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La famiglia Bonifazio; racconto
La famiglia Bonifazio; racconto

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La famiglia Bonifazio; racconto

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Alla sera quando si ritirava nella sua camera, invece di andare a letto a dormire si sdraiava sul canapè, pensava lungamente alla Maddalena, ne faceva il paragone colle altre donne che aveva incontrate nei vari stati d'Europa, e la trovava più bella, più interessante e più adorabile di tutte. Era stato piuttosto libertino, intraprendente, audacissimo col bel sesso, e poteva vantarsi di ardite conquiste tanto sui campi di battaglia che nelle alcove; ma quelle erano donne, e questa era un angelo, ed egli si trovava ospite da un amico, del quale gli era sacra ogni cosa, e più di tutto la famiglia.

Così passavano i giorni, e Bonifazio si lasciava vivere in pace, in una specie di allucinazione, e di ebbrezza felice, e chi sa quando avrebbe pensato di andarsene allorchè la lettera d'un avvocato di Treviso lo chiamò al suo paese per affari urgenti.

Il colonnello non voleva lasciarlo partire, le signore lo pregavano di non abbandonarle, e gli parve perfino di scorgere una lagrima che brillava come un diamante nei grandi occhi di Maddalena; ma la lettera era pressante, e poi sentiva anche il bisogno di fuggire da quell'amore soffocato che quasi quasi gli pareva un insulto alla casa dell'ospite e dell'amico; e partì.

L'ultima parola del colonnello fu questa: – Siamo intesi, facite judicium et justitiam… e l'altro rispose:

– Pubblice felicitatis incrementum

Erano parole del diploma guelfo dei Carbonari.

Pochi giorni prima si erano abboccati coi fratelli della setta, in un sito deserto, e avevano giurato nuovamente di liberare la patria dal giogo straniero, o di morire.

Nel viaggio di ritorno si arrestò a Brescia, Verona, Vicenza, Padova; fece una scappata a Rovigo e a Venezia, e in tutte queste provincie s'incontrava coi federati, faceva dei proseliti, formava nuovi centri carbonari, allargava le diramazioni nei principali villaggi, e stringeva i nodi d'un'ampia rete che doveva serrare nelle sue maglie l'aquila a due teste.

Poi rientrò tranquillamente nella casa paterna, solo e disarmato, ma profondamente convinto che presto o tardi ma di certo, l'Italia sarebbe unita, libera e indipendente.

II

Erano passati sei anni da quella prima dimora in Brianza, quando nel maggio 1820, il capitano Bonifazio ricomparve per la seconda volta davanti la casa del suo vecchio commilitone.

Non era ancora guarito della profonda ferita ricevuta dai grandi occhi di Maddalena, e stupiva che una così bella ragazza non si fosse ancora maritata. Ma in quella solitudine!.. egli pensava, è come un fiore delle Alpi che sboccia, profuma l'aria d'intorno, e muore senza che nessuno lo veda.

Le accoglienze furono cordialissime. Il colonnello e sua moglie lo abbracciarono come un fratello… Maddalena impallidì.

Bonifazio vide il pallore della fanciulla, sentì la mano di lei tremante nella sua, lesse ne' suoi grandi occhi un sentimento di tenera affezione, della quale non si era accorto al primo incontro.

E come poteva avvedersene se non osava guardarla? non era lei che doveva confessargli il suo amore! Era partito all'improvviso, ed era rimasto sei anni senza ritornare in Brianza; anzi aveva paura di ritornarvi, e non sarebbe tornato senza la politica.

La luce entrata per uno spiraglio non tardò a diffondersi. Venne a sapere che non mancarono alla fanciulla ottimi partiti, ma essa aveva respinto inesorabilmente ogni domanda di matrimonio. Si fece coraggio, incominciò a guardarla negli occhi: essa non evitava quegli sguardi, anzi vi corrispondeva con tale espressione che era il linguaggio dell'anima, un linguaggio eloquente per il cuore del capitano.

