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Tra cielo e terra: Romanzo
Tra cielo e terra: Romanzo

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Tra cielo e terra: Romanzo

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Maurizio di Vaussana stette un paio d’ore alla Balma, ragionando di cento cose. Cadde anche il discorso sulle cause del suo ritiro precoce dal servizio: ma s’intende che nè il generale lo incalzò troppo con le domande, nè egli credette necessario di dire la verità tutta quanta. Si toccano mal volentieri certi tasti più intimi, quando non si è tra connazionali: e il signore della Balma e il signore del Castèu, quantunque appartenenti pel sangue alla medesima valle, non erano di una medesima patria. Maurizio trovò il modo di dire che da un pezzo sentiva il bisogno di attendere agli interessi di casa sua. Vivendo il babbo, era una cosa; morto il babbo era un’altra. Da principio, correndo ad ogni tanto voci di guerre possibili, aveva stimato necessario di restare al suo posto di combattimento: ma oramai, sfumata ogni probabilità di vicine «complicazioni europee», le voci della sua terra erano state più forti, ed egli, di marinaio che era diventato, ritornava a fare il gentiluomo di campagna.

– Per nostro vantaggio; – disse il generale. – E speriamo che ci restiate per sempre. Ma il miglior modo d’incatenarvi qui, sarà quello di darvi moglie. Non fate conto di prenderla? —

Maurizio sorrise. Che idea! c’era egli proprio bisogno di prender moglie, per vivere e non annoiarsi della vita? Ma questo, che pensò, non lo disse. Infatti, sarebbe stata una grande scortesia verso una buona intenzione, e più ancora verso quell’uomo che l’aveva presa bellissima. Rispose invece con un «perchè no?» a fior di labbra, che lo impegnava fino ad un certo punto, lasciandogli la porta aperta per una brava ritirata.

– Del resto – soggiungeva, – una moglie non si trova lì alla prima voltata di strada. Non è anche conveniente per la felicità, di trovar prima l’amore, donde sia facile poi avviarsi al matrimonio?

– Un altro vi risponderebbe: prima il matrimonio; l’amore verrà poi, e non sarà che più forte, perchè fondato sulla conoscenza, sulla stima reciproca; – ripigliò il generale. – Ma queste sono le vie battute dal ragionamento, e voi amate le vie strane. Per una di queste, infatti, siete salito alla Balma. Innamoratevi dunque, signor Maurizio, e sposate. Per voi, ultimo dei Sospelli di Vaussana, è anche un debito d’onore verso i vostri maggiori, che hanno diritto di veder continuato il lustro di un buon nome. —

Il signor Maurizio non sorrise più, s’inchinò ringraziando. Poco dopo, essendo la sua prima visita durata oltre i termini della convenienza, si alzò per prender commiato.

– Badate, amico; – gli disse il generale, prendendogli affettuosamente la mano e stringendola forte tra le sue; – qui non siamo in città, da vederci una volta alla settimana: siamo qua tutti i giorni, mattina e sera. Del resto, ora che conoscete anche il mio ospite, non sarà più il caso per noi di lasciarlo solo, quando verremo a scovarvi nel vostro Castèu. —

Le accoglienze erano state molto cordiali da parte del generale, e gentili da parte della contessa Gisella; Maurizio poteva esser contento dei suoi vicini della Balma. Bastavano esse per dirgli il carattere dei signori Matignon? Le prime visite per solito non contano, in quest’ordine d’indagini e di scoperte; nessuno si fida a questi incontri preliminari, a questi semplici contatti di superficie, dove le regole della buona creanza e i luoghi topici della conversazione son tutto.

Pure, tanto è forte nell’uomo l’abito dell’indurre, Maurizio se ne partiva dalla Balma con una opinione formata, se non ancora dal suo raziocinio, certamente dalle sue sensazioni. E l’opinione era questa: che i signori della Balma erano ottima gente; il conte un allegro compagnone, con qualche scatto d’imperiosità, derivato dalla abitudine del comando, dall’abuso della caserma e della piazza d’armi, ma del resto un buon diavolo, e piacevole in società, quantunque, fuori dagli argomenti militari, un po’ tavola rasa; la contessa una bella bambinona, senza grande istruzione anche lei, ma buona, una vera pasta di zucchero, felicissima di obbedire a quel gran marito e ai suoi grandi mustacchi, di cui sembrava infatuata, come se fossero ancor biondi. Pensando a quella coppia, gli tornavano a mente due colombi che aveva visti un giorno a Pisa, espressi dallo scalpello di uno scultore, collocati l’uno di rimpetto all’altro, intenti a tuffare il becco nel latte di una tazza d’alabastro; donde a lui era venuto il pensiero che da un momento all’altro, solo che si chinassero un tantino di più, ci sarebbero cascati a capo fitto.

