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La famiglia Bonifazio; racconto
La famiglia Bonifazio; racconto

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La famiglia Bonifazio; racconto

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Percorrendo le Mercerie si trovò fra gente affatto diversa, che camminava in fretta, colla testa bassa, verso un altro spettacolo.

Sotto l'arco dell'orologio si stentava a passare, tutti andavano verso la piazzetta dove sorgeva la berlina, un palco alto, con una colonna tronca nel centro intorno alla quale girava una panca. Una folla immensa si stipava al sole in mezzo ai magnifici edifizi, davanti lo specchio della laguna. Tutta la guarnigione austriaca era sotto le armi, non si vedevano che teste e baionette.

Comparvero fra gli sbirri, alcuni Italiani ammanettati, salirono sul palco, e rivolti verso il palazzo dei Dogi si udirono condannare a morte, e al carcere duro per aver osato sognare l'indipendenza della patria dallo straniero; e questa sentenza veniva letta da un curiale austriaco da quel palazzo, in quella piazza eretti da un popolo libero, ove tutto attestava quattordici secoli di indipendenza, contro un dominio usurpato da circa nove anni senza l'assenso dei veri padroni.

Il terrore dominava quella folla, che assisteva in silenzio all'orribile spettacolo. Alle parole «condannati a morte» un fremito di sorpresa, di pietà, di sdegno sorse dalla folla, ma subito dopo ritornò il silenzio della paura.

Mosè non potendo trovare il padrone in quella calca ritornò all'albergo, e quando vide il capitano gli andò incontro con aria misteriosa e gli domandò:

– Ha veduto sulla berlina quel signore magrolino cogli occhiali che è venuto a farle visita una sera d'autunno, or son quasi due anni?!

– Non dirlo nemmeno all'aria, se un giorno non vuoi vedermi al suo posto. Tutti quei condannati sono veri galantuomini, vittime d'una imprudenza. Volevano fare il bene, ma non sapevano farlo colla finezza indispensabile nella lotta del diritto inerme contro la forza armata.

Mosè restò sbalordito, e pensava agli ordini ricevuti dal padrone poco dopo la visita di quel signore: il cancello del parco sempre chiuso, il cancello del brolo sempre aperto! e cominciava a capire qualche cosa, ma il capitano poteva essere sicuro che il segreto delicato starebbe sepolto per sempre in fondo al cuore dell'onesto e fedele domestico.

Abortite le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte e terminato l'infame processo dei Carbonari colle barbare condanne, il paese, seminato di spie, scoraggiato per le prove fallite, parve immerso in un silenzio di morte. I vecchi patriotti rimasero prostrati, scoraggiati di tentare nuove imprese; i giovani si gettarono negli stravizi, nella vita molle effeminata, che il governo straniero incoraggiava in molte maniere per facilitarsi il dominio d'uomini fiacchi e di anime corrotte.

Quella fu l'epoca fortunata dei teatri, delle ballerine e delle mime, dei veglioni mascherati, dei carnevali rumorosi, degli intrighi galanti, della vita allegra e spensierata.

Duravano tuttavia le proteste contro il dominio straniero, ma si limitavano a maledire o beffare il governo, eludere le leggi, burlarsi della dabbenaggine di qualche Tedesco, degli spropositi italiani dei Croati, a canzonare la ingenua semplicità d'un soldato, a guardare in aria sprezzante gli ufficiali dell'esercito austriaco.

Poi sorsero nuove sétte, ma coi capi cospiratori viventi all'estero, pieni d'illusioni sulle condizioni locali del paese, con forze immaginarie, e con tentativi arrischiati che esponevano le vite dei cittadini, moltiplicando le piccole sollevazioni impotenti, e producendo nuove vittime.

Che cosa potevano fare i prodi soldati degli eserciti napoleonici lasciati in disparte? i patriotti intelligenti rimasti senza patria? Crearsi una famiglia, educarla coi sani principii della giustizia, vivere ritirati, apparecchiare i figli per l'avvenire, attendere e sperare.

E così fece il capitano Bonifazio.

Andò in Brianza a sposare la sua Maddalena. Le nozze ebbero luogo in primavera del 1822, con semplicità patriarcale, senza feste, senza chiassi, e senza sonetti, come conveniva in tempi tristi, dopo dolorosi avvenimenti.

