento potente di sua distruzione, il quale alla prima circostanza opportuna può scoppiare di nuovo ed accopparlo. Deve aver sofferto troppo.
Maurilio (poichè desso era il giovane raccolto da Selva), salvato di quella guisa dalla morte per opera di Giovanni prima, di tutti gli altri di poi, circondato d'ogni amorosa cura, entrò in quell'amichevole consorzio, ne divenne anzi parte essenziale, ne fu amato come si ama una buon'opera nostra, ed amò come glie ne faceva obbligo la riconoscenza che era il solo ripago ch'egli per allora di tanto bene fattogli potesse dare.
Quand'egli fu guarito del tutto, con una semplicità di nobile orgoglio, disse agli amici:
– Ora aiutatemi a trovar lavoro.
Selva gli propose di collaborare con lui nelle sue opere letterarie; Maurilio sorrise un po' amaramente.
– Io vorrei, diss'egli, un lavoro che fruttasse il pane; e la nostra letteratura del giorno d'oggi non è tale.
Aveva una bella calligrafia. Si fece scrivano. Ebbe la fortuna di conoscere un causidico che gli diede atti di lite da copiare. La sua sollecitudine nel lavoro e la nitidezza della sua scrittura valsero a fargliene avere di molto di questa bisogna; e fra il copiare e il tener le ragioni di qualche mercatante, dandoci dentro al lavoro giorno e notte, era giunto a guadagnarsi dalle ottanta alle cento lire al mese.
Risanato, Maurilio non era mai più venuto in propositi che somigliassero a quei suoi farnetichi del primo giorno; ed ogni qualvolta Selva aveva voluto metterlo in siffatti discorsi, egli o s'era allontanato, od aveva pregato lo lasciasse tranquillo.
Parlava di rado; talvolta calava a sorridere e barzellettare; era buono, affettuoso, gentile il più spesso; ma a tratti, senza un visibile perchè, si faceva aspro, triste e scontroso. Allora la sua taciturnità s'accresceva, come pure la scarna pallidezza delle sue guancie, stava in sè, solo il più che potesse, presso che l'intiera notte vegliava passeggiando, quasi non mangiava, e si dava per disperato all'opera manuale del copiare. Sulle prime gli amici avevano cercato svagarlo e rompergli quegl'insulti splenetici di indefinita, profonda melanconia, ma poi, visto che gli era peggio, lo compativano, tolleravano, e vedendolo soffrire, soffrivano ancor essi.
Quando l'avevan visto, oppresso da troppo lavoro, starne le tante ore col petto incurvato al tavolino, in danno della sua salute, ne l'avevan voluto dissuadere, ma invano: gli avevano offerto con insistenza il loro aiuto, ed invano eziandio.
– Lasciatemi fare: diceva egli. Ne ho bisogno. La mano si affatica, ma la testa riposa. Se fossi stato robusto da tanto, avrei preso volentieri in mano la stiva dell'aratro, e sarei stato più utile al mondo.
Selva lo rimproverava alcune volte di che, con tanto ingegno quanto era il suo, nulla facesse, nulla imprendesse, nulla tentasse da recar fama al suo nome e giovamento al mondo.
All'udir menzione della fama lo strano giovane sorrideva compassionevolmente e recitava i versi di Dante: «Non è il mondan rumore altro che un fiato, ecc.»
– Che cosa cale a me della fama? Il mio nome è nulla, voglio essere tale. Non è un nome degno di risuonare nei secoli. Giovamento al mondo? quello sì lo vorrei. Ma se niente opero gli è perchè niente mi si presenta ch'io possa fare utilmente. Intanto penso.
Ma da qualche tempo l'occasione pareva venuta di poter fare alcuna cosa. Un'opera lentamente preparata era sul punto di vivamente intraprendersi con infinito ardore e colle più lusinghiere speranze. Gli amici tutti di Maurilio si erano ad essa consecrati col più vivo trasporto dell'anima; ed ancor esso vi si era accinto, ma con un certo maggior riserbo che non era freddezza ma quasi una preoccupazione di quesito diverso e forse anco superiore.