Egli aveva 34 anni, otto anni di vita militare lo avevano reso robusto, sei anni di vita rurale lo avevano ringiovanito. Ella ne aveva 25, era un frutto maturo, conservato perfettamente dall'aria pura dei campi. La sorte li riavvicinava, e tutto li spingeva ad amarsi, le affinità naturali e domestiche, la riconoscenza, le memorie e le abitudini della vita.

Le dichiarazioni furono franche, e soldatesche.

– Maddalena, le disse un giorno il capitano, l'immensa amicizia che sento per vostro padre, è superata dall'amore che ho per voi; se vi degnate di concedermi la vostra mano io sarò l'uomo più felice del mondo, – e così dicendo le sporse la destra.

Essa depose, senza esitazione, la sua mano in quella del capitano dicendogli:

– Per la vita!..

– Per la vita!.. egli soggiunse, stringendosi al petto quella mano, e vi depose un bacio rispettoso, come suggello della santa promessa.

Poi si presentò subito al colonnello, rigido, diritto, come quando andava a presentare il rapporto nella vita militare, e gli disse:

– Mio colonnello, sono innamorato!

– Per la cinquantesima volta! gli rispose l'amico.

– Per la prima volta! mio colonnello.

Il vecchio soldato sorpreso da uno scoppio improvviso di risa, fece un'aspirazione così rapida, che il fumo della pipa gli entrò in gola, lo fece tossire, sputare, e bestemmiare con tanta violenza, che pareva soffocarsi.

Quando tornò in calma, Bonifazio gli fece il solenne giuramento, che la sua asserzione era la pura verità. Era verissimo che aveva conosciuto molte donne, ma non ne aveva amata seriamente nessuna, o perchè nessuna aveva saputo meritarlo, o perchè le continue marcie forzate non gli lasciavano il tempo di dare l'importanza d'una passione ai suoi capricci passeggieri. Se n'era persuaso nel 1814, quando s'era innamorato seriamente per la prima volta, ma aveva amato in silenzio per sei anni consecutivi, e finalmente si era risolto di parlare…

– Ci hai messo del tempo!.. gli rispose il colonnello, hai perduto l'abitudine della furia francese, hai contratto il contagio della flemma tedesca…

– Non mi credevo degno della donna amata, non osavo alzare gli occhi fino a lei…

– E adesso li hai alzati?..

– E adesso domando la sua mano…

Il colonnello lo guardava fisso, e cominciava a comprendere.

Allora il capitano riprendendo la sua posa militare soggiunse:

– Ho l'onore di domandare al colonnello Odone Palanzo la mano di sua figlia Maddalena.

Il colonnello si gettò nelle braccia dell'amico, ridendo e piangendo, e gli mancava la parola per la commozione.

Si recarono insieme dalla buona madre che accolse la domanda con vera soddisfazione, e concertarono ogni cosa di comune accordo. E quando nei giorni successivi, e negli intimi colloqui colla fidanzata, essa confessò a Bonifazio che lo amava fino dal loro primo incontro, e lo aspettava rassegnata, colla speranza di rivederlo, risoluta di non volere che lui o nessuno, egli non sapeva darsi pace della sua dabbenaggine, e del tempo perduto.

E scrisse una lettera al maestro Zecchini che cominciava con le seguenti parole: «Faccio adesione piena ed intiera alla vostra prediletta teoria; sì, l'uomo è un asino! e me ne sono accorto in questi giorni, studiando la verità sopra me stesso.» Non si spiegava di più, passava ad altri argomenti, raccomandava le sue coltivazioni, ma le ultime parole del foglio confondevano il maestro, il quale restava sbalordito da questa conclusione: «ho il piacere di annunziarvi che prendo moglie.»

Il povero Zecchini non sapeva che cosa pensare.

Intanto l'amore del capitano Bonifazio andava di pari passo colla congiura. Al giorno godevano il sole di maggio sotto la pergola dei gelsomini, e vagavano per le colline, soffermandosi ad ammirare i lontani orizzonti, e il sorriso di primavera sulle rive dei laghi.

Alla sera il colonnello e il capitano uscivano insieme col pretesto d'una lunga passeggiata militare, e invece si recavano ai convegni notturni dei Carbonari, tenuti in luogo sicuro.

