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Tra cielo e terra: Romanzo
Alle quali ragioni dottissime aveva risposto un collega della scuola idealista, che nella rappresentazione dei tipi consacrati dalla tradizione dell’arte bisogna dare la parte sua all’uso costante, all’opinione ricevuta, al sentimento universale; che soprattutto non è da far vedere un Dio morente nella medesima condizione statica di un giovane facchino appiccato per due ore al giorno come modello nello studio di uno scultore. Il vero, sì, ma non tutto il vero; altrimenti, perchè non si crocifiggerebbe un uomo al giorno, per esporne con utilità di sensazioni estetiche la ineffabile angoscia alle turbe? Quello è infatti il vero, veramente vero. Ma ancora, in quel caso, si vedrebbe che non tutti gli organismi umani si diportano ad un modo, nell’atteggiamento della persona, nell’abbandono delle membra, nell’espressione dell’agonia. Così nella parrocchiale di San Giorgio le due scuole si erano bisticciate un tantino, ma persuadendosi ancora a vicenda che si può esser bravi artisti e farsi onore con ogni scuola; e avevano poi fatta all’insegna dei tre Re una pace temporanea, come la faranno un giorno definitiva, alla consumazione dei secoli.
I piedi del crocifisso sparivano quella mattina sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, legato al tronco della croce. Belle rose di ogni forma e d’ogni grandezza, chiuse ancora od aperte, d’ogni profumo, d’ogni temperanza del rosso e dell’incarnato, del pavonazzo e del cremisi, del salmonato e del giallo; davano tutte insieme a quell’augusto morente l’aspetto di un trionfatore.
– Sei stata tu, non è vero? – bisbigliò Maurizio all’orecchio di sua sorella, indicandole quel gran mazzo di rose.
– Sì, – rispose ella, arrossendo lievemente. – Sono di quelle che ha piantate nostra madre. Il Castèu è sempre il primo ad averne; ed è stata veramente una fortuna che ce ne fossero tante, per festeggiare il tuo arrivo a casa. —
Maurizio si sentì scorrere una lagrima giù per le guance. Anch’egli, come la sua buona sorella Albertina, vide nel presente il ricordo del passato, e v’associò la promessa del futuro. Non voleva più andarsene da San Giorgio; dalla terra alpina dove dormivano i suoi maggiori; dal solitario Castèu, dove prima che altrove fiorivano così bene le rose.
Finita la messa, uscirono sulla piazza, per ritornare a casa; lentamente, per non aver aria di fuggire, ed anche allungando un tantino la strada, per abbondanza domenicale. Così videro sfilare in parata tutto quanto il paese; e da ogni parte erano inchini, sberrettate, scappellate, a cui bisognava rispondere. Maurizio notò sottovoce a sua sorella di non essersi provveduto abbastanza, alla Spezia, portando solamente due cappelli con sè.
– Aspetta la prima fiera; – gli rispose Albertina. – Ci saranno cappelli d’ogni qualità: ed anche verrà la paglia di Nizza, che solevi ricordare nelle tue lettere.
– Infatti, è strano; – esclamò Maurizio. – Non se ne trova più. E neanche paglia di Firenze, che la somiglia tanto. La moda, la moda! è una gran sciocchezza, la moda. —
Ma sua sorella non la intendeva così, quantunque alla moda sacrificasse ben poco.
– Bada di non far la ruggine, Maurizio; e soprattutto non ti far vecchio prima del tempo. —
Rideva, la buona zittella; e ridendo, diventava più giovane. Rispondeva più ilare, più serena, più franca ai saluti che venivano d’ogni parte. A San Giorgio sicuramente, da dieci anni almeno, non l’avevano più veduta così.
– Vedrete che torna bella; – dicevano alcuni.
– Lo era tanto a vent’anni! – rispondevano altri. – Ce n’è rimasto qualche poco, per far festa al signor Maurizio.