Affogar nel latte, che morte! E non c’era anche il pericolo di annoiarsi un pochino, con tanto latte per tutto pasto? Veramente, per rompere la monotonia c’era l’ospite, il capitano Dutolet. Ma c’era proprio? o non era piuttosto l’ombra di un ospite? Quel ragno grigio si poteva creder benissimo, dalle apparenze, un compito cavaliere: doveva anch’essere un valoroso della buona specie, poichè era molto modesto, non parlava mai delle sue imprese di guerra, e, quando il suo generale vi accennava, egli cercava subito di sviare il discorso. Ma era di poco aiuto, Dio buono, anzi di nessun aiuto in una conversazione. E dovevano esserci ogni giorno alla Balma molte ore di noia.

Anch’egli, il signor Maurizio, si sarebbe annoiato al Castèu, senza i suoi libri, senza il suo disegno di scrivere un’opera. Ah, come voleva mettersi presto al lavoro! Su presto, adunque, in ordine i libri, le carte, gli strumenti; e fatto ciò, sùbito un buon orario da imprigionarcisi dentro, come il filugello nel bozzolo. Egli ricordava benissimo a questo proposito la massima di un suo vecchio professore al collegio di Marina: «i sistemi fanno e non fanno, il metodo è tutto».

Per dar sesto alle cose sue ci sarebbero volute ancora cinque o sei giornate di lavoro. Disgraziatamente, non erano più giornate intiere, ma mezze: alle dodici, ora del desinare, il legnaiuolo era congedato. Come fare altrimenti? Il generale era venuto con la sua signora a visitare la contessa Albertina; gran miracolo che non si ripeteva più da sei mesi. E in quella visita, il conte Matignon de la Bourdigue aveva rinnovato a Maurizio il suo avvertimento: «Siamo in casa tutti i giorni, mattina e sera, sera e mattina». Poveri colombi, sugli orli d’una tazza di latte! La vita della campagna è sana; ma chi non ci ha niente da fare, Dio misericordioso!.. Si cerca di essere in tre; quando in tre non si sente sollievo, bisogna trovar modo di essere in quattro.

Maurizio andava dunque ogni giorno a fare il quarto a quei buoni vicini. Si giuocava molto a biliardo; si faceva anche un po’ di scherma, e qualche volta si usciva a far quattro colpi di pistola. Il generale, da vecchio ufficiale di cavalleria, era un gran sciabolatore al cospetto di Dio; con la spada reggeva appena al confronto del capitano Dutolet, ed era molto inferiore a Maurizio, gran tiratore, che si era fatto in Genova alla scuola elegante e vigorosa di Licurgo Cavalli, e che a Napoli era stato perfezionato dalla grazia corretta di Masaniello Parise. Alla pistola batteva tutti il capitano Dutolet, con quel suo modo curioso, strano, inconcepibile, di tirar diritto senza puntare. Per colpire il bersaglio a venticinque passi, Maurizio aveva bisogno di star sulla mira almeno cinque secondi. Il capitano niente; si presentava di fianco, innanzi al bersaglio, con la bocca della pistola a terra; alzava il braccio, portandolo naturalmente, automaticamente in linea, all’altezza necessaria, non un millimetro di più, non un millimetro di meno; e paf, era un centro senza fallo.

I due testimoni di quelle prodezze lodavano senza risparmio. Ma il bravo capitano Dutolet non accettava le lodi. Non c’era niente da far maraviglia; un po’ di pratica; questione di esercitare le articolazioni a quel punto di arrivo in linea, i muscoli a quel grado di tensione, ecco tutto.

– Ecco niente; – gridava il generale, con la sua voce di tuono. – Se non si trattasse che di esercizio, in tutti i giuochi tu riusciresti eccellente, mio caro. E allora come va che sei sempre una sbercia a carambolo? —

Capitolo IV.