Era stato scelto a tale scopo un casolare incendiato nella campagna deserta, vicino a un bosco. I contadini rimasti senza tetto si erano rifuggiati altrove. Dietro alcune macchie di alberi i giovani apprendenti stavano in sentinella per dare il segnale convenuto in caso di bisogno, ai capi che si raccoglievano fra le rovine, al lume delle stelle. Ciascuno portava un nome romano, Sallustio, Orazio, Livio, Nerone, e molti di loro non si conoscevano che con questo nome. La parola di passo era: libertà vendicata. Colà il deputato veneto dei cavalieri guelfi combinava gli accordi coi federali lombardi, i quali corrispondevano coi capi dirigenti degli Adelfi del Piemonte. La Costituzione latina era il loro statuto, che conteneva il piano fissato per effettuare una rivolta armata. Fra gli ufficiali del disperso esercito italiano i Carbonari si contavano a migliaia. Il colonnello si teneva in corrispondenza segreta con suo fratello Aristide, che annodava le relazioni della setta di Lombardia colle società segrete di Torino.

La rivoluzione piemontese doveva scoppiare nei primi mesi del 1821, d'accordo coi Napoletani e i Lombardi.

Esauriti gli argomenti da trattarsi i congiurati fissavano la notte pel successivo ritrovo, poi uscivano dal nascondiglio alla spicciolata.

Il colonnello e il capitano ritornavano a casa fumando la pipa, parlando delle glorie passate, delle presenti vergogne, e dell'immensa sventura di vivere senza patria.

All'alba il capitano era alla finestra a respirare l'aria mattutina e le soavi esalazioni dei campi. Poi passava delle ore deliziose conversando colla promessa sposa, e ammirando la perizia che dimostrava nel disimpegno delle faccende domestiche.

L'amore e l'amicizia gli avrebbero fatto dimenticare la sua casa, e i suoi affari, se la politica non lo avesse costretto alla partenza, per apportare nel Veneto le decisioni prese dalle assemblee dei Carbonari, e provvedere con ogni sollecitudine ai prossimi avvenimenti.

Furono presto d'accordo nel fissare il tempo delle nozze. Le donne chiesero sei mesi per apparecchiare il corredo, gli uomini assentirono volontieri, colla tacita speranza che fra sei mesi l'Italia sarebbe libera dal dominio straniero, e che per allora, la nuova famiglia italiana avrebbe una patria.

La separazione fu dolorosa, abbracci e lagrime da ambe le parti, ma l'addio fu raddolcito dalla promessa d'una assidua corrispondenza epistolare, e dal ritorno nel novembre per celebrare le nozze.

Il viaggiatore non distolse gli occhi da quella casa diletta che all'ultima svolta lontana della strada, e vide ancora un fazzoletto bianco che sventolava fra quel gruppo d'alberi, dove aveva lasciato il suo cuore. Rientrò all'albergo di Brianza raccontando le meraviglie vedute nelle sue gite agricole, nominò tutti i paesi, meno quello dove aveva soggiornato, e partì per Milano carico di sementi. Di là colle solite fermatine perfettamente dissimulate, e colle relative conferenze segrete coi principali centri carbonari, si diresse a piccole giornate verso il Veneto.

Il maestro Zecchini e il fedele Mosè lo aspettavano con curiosa ansietà. Forse ritornava colla sposa! Era vero che non aveva dato alcuna disposizione in proposito, ma la casa era in ordine, e il parco era degno di ricevere qualunque signora. Mosè non voleva credere a questo precipizio, ma il maestro Zecchini non si sorprendeva di niente, anzi si aspettava ogni bizzarria da quell'originale, che gli aveva annunziato il suo matrimonio con tanto laconismo.

Finalmente giunse una lettera che fissava il giorno preciso del ritorno, e siccome il capitano era esatto come un cronometro, così il domestico e l'amico stavano ad aspettarlo sulla porta quando si udirono i sonagli della vettura che riconduceva il pellegrino.