– Quello, poi, li ha sempre, vent’anni. E dovrebb’essere sui trentacinque.
– No, non può averne che trentadue. Ricordate? è nato lo stesso giorno del figlio di Misa Margoton. —
Misa Margoton, che serviva d’indice cronologico ai terrazzani di San Giorgio, era una nizzarda, andata giovanissima lassù, a fare la ciambellaia. Erano famose per tutta la Vaussana la ciambelle di Misa Margoton, e facevano furori a tutte le fiere, a tutte le sagre dei dintorni.
Alla svolta di una strada, la coppia fraterna s’incontrò ad angolo con tre persone, di aspetto assai signorile, una donna e due uomini: uno di statura giusta, piuttosto atticciato, con due gran baffi biondi largamente brizzolati di bianco, di bell’aspetto, gli occhi cerulei, e una faccia di color sanguigno che forse aiutava a levargli otto o dieci dei sessant’anni che gli davano a prima giunta i suoi baffi; l’altro d’aspetto grigio, alto e magro, con due gambe di ragno, figura pulita di cavaliere malinconico; la donna giovane, elegantissima nella semplicità del vestimento, biondi i capelli e rosea la guancia, come la regina Isotta dei canti medievali.
Erano facce nuove per Maurizio, che pur dovette salutare, imitando la sorella, in risposta al primo saluto del signore dai baffi biancheggianti. Il quale, rinnovando il saluto, o piuttosto appoggiandolo con un cenno del capo, si voltava ancora un tratto a guardare, e sicuramente per veder meglio lui, che gli giungeva nuovo egualmente.
– Villeggianti precoci! – disse Maurizio alla sorella. – Ma già, niente maraviglia, se ci son già le rose al Castèu.
– Non villeggianti; vivono tutto l’anno a San Giorgio. Non conosci più i proprietarii della Balma? – rispose Albertina, sospirando.
– Povera Balma! – ripigliò il giovane, che aveva colto a volo il sospiro. – Ma non è dunque più dei Matignon della Bourdigue?
– Lo è sempre. E quel signore dei baffi bianchi è il generale, il cadetto della famiglia.
– Come? come? il capitano, quello? così smilzo allora, e così biondo, che lo chiamavano l’Arcangelo Gabriele?
– Lo hai lasciato capitano, biondo, smilzo, ed ora è complesso, bianco e generale; – rispose Albertina, ridendo. – Pensa, caro mio, che son passati venti anni.
– È vero; – conchiuse Maurizio, chinando la testa. – Il capitano della Bourdigue, nizzardo, che aveva optato nel ’61 per la Francia. E come è passato ora a vivere di qua dal confine?
– Il fratello maggiore è morto cinque anni fa. Rimasto unico dei Matignon, ha preso il suo ritiro, ed è venuto a vivere alla Balma.
– E quella signora è sua figlia?
– No, sua moglie.
– Come? ma se ha l’aria di una ragazza! O figlia, o nipote, avrei detto.
– Ed è sua nipote, infatti.
– Ah, ora ci sono; – gridò Maurizio. – La figlia del signor Camillo… il miscredente. —
Il volto della contessa Albertina si rabbruscò, a quella scappata del fratello Maurizio.
– Perchè miscredente? – diss’ella con accento di mite rimprovero.
– Lo dicevano, allora, ed io ripeto quel che ho sentito. —
Avrebbe voluto soggiungere: lo diceva perfino nostro padre. Ma capì di aver abbastanza amareggiato l’animo della sua dolce sorella, senza bisogno di metterlo ancora in angustia colla testimonianza del babbo.