La disputa filosofica

Un giorno che Maurizio faceva la solita strada del bosco per salire alla Balma, gli venne veduta la gran novità di un abito talare che appariva e spariva a intervalli lungo i tigli del gran viale. L’abito talare scendeva; e Maurizio, fermandosi alquanto ad una svolta del sentiero, riconobbe il suo uomo. Don Martino che veniva di lassù! Era un caso strano, inaudito. Il signor di Vaussana non aveva saputo mai che l’arciprete di San Giorgio bazzicasse alla Balma; e vedendo per la prima volta don Martino ritornare da quella eminenza, pensò involontariamente al signor Camillo, il miscredente.

Infatti, quell’anima buona di sua sorella Albertina poteva dir tutto quel che voleva, per coprire la verità, ma il primogenito dei Matignon era vissuto tutt’altro che in concetto di buon cristiano. In chiesa non lo aveva mai visto andare nessuno, nello spazio di trent’anni. Si diceva dal vicinato che fosse un libero pensatore, che leggesse il Voltaire, il Rousseau e gli altri Enciclopedisti; desolazione della abominazione. Quella, s’intende, era la chiacchiera d’altri tempi, dei tempi in cui si voleva dar colpa di tutta la miscredenza moderna al Voltaire, al Rousseau; nè poteva indurre in errore Maurizio, che conosceva benissimo le opinioni spiritualistiche del Ginevrino, e quanto all’altro rammentava benissimo la storia del tempietto di Ferney con la famosa epigrafe: «Deo erexit Voltaire»; un po’ orgogliosa, per dire la verità, ma non atea. Comunque fosse, avessero torto o ragione le coscienze timorate del luogo a veder così neri gli Enciclopedisti, restava sempre il fatto che il primogenito dei Matignon non era vissuto praticando la religione dei padri; e l’essere andato don Martino, arciprete di San Giorgio, al suo letto di morte, non provava punto che si fosse riconciliato all’ultim’ora. Se ciò fosse avvenuto, l’arciprete non avrebbe tralasciato di dirlo: in quella vece, quando gli si toccava quel tasto, don Martino cambiava discorso. Dunque… la conseguenza era facile a trarsi; don Martino era andato per moto spontaneo dell’anima, fors’anche giungendo tardi, e ad ogni modo non salvando che le apparenze, per chi voleva contentarsene.

Quanto al generale, egli doveva essere la seconda edizione del suo fratello maggiore; salvo, s’intende, lo studio sugli enciclopedisti. S’impacciano poco con la filosofia, i militari. Così pensava Maurizio; e così pensando, la presenza inaspettata dell’arciprete di San Giorgio al castello della Balma doveva parergli una cosa strana, inaudita. Ma non era affar suo: da uomo educato, non poteva domandare; da uomo senza curiosità, non ne sentiva il bisogno; si era già dimenticato dell’abito talare, giungendo alla presenza del castellano della Balma.

Il generale era col suo inseparabile Dutolet, ambedue seduti al fresco, su certi sedili di ferro, disposti a semicerchio fuori dell’ingresso, accanto alla gradinata di marmo.

– Venite qua voi a consolarci; – disse il generale, com’ebbe veduto Maurizio. – Venite a riconfortarci lo stomaco. Non lo sentite, l’odore di scarafaggio? —

Maurizio ebbe l’aria di non intendere a che cosa volesse alludere il suo interlocutore.

– Già, – ripigliò il generale, – voi venite sempre dalle scorciatoie; se foste venuto dal gran viale, avreste incontrato l’uomo nero che ci ha regalato un’ora del suo tempo; e ne avremmo fatto volentieri di meno. Con che scopo, domando io, con che scopo il signor arciprete di San Giorgio viene una volta al mese quassù? Per vedere quando si fa conto di lasciargli queste quattr’ossa?.. Ma non ne abbiamo nessuna voglia; non è vero, Dutolet?

– Per quello che mi riguarda, – disse il capitano, senza neanche sorridere, – ci sarebbe troppo poco da rosicare.

– Non dimentichiamo i diritti dell’ospite; – notò il generale, osservando che Maurizio era rimasto silenzioso. – Nè di politica nè di religione si deve ragionare tra uomini. A questo ci ha ridotti la civiltà; e le sue leggi van rispettate. —

Maurizio vide allora la necessità di parlare.

– Se è per me, generale, non vi date pensiero; – rispose. – Non mi fanno paura i discorsi di politica, nè quelli di religione. Credo ancor io che la civiltà abbia delle leggi false, come ne ha delle puerili. A mio avviso si può discutere di tutto; basta che nella discussione si porti della misura, della buona volontà, del rispetto.