Quale fosse quest'opera lo vedremo tosto.
Entriamo intanto nella stanza che ho detto, la quale era appunto quella abitata da Maurilio, e vediamo insieme i quattro amici raccolti.
CAPITOLO XII
Maurilio rispose appena al saluto degli amici, gettò a casaccio sopra un attaccapanni il suo mantello fradicio e il suo cappello coperto di neve, e s'accostò al fuoco di cui guardava la fiamma vivace con una specie di desìo e d'amore. Senza profferir parola staccò dalla parete una pipa, la caricò di tabacco, l'accese con un ramoscello di legna ardente che tolse dal fuoco, sedette presso presso al camino, pose i suoi piedi bagnati nella calda cenere ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, la faccia alle mani, stette lì, avvolgendosi nelle nubi di fumo della sua pipa, fissando lo sguardo nelle capricciose oscillazioni della fiamma crepitante.
Romualdo, Selva e Vanardi parevano ancor'essi sopra pensiero. Una certa aspettazione inquieta si dipingeva nelle loro franche ed aperte sembianze. Non parlavano, non lavoravano, non leggevano. La loro allegria naturale scorgevasi esser trattenuta e doma da qualche preoccupazione più che grave.
Dopo un poco Giovanni Selva si alzò e venne presso al camino ad accendere ancor egli il suo sigaro che gli si era spento in bocca.
Si chinò verso il fuoco per raccattar colle molle un pezzetto di brace accesa, e guardò di sottecchi la faccia scura di Maurilio, che si arrostiva immobile al calore di quella vampa.
– Tu non hai visto Mario Tiburzio? Domandò egli a mezza voce.
Il nome pronunziato da Selva, parve un talismano che rompesse un incanto. Maurilio si scosse, gli altri due giovani si levarono e vennero ancor essi vicino al fuoco.
– No: rispose Maurilio, togliendosi alla sua meditazione e volgendosi ai compagni. Credevo anzi di trovarlo già con voi.
– È veramente in ritardo: disse Romualdo: e ciò non è punto nelle sue abitudini, quindi non è molto rassicurante. Tanto più che per questa sera ci aveva annunziato delle comunicazioni e delle novelle importantissime.
– L'altro dì infatti: aggiunse con mal celata trepidazione Vanardi, che era il più timoroso fra i quattro: egli ci disse che parevagli d'essere sorvegliato. Purchè non gli sia capitato malanno? Potrebbero averlo scoperto, preso, e allora…
– Via, via: interruppe Selva: non isgomentiamoci così facilmente. Nella strada in cui siamo entrati conviene avere fermezza, risoluzione e coraggio, e da una parte esser pronti al peggior male, dall'altra confidare nel bene.
– Tu hai ragione: rispose Vanardi; ma però non sei padre. Io sento sempre negli orecchi i pianti de' miei due bimbi che mi cantano l'antifona, che se il governo mi manda a villeggiare a Fenestrelle, essi non avranno di meglio che crepare di fame.
– Fenestrelle! Esclamò Giovanni ridendo, ma forse non con tutta sincerità. Tu ci credi? Quella è la befana con cui il nostro paternissimo regime fa paura a quel fanciullone del popolo. Va là che non avremo la fortuna d'esser fatti martiri a sì buon mercato. La nostra polizia non capisce nulla: l'insolente assolutismo che ci opprime, è, senza saperlo, il colosso dai piedi di creta. Crede esser forte e posa sopra una base che un buffo di vento può sovvertire. Quando venga il giorno che stiamo preparando, l'uragano popolare levatosi al santo grido di libertà, spazzerà via la tirannia nostrana e le baionette straniere che la sorreggono e le danno da sole la forza.