– Sarà stato uno scherzo; – diss’ella ripigliando. – Del resto, tu sai che il mondo s’inganna facilmente a certe apparenze, per discorsi male intesi e peggio riferiti. Comunque sia, il meglio che si possa fare…
– È di non credere alla miscredenza; – interruppe Maurizio, compiendo a suo modo la frase impacciata di sua sorella Albertina. – Hai ragione, sai? nel caso particolare e nel caso generale, hai ragione. È bene di non ripetere certe cose, neanche a sè stesso. Ed ecco, – soggiunse egli, – che cosa vuol dire andar via da casa, per ritornarci dopo vent’anni, con tanto viatico d’esperienza. Io ho lasciata qua la mia buona filosofia, che mi sarebbe stata tanto utile laggiù. Per fortuna, la ritrovo ora, messa ad interessi composti, sotto il tetto paterno.
– Eh via, non ti far così brutto, ora; – disse di rimando Albertina. – Ti ho veduto poc’anzi in chiesa, e non mi sei parso niente diverso da quello di venti anni fa. Eri serio, composto… e divoto.
– Ma sì, come bisogna essere in chiesa. O non ci si va, o ci si sta come si deve. Dopo tutto, non è la casa del nostro superiore? del grande ammiraglio, di quello, io voglio dire, che non commette ingiustizie? —
Capitolo III.
Cortesie di buon vicinato
Passarono tre giorni, che Maurizio occupò degnamente in cento piccole cure. Prima di tutto aveva da riconoscer la casa, dopo tanti anni d’assenza, da vedere tutte le novità che c’erano state fatte in quel lungo intervallo, il parco, il giardino, l’orto, il frutteto, la fagianaia, il pollaio, insomma tutto ciò che sua sorella Albertina aveva ordinato, o condotto a termine, o perfezionato, affinchè il Castèu, com’ella diceva, bastasse a sè stesso.
– Egregiamente; – notava Maurizio, approvando. – Credo che si potrebbe sostenere anche un anno d’assedio.
– Capisco che tu ci avresti tempo di annoiarti; – rispondeva Albertina.
– No, sai; tu coi tuoi polli e coi tuoi fagiani; io coi miei libri, le mie carte, i miei strumenti; si passerà il tempo benissimo, e il peggiore dei nemici non avrà modo di penetrare qua dentro. —
Maurizio aveva ricevuti da Ventimiglia i suoi bauli e le sue casse. Tutto era già stato aperto, schiodato, sciorinato; libri, carte geografiche, idrografiche, bussole, cannocchiali, seste, sestanti, cronometri, tutto il bagaglio scientifico dell’ufficiale di marina. Il legnaiuolo della casa era stato chiamato, e sotto la direzione di Maurizio lavorava ad aggiustare, ed aggiungere scaffali, a piantar chiodi e bullette, ad appender quadri, stampe, fotografie, armi, stoffe, amuleti, stoviglie, tutto il museo dell’ufficiale di marina che era stato anche un viaggiatore intelligente e curioso. Era quello un lavoro faticoso, ma gaio; e lo rendeva più gaio il pensiero della quiete futura, in cui Maurizio avrebbe potuto finalmente metter mano alla sua Storia delle Guerre marittime. Quella, davvero, non gli usciva di mente.
La mattina del quarto giorno, mentre era in maniche di camicia su d’una scala di legno appoggiata alla parete, gli fu portata da Giaume una lettera.
– Già la posta a dar noia! – esclamò egli, seccato.
Non era della posta; era una lettera del paese.
– Mettila là, su quella tavola. Chi l’ha portata?
– Il fattore della Balma.
– Ah! – disse Maurizio; e più non disse.