La sposa che aveva sempre vissuto in campagna si trovò benissimo nella sua nuova dimora nei dintorni di Treviso. La casa era più grande, il possesso più esteso e più ricco; l'aspetto della pianura era meno pittoresco delle colline di Brianza, ma l'orizzonte più ampio ed aperto, la campagna bagnata da acque correnti, e l'aria pura ed elastica che viene dalle Alpi e passa per l'immenso letto del Piave apporta la salute, esilara lo spirito, ed eccita l'appetito.

Il capitano riprese i suoi lavori agricoli e di giardinaggio, la Maddalena assistita da Mosè e da una fantesca, ordinò la casa; e così ebbe origine la nuova famiglia Bonifazio, della quale abbiamo raccolto la semplice istoria in queste povere pagine.

IV

Talvolta i filosofi hanno il torto di ritenere troppo assolute le loro teorie, se si contentassero di limitarle al circolo ristretto della loro visualità, avrebbero perfettamente ragione.

Per esempio: se il maestro Zecchini avesse proclamato, che l'uomo è un asino, senza uscire dalla sua scuola, nessuna autorità competente avrebbe trovato un argomento valido per confutarlo: e forse nemmeno lo stesso maestro avrebbe presentata un'eccezione.

E infatti, studiando sè stesso, egli aveva sovente l'occasione di confermarsi nel suo principio.

Appena ritornato dalla Brianza, il capitano Bonifazio invitò a pranzo il maestro Zecchini per presentarlo alla sposa, come amico e vicino di casa. Il maestro rimase colpito dalla bellezza lombarda della signora Maddalena, e per esprimere la sua ammirazione in modo che gli pareva molto appropriato, cominciò a raccontare a tutti i suoi amici e conoscenti che la sposa del capitano aveva due occhi da carbonara. E questa fu vera imprudenza, in un tempo, nel quale gli stessi mercanti di carbone non avrebbero osato chiamarsi col loro nome.

Guai se il capitano lo avesse udito! ma il maestro contemplando quegli occhi bruciava in silenzio, nascondeva le brace sotto la cenere, e pensando al carattere vivace dell'amico celibe, aveva doppia paura dell'amico ammogliato quantunque costui avesse dei pensieri molto più gravi di quello di sospettare del maestro Zecchini.

Malgrado tutte le precauzioni passibili, il primo tempo di quel matrimonio non poteva essere tranquillo e sereno, come sogliono essere tutte le lune di miele. A certe suonate di campanello il capitano lasciava trasparire un'involontaria apprensione, come al tempo degli arresti, a certi rumori notturni egli si alzava dal letto e andava a spiare attraverso le gelosie. La giovane sposa indovinava la causa di quelle inquietudini, e ne divideva le ansietà.

Tale condizione di cose rendeva il capitano più bisbetico del solito, e avendo ripreso le partite serali delle carte, ad ogni errore commesso il maestro andava soggetto a dei rabuffi che lo intimidivano; la buona signora si studiava di consolarlo dei modi bruschi del marito con indulgenti sorrisi, e sguardi incoraggianti, e l'asino bruciava.

Dopo qualche tempo la partita di terziglio fu abbandonata pel tresette. Il maestro pregato dal capitano aveva trovato un quarto giuocatore; certo Giacomo Pigna, fittaiuolo del paese, un po' rozzo, ma galantuomo, laborioso ed allegro, e gran bevitore. Egli capitava ogni sera fedelmente, anche attraverso la neve e le bufere, per fare la solita partita. Gettava il suo tabarro e il cappellaccio a cencio sopra una seggiola dell'anticamera, ed entrava intrepidamente nel salotto coi capelli sulla fronte, l'occhio brillante, il naso violetto, i zigomi accesi, un buon sorriso sulla bocca, il ventre proeminente, e gli stivali sopra i calzoni. Il capitano gli dava la mano, che egli non osava stringere che debolmente, per riguardosa modestia.

Prima di giuocare una carta si bagnava il pollice in bocca, e alla fine d'ogni partita tirava fuori la scatola di tabacco colla Madonna sul coperchio, ne offriva agli uomini, diceva le sue barzellette alla signora, e tirava su pel naso la sua presa, con una profonda aspirazione.

Il parco diventava sempre più rigoglioso, abbellito di nuove piantagioni di alberi e di arbusti ornamentali, le macchie si arricchivano di fiori elegantissimi, l'orto aveva degli erbaggi stupendi, e il cortile sorvegliato dalla padrona di casa era popolato di numerosi pollami, d'anitre, tacchini e colombi.