Maurilio volse la sua faccia intelligente, in cui era una lieve espressione d'ironia, verso Giovanni Selva, e gli disse:
– Queste sono belle frasi, da poeta, qual tu sei, ma non tolgono che Antonio abbia ragione. Le frasi rettoriche hanno inebriata molte volte la gioventù ed anche le masse popolari; ma non hanno mai salvato una rivoluzione. Non chiudiamo gli occhi ai pericoli dissimulandoci le difficoltà, secondo me, quasi insormontabili dell'impresa. I governi che ci opprimono sono più forti di quanto il nostro desiderio vorrebbe persuaderci e le nostre declamazioni tentano provare. Sono forti in primo luogo, perchè sono; ed ogni ordinamento che esiste, si afforza per le migliaia di interessi cui soddisfa, che sono come altrettante radici che getta ad abbarbicarsi nella massa sociale. Sono forti perchè effettuano un'idea che sta profonda e potente – sia merito o demerito – nel volgo: l'idea monarchica. Sono forti, perchè, come dicesti tu Giovanni, stanno a rincalzo dietro di loro le baionette straniere, che non sono mica da aversi in non cale. Contro tutte queste forze noi non ne abbiamo altra che quella d'un'idea, la quale certo è potentissima, ma sull'anima soltanto di coloro che possono comprenderla. Ora il popolo italiano è egli maturo per ciò? E badate che a portar giudizio su codesta quistione non dovete soltanto gettare il vostro sguardo su voi e sui pari vostri, ma li dovete abbassare nei ranghi inferiori, dove una massa di gente ancora affatto cieca di mente costituisce la maggioranza, lavora e non pensa. Questa maggioranza sia inerte, peggio ci sia avversa, e noi patrioti a fronte dei governi saremo mille volte più deboli. Queste cose ve le dissi fino da principio e le ripetei a Vanardi, perchè badasse ai casi suoi. Io, tu Romualdo e tu Giovanni siamo soli, e non portiamo con noi la sorte di altre esistenze; libero a noi, anzi doveroso l'avventurarsi in questi tentativi che hanno pure un merito ed un benefizio: quello di mantener viva l'idea e di legare traverso le età per una tradizione di sacrifizi la catena dei cultori d'un santo principio che un dì, certo, avrà pur da trionfare; e poi è opportuno, è buono che in una società si trovino alcuni generosi che si consacrino alla follia dell'eroismo. Ciò serve di sale a difendere alcun poco il corpo d'una nazione caduta dalla corruzione che l'invade. Amo ed ammiro Mario Tiburzio, perchè è il tipo di codesti generosi; e lo seguo senza riluttanza ancorchè non fiducioso dei suoi mezzi. Il patibolo con lui, mi parrebbe davvero l'aureola del martirio. Ma Antonio non può regalarsi questa gloria, senza offendere altri suoi doveri. La famiglia per lui deve stare innanzi alla patria; e non deve posporre il bene certo di quella ad un bene incertissimo di questa. Tu, Antonio, non hai miglior partito da prendere che abbandonarci in questa via scabrosa, che probabilmente trae soltanto al precipizio, e ritrarti sotto la tenda della tua felicità domestica.
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Introdurre la figura di re Carlo Alberto nelle scene del mio racconto, è ella una imperdonabile temerità? Spero di no. Nello svolgersi di questa storia, insieme colle varie classi sociali, ho pensato introdurre anche la monarchia in presenza del problema della plebe. E il monarcato non poteva meglio rappresentarsi che nella nobile, maestosa figura di Carlo Alberto. L'arguto lettore, a quest'ora, si sarà accorto che nei personaggi introdotti a sostenere una parte in questo dramma, si incarnano varii tipi, e in quello di Maurilio stanno raccolte ed espresse in gran parte le qualità, i bisogni, i sentimenti della plebe che conoscesse i suoi mali, e travedesse i rimedi di essi, ed avesse acquistato il sapere di formolarli ed esprimerli. Se questa plebe si troverà in contatto colla monarchia, non è ella la cosa la più naturale del mondo; e quando nessuna delle parti ne resti calunniata o le sue condizioni falsamente espresse, qual legge di convenienza o di verità potrà dirsi offesa?