Com’ebbe finita l’operazione per cui si era inerpicato lassù, scese tranquillamente e andò a prender la lettera, che portava scritto sulla busta: «Al signor conte Maurizio Sospello di Vaussana; Sue mani», e sul rovescio un gran suggello di ceralacca, con lo stemma dei Matignon della Bourdigue. Maurizio prese con molta flemma una spatola d’avorio, ne introdusse delicatamente la punta sotto la piega della busta, ne tagliò tutto il lato superiore, trasse il foglio che c’era dentro ripiegato in due, lo spiegò lentamente e lesse ciò che gli scriveva il castellano della Balma:
“Signor Maurizio,
«Quando un ufficiale va in un paese e sa che c’è un altro ufficiale a lui superiore di grado, va a fargli una visita, non vi pare? Sarebbe prescritta l’uniforme; ma io non la esigo; anzi ve ne dispenso. Non vi dispenso però dalla visita. Andrei contro la legge, venendo io stesso da voi, se nella mia condizione di ospite non avessi qui cura d’anime. Vi ho conosciuto bambino, e credo anche di avervi in quei tempi consegnato qualche amorevole scappellotto. Non vi dispiacerà il ricordo, poichè desidero di mutarlo in una buona stretta di mano.
«Conoscete la via della Balma. Dieci minuti di salita, per gambe come le vostre, e al piè delle scale un vecchio amico a braccia aperte.
“Bourdigue.„Maurizio lesse e sorrise; ripiegò il foglio, dopo avergli data ancora una rapida scorsa, lo rimise nella sua busta, e depose questa sulla tavola; dopo di che ritornò al suo lavoro. Alle dodici il legnaiuolo si congedò, per andarsene a desinare.
– Ripasserò alle due, signor conte; – diss’egli.
– No, per oggi basterà; – rispose Maurizio. – Ho da far altro; ritornerete domattina, all’ora solita. —
E anch’egli discese, dopo essersi messo in ordine, per andare ad asciolvere. Dopo il pasto mattutino, andò nelle sue stanze a mutar abiti.
– Vai fuori? – gli chiese Albertina, vedendolo così vestito di tutto punto.
– Sì, alla Balma. Vedi che cosa mi scrive il tuo generale. —
Così dicendo, porgeva ad Albertina la lettera che aveva ricevuta nella mattinata.
– È cortese; – osservò ella, dopo aver letto. – E gli sei proprio debitore di una visita. Io, anzi, te lo volevo dire fin da ier l’altro.
– Andiamo dunque, e perdiamo questa mezza giornata; – conchiuse egli sospirando.
E uscito dal Castèu, si avviò alla Balma; non dalla parte del paese, ma dalla parte della montagna, per la scorciatoia del bosco e della cascata, che ben ricordava, per averla fatta da ragazzo, almeno un centinaio di volte.
Rivedere i luoghi dove si è passata la prima adolescenza, dove non è per noi un ricordo che non sia lieto, è certamente bellissima tra tutte le cose belle della vita. Maurizio s’immerse in quella gioia così profonda, e nondimeno un pochettino chiassosa, che invade tutto il nostro essere, e trova ancor modo di espandersi in esclamazioni, in grida, in rotte parole, che vorrebbero diventar inni, ondate di poesia, e non riescono ad essere che sussulti, gorgogli, balbettamenti dell’anima. Si fermava un po’ da per tutto, vedendo e ricordando; ma più si trattenne davanti all’Aiga, alla bella cascata, con tutte quelle felci e quei muschi onde erano tappezzate le pareti dello scoglio, con quella rupe che sopraggiudicava l’abisso, con quel lastrone orizzontale, vero labro di granito, donde si precipitava il cristallino volume delle acque nella conca sottoposta, sprizzando in polvere liquida, estuando in candide spume, rompendosi in rivoli che tornavano a ricongiungersi più sotto in un solo zampillo. Maurizio non si sarebbe più spiccato di là, se non avesse pensato in buon punto che aveva da fare una visita d’obbligo, che per quella visita aveva congedato il legnaiuolo, interrompendo il suo piacevole lavoro, che per quella visita si era vestito di tutto punto e mosso di casa.
– Ci tornerò; – diss’egli ad alta voce, come per fare le scuse della sua fretta alla divinità del luogo.
Gli antichi avevano ben ragione a mettere delle dee per protettrici delle fonti. Non c’è cosa più poetica di una bell’acqua corrente nella solitudine di un bosco, nè altra che più meriti il sorriso di una divinità tutelare.