Un anno dopo le nozze un fortunato avvenimento allietò la famiglia, i parenti e gli amici, la nascita d'un figlio maschio, al quale venne imposto il nome di Gervasio. Due anni dopo ne nacque un altro, che fu chiamato Stefano; e così la famiglia cresceva, e viveva abbastanza felice, una vita tranquilla e regolare, come un paese senza storia.

I bambini vennero allevati all'aria aperta, con una semplice vesticciuola, un cappello di paglia, e gli zoccoletti di legno: giuocavano tutto il giorno sotto i boschetti e sull'erba, e correvano incontro alla madre, colla bocca aperta, come i pulcini.

Ebbero i primi insegnamenti dal maestro Zecchini sempre innamorato platonicamente della loro mamma, ed essa educava i loro cuori all'amore di Dio, dei genitori e del prossimo, con elevati sentimenti. Il babbo li voleva robusti e patriotti e li indirizzava per questa via. Divenuti grandicelli frequentarono le scuole di Treviso, modificate dall'insegnamento domestico. Il governo austriaco per assicurarsi dei soggetti rispettosi faceva leggere e imparare a memoria nelle scuole il libriccino intitolato I doveri dei sudditi.

Il capitano faceva osservare ai suoi figli che la stessa natura ci ispira l'amore della patria, che la patria non può essere felice senza la libertà e la giustizia, e se non era giusto che un cittadino comandasse in casa altrui, così non poteva esser giusto che un popolo s'imponesse ad un'altra nazione. Ristabilita la vera base del diritto, dimostrava che quei pretesi doveri dei sudditinon erano altro che gli obblighi degli schiavi, ed indicava la prudenza necessaria per condursi alla scuola, eccitandoli a farsi uomini per vendicare la patria.

E invece di limitare le loro conoscenze alle nozioni di storia imposte dal programma austriaco, spiegava ai suoi figli la storia universale, ove l'Austria faceva una figura secondaria e insignificante, e talvolta odiosa; poi li voleva istrutti minutamente sulla storia d'Italia, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, perchè imparassero a conoscere i grandi avvenimenti, i fatti gloriosi che onorano il nome della patria davanti al mondo, rilevando in pari tempo tutti gli errori, tutti i torti, i vizii, i delitti che conducono i popoli alla schiavitù. E si fermava con somma compiacenza a certi nomi, e spiegava le azioni generose che li avevano resi immortali.

Li addestrava a tutti gli esercizii del corpo, alla scherma, al tiro a segno, alla ginnastica.

– Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e tutte le vostre forze, – egli diceva loro; – impiegatele sempre a favore della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i malvagi, – e rivolto a sua moglie soggiungeva: – Questa è la migliore congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero.

E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell'educazione dei figli, i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle d'oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano illesi in mezzo alla mischia.

Gervasio, secondando il gusto dominante del padre si era dato con passione all'agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni solenni, come modesti monumenti della vita domestica.

Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli parevano degne d'essere rilette.

Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere scherzose che non potevano offenderlo.

– Aspettate, e mi darete ragione col tempo, – egli diceva; – siete giovani senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle tutte le bestie sono eguali.

Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano.

Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare cogli amici il lepre o la selvaggina. In quelle occasioni il vecchio Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l'occasione era favorevole all'applicazione della sua teoria.

Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si teneva nascosto nell'intimità, come un'arma proibita. Il bisogno d'indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d'Europa lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella Venezia.

L'insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il dominio austriaco, con poco spargimento di sangue.

A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero il medesimo risultato. Pareva una corrente elettrica che gettasse a terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l'esercito e si apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile vittoria, priva d'esperienza e di senno politico si abbandonava alla gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza.

Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle più pericolose illusioni.

– Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli, combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche sulla forma di governo più opportuna all'Italia, mentre il paese è ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell'Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d'un popolo disarmato.

Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell'entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi, audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e abbondava nel senso di tutti per vivere d'accordo con ciascheduno.

Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi contro il nemico.

Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di contabilitàe finanze; mancavano le armi e i soldati, ma c'erano due incaricati alla milizia e un ministro di diplomazia e guerra, un abate all'istruzione pubblica, un canonico al culto, un avvocato alla consulta, due ingegneri alle pubbliche costruzioni, un avvocato all'amministrazione comunale, un altro alla Polizia, e l'avvocato Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti.