– Ah, mi levate un peso dal cuore! – gridò il generale. – In fede mia, non ne potevo più. Immaginate che non posso soffrire i preti.

– Scusate, generale, ma allora…

– Volete domandarmi perchè li ricevo? In verità, non sono io che li invito a venir quassù. Già, non so se debbo ridere o andare in collera, quando me li vedo davanti. Non sanno che esser umili coi potenti e coi ricchi. È dunque una umiliazione che vogliono.

– Ed io, perdonate, non la infliggerei loro; mi darei piuttosto ammalato d’emicrania.

– È quello che dice mia moglie. V’intendereste benissimo con lei, almeno nel fatto di dispensarli da una visita inutile. Neanch’essa li può soffrire. Mio fratello l’ha educata bene, ed io non ho avuto da consigliare mutamenti nella sua educazione. Niente preti, miei giovani amici, specie con le donne. Infatti, è ancora per mezzo delle donne che essi comandano nel mondo; sono essi che le hanno educate alla superstizione, e con la confessione, col perdono periodico, le hanno educate alla colpa.

– Ma il perdono è di Cristo.

– Cristo fu un uomo. Come uomo, lo venero, ho un gran rispetto per lui; non senza riconoscere, per altro, che avrebbe fatto meglio ad essere più severo, insegnando per esempio a non fallire con tanta facilità. Ma che si fa la burletta? Col dirci che il giusto cade sette volte al giorno, non si dà la licenza a tutti di cascar quattordici, o ventotto? Per me, dicano quel che vogliono con la teorica del perdono; non conosco che il dovere, io, e so che il dovere è buono.

– Debbo io dirvi tutto quello che penso, generale?

– Ma sì, per bacco. Non lo dico io liberamente, approfittando della vostra licenza?

– Ebbene, – rispose Maurizio, – vi dirò che il dovere è buono, perchè scende diritto diritto dalla legge morale; e la legge morale è Dio.

– Ah, il gran cavallo di battaglia! Ma siete voi persuaso, caro amico, che Dio non sia una creazione dell’uomo?

– Anche la morale, allora.

– La morale, – sentenziò il castellano della Balma, – è l’utilità bene intesa, per cui solamente si conserva questa povera specie umana. Non fare ad altri quel che non vorresti che fosse fatto a te; fare ad altri quello che vorresti che fosse fatto a te.

– Già, per dare il buon esempio, – replicò Maurizio, sorridendo; – ma gli altri lo seguiranno? ecco il busilli.

– Seguano o non seguano, c’è tutta la morale umana in queste due massime. Conosco degli atei che vi conformano i loro atti assai meglio di tanti credenti.

– Pur troppo, generale, pur troppo. Ma permettete, non scendiamo alle applicazioni; stiamo nel campo dei principii. Fare o non fare, secondo quelle due massime, è facile, ed anche può essere piacevole all’uomo incivilito. Ma come potete voi credere che l’uomo primitivo, l’uomo della selva, facesse ad altri quello che avrebbe voluto che si facesse a sè? —

La domanda piaceva poco al generale; e dalla breve pausa che egli fece prima di rispondere, Maurizio potè credere che l’avversario si trovasse impacciato. Ma non era così; proprio allora il generale metteva in posizione le artiglierie.

– Io non vi parlo dell’uomo primitivo; – disse egli, non potendo trattenere un’alzata di spalle. – Che c’entra qui l’uomo della selva? Buon padrone di aver fatto come gli sarà piaciuto, o tornato più comodo. L’uomo primitivo, per vostra norma e regola, era un antropopitèco. Vi maravigliate di sentirmi parlare con tanta asseveranza di quel grazioso animale? Nel fatto, io non ne so nulla; vi parlo con la scienza alla mano. Ho letto Darwin, mio caro; ho letto Huxley, Buchner, Mortillet, Spencer, tutta la scuola dei liberatori. L’antropopitèco non si è ancora trovato negli strati del terreno terziario; ma si troverà, non dubitate. E una necessità in terra, come certi corpi in cielo, per l’equilibrio del sistema planetario. Nella scala progressiva degli esseri, l’antropopitèco ha il suo posto: animale d’istinti maravigliosi, già dotato di qualche intelligenza, come sono del resto tanti animali meno progrediti di lui, egli ha fatta la sua strada, e nessun calendario gli ha misurato il tempo necessario alla sua legittima evoluzione. Il bisogno lo ha fatto industrioso; l’industria lo ha fatto civile; la civiltà lo ha fatto morale. Vi capacita?