Maurizio si avviò finalmente; e non in dieci minuti, per verità, ma in trenta o quaranta giunse sotto al muro di cinta del castello della Balma. C’era un muro, e ci stava benissimo; tutti i castelli che si rispettano ne hanno uno, spesso più d’uno. Ma l’uscio per entrare? o la breccia? Maurizio rammentava benissimo che la breccia non mancava; non fatta da nemici, ma da contadini poco disposti a passare per la strada maestra. Quella breccia, ridotta a passo campestre, si ritrovava più su, dietro una svolta del muro.
– Per di qua; – gli disse dall’alto una voce. – Se andate alla Balma, c’è qui il sentiero.
– Lo so, grazie; – rispose Maurizio. – Conosco i luoghi da un pezzo. —
E salutava, così dicendo, il brav’uomo che gli dava l’avviso. Era un pastore, che se ne stava seduto su d’un masso, pascolando due mucche e una dozzina di pecore.
Trovato facilmente il passo, ed entrato nel recinto della Balma, il visitatore fu ben presto ad una piccola spianata, davanti a cui sorgeva la gradinata che metteva al portone d’ingresso. Non c’era nessuno alla vista, ma si sentivano voci di dentro; anzi, per dire più esattamente, si sentiva una voce sola, che faceva per quattro, rumorosa, allegra, voce di comando frammezzata di risa.
Nessuno era nel vestibolo. Maurizio entrò, col suo cappello in mano; da un uscio aperto, sulla sua destra, vide una sala da biliardo, e due uomini che stavano giuocando, l’uno occupato in una serie di caramboli, l’altro in atto di guardare il giuoco dell’avversario, e in pari tempo di ingessare il cuoio della propria stecca. La serie fu breve, per effetto di troppa sicurezza, o di fretta soverchia nel dare il colpo, e il giuocatore sfortunato era già per attaccare un moccolo, quando un gesto del compagno, che stava dirimpetto all’uscio, lo costrinse a voltar gli occhi verso il nuovo personaggio che appariva allora nel vano.
– Ah, bene! – esclamò egli, deponendo la stecca sul panno verde e muovendo incontro al visitatore. – Siate il benvenuto, signor Maurizio. Qua la mano; anzi, no, un abbraccio, tanto per cominciare. Ma come va? – soggiunse, volgendosi al compagno. – Il vostro servizio d’avamposti procede assai male, mio caro Dutolet.
– Non so veramente come sia andata; – rispose quell’altro, con accento dimesso.
Maurizio era rimasto un pochino interdetto, non sapendo che cosa significasse quell’accenno di avamposti, che interrompeva in mal punto la cortesia delle accoglienze.
– Figuratevi; – ripigliò il generale, rivolgendosi a lui, come se avesse letto in quel punto nell’animo del visitatore. – Avevamo messo un uomo in sentinella a metà della salita, per essere avvertiti del vostro arrivo. Vi avevo annunziato che mi avreste ritrovato in fondo alla scala, e voi siete arrivato fin qua, signor conte, senza trovarmi al posto assegnato. E sono disonorato, Dutolet; – disse il generale, volgendosi ancora al compagno. – Manderemo agli arresti la sentinella infedele; daremo un esempio, non vi pare?
– Intercedo per la sentinella, generale; – disse a sua volta Maurizio, mettendosi volentieri sul tono di celia che aveva assunto il signore della Bourdigue. – Voi l’avete fatta mettere al posto buono per invigilare la strada maestra; e certamente sarà ancora laggiù ad aspettare che io mi presenti al cancello. Ma io non son venuto di laggiù; son capitato dalla scorciatoia del bosco.