E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni, decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però sempre sicuri nel buon esito dell'impresa.» (Semenzi).

La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate, l'entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però a dimostrare all'Europa l'odio degli Italiani per il dominio straniero.

Provenienti da varie regioni d'Italia entravano in città le più bizzarre milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi napoleonici, durlindane dell'Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli, trasteverini, napolitani e siciliani.

Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad affrontare i primi scontri dell'esercito austriaco che scendeva dal Friuli, preceduto dei soliti Croati.

Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la libertà.

I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone, regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel maneggio delle armi.» (Capitolo III della Capitolazione). «I sudditi austriaci arruolati nelle truppe italiane, saranno considerati come emigrati.»

Ed ecco che cominciava una nuova iliade di mali per gli Italiani, e la nazione tornava ad essere invasa ed oppressa dalle forze preponderanti degli invasori stranieri.

Mentre le milizie italiane uscivano dalla porta Santi quaranta (ora Cavour), gli Austriaci entravano dalla porta di San Tommaso (ora Mazzini).

Nella villa suburbana del capitano Bonifazio la povera Maddalena restava sola a piangere la partenza del marito e dei figli, che non aveva potuto abbracciare.

Il maestro Zecchini e Mosè cercavano invano di consolarla facendole credere che sarebbero presto ritornati, ma il suo cuore di donna la avvertiva che i suoi cari starebbero assenti lungamente, esposti a mille pericoli; e al suo dolore di moglie e di madre si aggiungeva quello di buona italiana, che vedeva la patria rioccupata dagli stranieri.

Quale solitudine, qual vuoto in quella casa, e in quel parco dopo la partenza de' suoi cari! Una parte della cavalleria austriaca aveva preso alloggio nelle case di campagna intorno la città, le scuderie erano piene dei cavalli nemici, e i soldati inquieti andavano e venivano con volti arcigni e truce aspetto.

Ecco il santuario domestico invaso dagli stranieri, che non hanno nulla di sacro nel paese conquistato. Si prendevano le frutta come fossero in casa propria, calpestavano le colture, legavano agli alberi i cavalli che coi denti rosicchiavano le corteccie.

Maddalena che conosceva la passione del marito e dei figli per quelle belle piante, allevate con tante cure, piangeva disperata per non poter arrestare quella devastazione.

Il maestro Zecchini trovò il modo di rendersi utile alla povera donna ed agli amici assenti, andando a parlare ad un colonnello che cercava un comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello in mano, in attitudine riverente, e gli disse:

– Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio che quello di servirla bene.

Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino.

I soldati coi cavalli ricevettero l'ordine di sgombrare immediatamente, e di ritirarsi nelle adiacenze, con l'obbligo di mai più mettere i piedi nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà.

Partito quell'ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado, e così di seguito. La tradizione conservò l'abitudine dell'alloggio riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso soggiorno.

Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d'Italia, invase per ogni parte da eserciti nemici.

Milano ricadeva in mano dell'Austria, e tutto il sangue sparso dagli Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla invasione.

La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà, per contribuire alla difesa.

Le vicende dell'assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella storia della nostra emancipazione.

Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà, dopo l'umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal coléra e dalle bombe, decide di resistere ad ogni costo, offerse un esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l'ammirazione del mondo.

I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad un diluvio di palle.

Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi tempi dell'assedio all'ambulanza.

Finito l'ultimo pane nero, e l'ultima carica di cannone, Venezia dovette cedere senza esser vinta.

Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla povera donna che non li aveva visti da più d'un anno, desiderava che volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l'aiuto d'un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di condannarsi all'esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza d'un pronto risveglio della nazione e d'un ritorno alle armi.

La separazione fu dolorosa. Gervasio s'imbarcò in un bastimento francese, e il vecchio soldato, sostenendo sotto il braccio il più giovane dei suoi figli ferito, ritornò alla sua villa.

Povera Maddalena!.. quando li vide entrare pallidi e magri, col suo Stefano ferito, e senza Gervasio, fu costretta di sostenersi ad un albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle braccia loro esclamando:

– Dove è Gervasio?..

– È partito… risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco…

– È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è morto!.. sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!..

Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l'esilio alla casa paterna, alle cure di sua madre!

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