– Eh! – disse Maurizio, stringendosi nelle spalle, mentre in cuor suo si maravigliava forte di trovare sotto la spoglia di quell’uomo d’armi un lettore dei moderni evoluzionisti; – vuol esser dunque morale indipendente, la nostra?

– Non mi spaventano i nomi; – replicò il generale.

– Ebbene, – ripetè Maurizio, – non vi spaventino dunque le mie povere argomentazioni.

– No davvero, sentiamole. —

Qui fu una piccola interruzione nel dialogo. Dall’alto della gradinata, appariva la contessa Gisella, col suo cappellino di paglia in capo, l’ombrello da sole in mano e una borsa ad armacollo, che le dava un’aria graziosissima di pellegrina. La bella signora dagli occhi fosforescenti vide Maurizio, e scese lesta i gradini per venirlo a salutare.

– Vado per affari, – diss’ella, porgendogli la mano. – Spero di ritrovarvi ancora al ritorno.

– Oh, lo troverai; – gridò il generale. – Siamo affondati in una disputa che non finirà tanto presto.

– Di che si tratta? – chiese ella, nell’atto di aprire il suo ombrellino.

– Dell’antropopitèco; – rispose Maurizio, che in verità lo masticava male. – M’immagino che vi sarà noto, questo grazioso tipo di progenitore.

– Ah sì, – diss’ella, sorridendo, – l’unica cosa brutta nella teorica di mio marito.

– Ma necessaria; – soggiunse il generale; – necessaria come un anello nella catena. Se tu mi levi quell’anello, dov’è la continuità dell’evoluzione? dov’è la dottrina? —

Maurizio non aveva da rispondere ad una argomentazione che non pareva fatta per lui. Nondimeno, ne prese appiglio per rivolgere una frase alla contessa Gisella.

– Fortunatamente, – diss’egli, – nessuna dottrina mi farà credere che la contessa derivi da un antropopitèco. Passi per noi ominacci!

– Ed ecco, ora puoi andare, bambina; – ripigliò il generale, mezzo burbero e mezzo faceto. – Il vicino è cavaliere, e il tuo complimento l’hai avuto. Accettalo come premio anticipato all’opera buona che fai.

– Vado, vado; – rispose la bella signora, avviandosi. – E voi, conte, lasciatevi persuadere. La teorica della evoluzione richiede quell’anello. Ammasso quello, tutto il resto va da sè. —

Ciò detto, si mosse leggera, lasciando la luce del suo sguardo celestiale e la fragranza della sua maravigliosa persona nell’aria. Un istante dopo, era sparita alla svolta del sentiero campestre, per cui soleva venire ogni giorno il signor di Vaussana.

– Vedete quella donna, Maurizio; – disse il generale, continuando ad alta voce un discorso che era venuto facendo tra sè. – Ella è tutta bontà, tutta previdenza per la povera gente. Non c’è tugurio per queste montagne, dov’ella non porti una buona parola, e qualcosa di più, se bisogna. Ha sentito quest’oggi dal prete che è ammalata la moglie del pastore, lassù al Martinetto; e sùbito ha deciso di mettersi in campagna. Il prete non è andato; non andrà che chiamato, per portare tant’olio quanto ne sta sul polpastrello dell’indice, o del medio. Lei porta dell’altro; se le riesce, farà risparmiare al prete la sua trottata, alla chiesa la sua ditata d’olio. E notate, non crede alla morale dei vostri uomini neri. —

Quel «vostri» non era un po’ troppo? Maurizio si sentì toccato sul vivo.

– Che importa? – diss’egli, contenendosi ancora. – Crede alla santità del dovere, alla divinità della compassione, alla immortalità dell’anima umana.

– No, sapete, crede semplicemente alla bontà della vita; obbedisce ad una legge di natura, intendendola un po’ meglio di tanti e tanti. E notate ch’io non ho avuto da istruirla. Era così, quando divenne mia moglie. È una testa forte.

– Permettete ad una testa debole d’inchinarsi; – replicò Maurizio, facendo l’atto per l’appunto.

Ma il generale era avviato, e non voleva fermarsi così presto.

– Ecco, – diss’egli, – ora v’inalberate.

– No, generale.

– Allora, perchè vi tirate da banda, come se voleste uscire dal giuoco? Mi avevate pure promesso una argomentazione serrata!