– Ottimamente, da astuto nemico che conosce il terreno, – replicò il generale, ridendo. – Ma questo mi fa pensare che la Balma non è così forte come sembra. La posizione è stata girata, Dutolet; come laggiù… ti rammenti, mio bravo? E quanti valorosi ci sono caduti, incominciando da te!.. —
Un’ombra era passata sugli occhi del generale, contrastando maledettamente con l’aperto sorriso di prima. In un attimo, per altro, e la figura marziale del vecchio riprese il suo aspetto di franca cordialità.
Il generale Matignon della Bourdigue doveva essere stato un gran bel giovane a’ suoi tempi: era ancora un bell’uomo, e decorativo in sommo grado. A cavallo, certamente, con quelle spalle quadre, quell’ampio torace, quei baffi bianchi biondeggianti e quegli occhi azzurreggianti sul vermiglio della carnagione, doveva parere uno di quei paladini di Carlomagno, che potevano essere oppressi dal numero a Roncisvalle, ma dopo aver fatto prodigi di valore e di forza, accoppando mille Saracini, prima di ricevere essi medesimi una graffiatura al braccio, o una ammaccatura al ginocchio.
L’accenno militare condusse naturalmente il generale alla presentazione del suo ospite. Il capitano Dutolet, sottotenente nella campagna del 1870, era stato ferito gravemente a Reichshoffen, e sarebbe morto sul campo, se non si fosse dato pensiero di lui, facendolo raccogliere in tempo e mandare all’ambulanza, il suo capo di squadrone Matignon de la Bourdigue. Quel magro cavaliere dal volto grigio, dalle gambe di ragno e dall’aria sempre malinconica, era una salda tempra di acciaio; ancora a servizio, veniva a spendere le sue licenze ordinarie e straordinarie presso l’antico superiore, che da cinque anni aveva lasciato l’esercito, per passar tra gl’invalidi assai prima del tempo. Anche il generale de la Bourdigue aveva avuto a dolersi di una ingiustizia? La cosa era possibile; tanto gli uomini si rassomigliano, sotto tutte le longitudini della zona temperata e sotto tutti i governi civili.
Quel generale, che avrebbe fatto ancora una così bella figura a cavallo, possedeva un magnifico stato di servizio. Nizzardo di nascita, aveva raggiunto il grado di capitano nell’esercito, piemontese, combattendo in Crimea e quindi in Lombardia nella campagna del ’59. Dopo la cessione di Nizza alla Francia, era stato tra quelli che avevano optato per la nazionalità francese, e nel ’70 era giunto al grado di capo squadrone, dopo aver fatto parte del corpo di spedizione al Messico e aver combattuto valorosamente sotto le mura di Puebla. Colonnello dopo Sedan, generale di brigata nell’esercito della Loira, non aveva più fatto altri passi in avanti. A chi era dispiaciuto? Che demeriti avevano ritrovato in lui? Il generale Bourdigue non istette a domandarlo: una dolorosa occasione gli si offerse di lasciare il servizio, ed egli colse quella occasione pel ciuffo.
Camillo, il suo fratello maggiore, rimasto italiano alla cura degl’interessi domestici, che erano tutti di qua dalla linea della Roia, era venuto improvvisamente a morire, lasciando orfana l’unica figliuola Gisella. Il generale, venuto a surrogare il fratello, aveva prese le redini della amministrazione domestica; e il tutore, un anno dopo, diventava marito. Come era avvenuto ciò? Si diceva a Nizza, a Villafranca, a Mentone, dovunque i Matignon erano conosciuti, e si ripeteva da Ventimiglia a San Giorgio, dove avevano le loro possessioni, che la fanciulla medesima avesse voluto quelle nozze.
I valorosi, hanno sempre questa sorte di fascino sulla donna. Pare alla bellezza di appoggiarsi meglio, quando il braccio che la sostiene è quello di un eroe. Inoltre, la donna conosce il suo proprio valore, la sua qualità di gioiello; sente di essere buon premio alla forza, morale o fisica ch’ella sia, o l’una cosa e l’altra ad un tempo.