– Vero, ma siamo stati fortunatamente interrotti; ed ora che ho perso il filo… Nondimeno, per non parervi battuto e contento, vi dirò brevemente ciò che penso. Voi considerate la morale come l’effetto di una convenzione. Ora la morale per convenzione, dato che possano giungere a stabilirne una dei figli o nipoti di antropopitèchi, sarebbe una morale senza ragione in sè stessa. Vedetene la conseguenza. Se io so che la legge morale non ha nessuna sanzione, che non c’è nessun premio a chi segue, nessun castigo a chi viola la legge, non me ne farò più nè di qua nè di là, baderò al mio interesse, e buona notte al prossimaccio mio.

– Signor Maurizio, i miei complimenti. Fate voi dunque il bene per un premio che ne sperate? vi astenete dal male per un castigo che ne temete?

– No, generale, per dovere; per un dovere che la mia coscienza intuisce. Del resto, ecco già un certo numero di volte che voi mi venite dicendo: il bene. Il vocabolo induce la cosa; la cosa induce l’idea. Perchè si dice il bene? che cosa s’intende di dire, dicendo: il bene? chi mi assicura, se non c’è sanzione alla legge del bene e del male, chi mi assicura che il bene non è il male, e il male non è il bene?

– Il bene è un concetto ereditario; – sentenziò il generale. – Si è visto e riconosciuto a poco a poco l’utile generale, e questo è stato chiamato il bene.

– Sia pure; ma quanto più leggero, sulla bilancia del nostro raziocinio, quanto più debole dell’utile particolare! Infatti, il bene degli altri, ne sia pure ereditario quanto si vuole il concetto, non è in molti casi il mio bene, è spesso il mio danno, il mio pericolo, il mio sacrifizio: e di questo sacrifizio, di questo pericolo, di questo danno io non vorrò a nessun patto saperne. —

Il generale stette un istante sopra pensiero.

– Sentite, – diss’egli poscia, – io non la intendo così: senza badare a questi danni, a questi pericoli, io ho sempre fatto il mio dovere.

– Lo credo, e lo so, – si affrettò a rispondere Maurizio. – Ma questo, con vostra buona pace, non lo avrete fatto per omaggio alla morale indipendente.

– E per che cosa, secondo voi?

– Per avanzo di vecchie idee, generale. Qui davvero il principio di eredità vi soccorre. Avete infatti la eredità di un complesso di conseguenze legittime che l’umanità ha tratte via via da parecchie religioni e da parecchi sistemi filosofici, di cui è vissuta, con cui e per cui è progredita. Ecco perchè uno spirito forte dei nostri giorni può andare avanti, più avanti di molti altri nel sentiero della filantropia, del disinteresse, del sacrificio di sè, immaginando di aver spogliata per sempre la morale della sua antica sanzione. Ma non si andrà molto lontano, io ve ne avverto, non si andrà molto lontano, con questo piccolo viatico. Anche le eredità più vistose si consumano. E la morale indipendente andrà fin che potrà senza Dio; poi, di attrito in attrito, vi sfumerà tra le mani. Temete, mio generale, temete che quando ne avranno assai meno le classi civili, non ne abbiano più affatto le rozze.

– Già, l’argomento politico! Ma non è filosofico.

– Lo so; m’è venuto alla mente, e l’ho aggiunto alla mia dimostrazione. Dopo tutto, la vostra doppia massima del non fare e del fare, è frutto della morale all’antica, non già della morale indipendente che oggi si predica. Tutte le religioni l’hanno per canone indiscusso.

– È di tutte, e perciò non appartiene in proprio a nessuna; – osservò il generale.

– Che importa? Le religioni son sante.

– Tutte? Da parte vostra è una dichiarazione ben grave, signor Maurizio. Per caso, le ammettereste voi tutte per buone?

– Storicamente, perchè no? Nella vicenda delle cose umane sono i varii modi di cercar Dio; e come io credo fermamente che il progresso umano sia a questa condizione di cercar Dio nella vita, così credo che Dio si sia in tutte riconosciuto. —

Il generale diede in uno scoppio così fragoroso di risa da far rizzare la testa al capitano Dutolet, che involontariamente cominciava ad appisolarsi sul canapeino di ferro.

– Che larghezza di comprensione! Lasciatevi ammirare, caro mio. Vi avverto per altro che l’arciprete di San Giorgio non vi assolverebbe.

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