La contessa Gisella, a cui Maurizio di Vaussana fu presentato quel giorno, era una bellissima creatura di ventuno in ventidue anni, bionda e rosea come abbiamo già avuto occasione di dire. Ma quando si dice bionda e rosea, non si è detto ancor nulla: bionda e rosea può essere anche una pupattola; bionda e rosea su per giù era anche la cugina splendidissima e formosissima di Maurizio. La castellana della Balma non offriva tuttavia nessuna somiglianza con una pupattola; non aveva nessun’aria di parentela con la cugina di Maurizio.
In primo luogo era più alta, e più flessuosa nella persona; donde una formosità d’altro genere. Poi la carnagione era più fine, d’impasto più gentile, più tenero, con un certo riflesso dorato sul roseo, che non aveva quell’altra. Il biondo dei suoi capelli era più luminoso, più morbido, più ondato; e quei capelli formavano un volume così abbondante, da potersi paragonare a quelli di Genovieffa di Brabante, capaci a far da accappatoio a tutta la persona, quando la bella principessa della leggenda ebbe logorati i suoi abiti nella foresta di Trèveri. Non si poteva poi pensare alla cugina, vedendo gli occhi della contessa Gisella; grandi occhi profondi, neri d’un nero d’indaco, ma che mettevano bagliori d’oro ad ogni batter di ciglia.
– Mia moglie è fosforescente; – diceva qualche volta il generale.
La contessa Gisella sorrideva, e senza ombra di civetteria, volentieri secondando un complimento maritale, con un nuovo sprigionamento di faville. Era una bambina, niente vana della propria bellezza, ignorandola forse, certamente non dandosene pensiero e non sapendo che farsene. Qualche volta, con versi infantili, storcimenti di bocca, guardate di sbieco, pareva che lavorasse a farsi brutta; ma senza venirne a capo. Tutto ciò ch’ella faceva era improntato di sincerità, d’ingenuità, di franchezza e di grazia. Vi passava davanti come una bella farfalla che aleggia capricciosa nella pompa de’ suoi vivi colori, e non sa di essere la vita del giardino, la festa degli occhi, la maraviglia del quadro.
Vedendo lei da vicino, discorrendo con lei, Maurizio non potè trattenersi dal pensare a sua cugina e al dolorino acuto che gli aveva lasciato nell’anima quella splendidissima e formosissima bionda.
– Ecco – diceva egli tra sè, – una donna bella vi colpisce, v’infiamma, vi fa soffrire come un dannato. Poi se ne presenta un’altra più bella, magari nel suo stesso genere, il che è veramente il colmo dell’audacia; e lì per lì, senza cancellarvi l’immagine della prima, senza distruggervi in cuore la memoria degli antichi tormenti, ve ne rende innocua la sensazione, sterile e vano il pensiero. Come ho potuto soffrir tanto per quella là? Quella là, certamente; è il modo d’indicar la figura che è passata, non lasciando più desiderio di sè. Anche le donne, alla lor volta, sentono e ragionano così; anch’esse hanno «quello là» da giudicare in forma sommaria, mandandolo a farsi benedire. E il meglio, dopo tanta esperienza, il meglio sarebbe di esser tutti filosofi, uomini e donne, di cansare gli innamoramenti fatali, di prendere un po’ più alla leggera le cose del cuore, fragili e fugaci alla fin fine come tutte le altre. —
Ma queste cose si possono pensare, non fare. Sono le occasioni, quelle che vengono addosso, quando meno ci si pensa; sono le circostanze, quelle che imprigionano, quando meno si crede di restarci impigliati. La donna che si ama di più, che più dovrà farci soffrire, non è sempre la più bella, contro cui c’era modo di mettersi in guardia a tempo opportuno. Un amico di Maurizio aveva fuggito i lacci di due meravigliose creature: poi si era ucciso per una piccola strega dei mari del settentrione, secca stecchita a quel modo, che quando l’aveva veduta la prima volta gli era parsa un’aringa affumicata.