Le disposizioni da prendersi per il prossimo matrimonio furono nuovo argomento di conversazioni e di diverbi fra il maestro e il capitano. Zecchini metteva fuori degli utili consigli per gli arredi, Bonifazio lo canzonava; Mosè dava sempre ragione al padrone, il quale dopo di aver ripetutamente disapprovato i piani dell'amico finiva qualche volta coll'adottare quei consigli che aveva respinti con ironia e indignazione. Ma si conchiudeva sempre la pace al tavolo del terziglio, ovvero si cambiava argomento di discussione raccogliendo le diatribe sulle carte da giuoco.

III

Durante l'estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della congiura, e i ritrovi dei Carbonari.

Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre, sull'imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone.

Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un'ora in conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita.

Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine.

Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa, brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al maestro, il quale sbalordito dall'accusa fissava tanto d'occhi in faccia del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito.

Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di stare in giardino.

Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita, fiutava l'aria della stanza, guardando intorno con inquietudine.

– Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano.

– Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c'è qualche cosa che prenda fuoco.

– Sono delle vostre solite idee!.. io non sento niente… non c'è niente.

– Eppure c'è qualche cosa di bruciato! insisteva l'altro, andiamo a vedere.

Il capitano s'impazientava, montava in collera, lo accusava d'essere un visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue inquietudini, e l'obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano.

Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d'uomo ostinato, fino alla cocciutaggine.

Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte, affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun odore da fumo.

– Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per tutto!

Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle carte bruciate, continuava a dire che non c'era il minimo odore di fumo.

Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di notte.»

Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune accordo a tempo più opportuno.

C'era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite precauzioni per non entrare nelle trappole tese dai nemici, ma non tutti i sorci hanno gli accorgimenti necessari per evitare le insidie, e burlarsi degli insidiosi; molti furono accalappiati, ed era indispensabile di non muoversi, di non dar segno di vita, per non eccitare sospetti.

Il maestro che ignorava la dilazione del matrimonio aveva apparecchiato il suo bravo sonetto per le nozze dell'amico, nel quale non mancò di rammentare le prodezze guerriere dello sposo, e la bellezza della sposa (che non aveva mai veduta) per tirar fuori il solito paragone di Venere e Marte. Gli pareva di aver fatto un lavoretto abbastanza degno dell'occasione, e portò il manoscritto alla I. R. Censura per ottenere il permesso di stamparlo.

Non lo avesse mai fatto! il censore lo fece chiamare in ufficio, gli diede una solenne lavata di testa, e gli osservò:

– Anche senza badare all'indole sovversiva di tutto il sonetto non potrei lasciar passare alcune parole proibite, come Italia, patria, libertà; e poi che diavolo si è messo in mente di parlare di Buonaparte e di chiamare l'Italia una nazione? dove vede la nazione?.. mi dica…

Il maestro tutto confuso gli rispose:

– Sono stato trascinato dalle rime: Marte Buonaparte; Napoleone-Nazione. Sapeva di far piacere allo sposo che fu soldato di Napoleone.

– Peggio che peggio! Ella ignora dunque che Napoleone Buonaparte fu nemico dell'Austria?..

– Fu genero del nostro venerato Sovrano, di Sua Maestà l'Imperatore!..

– Senta, le dò un consiglio da padre, lasci la politica agli uomini di Stato… e a chi ha voglia di andare in prigione; e se vuol fare il poeta, quantunque io non ne veda la necessità, lasci stare i cavalli di battaglia, e salga al Parnaso col modesto ronzino che serve al suo pievano per andare alla congrega, e cavalchi tranquillamente nella pacifica Arcadia, che non ha mai fatto male a nessuno.

E così dicendo lacerò il sonetto incriminato, lo gettò nel cesto, e congedò il poeta con uno sguardo severo accompagnato da queste poche parole:

– Si tenga per avvertito!

Il maestro Zecchini uscì dall'ufficio di Censura annichilato.

Gli tremavano le gambe, si riteneva fortemente compromesso, vedeva già il commissario di polizia e gli sbirri che picchiavano alla sua porta, che lo perquisivano, lo arrestavano, lo conducevano in prigione.

Corse difilato dal capitano a confessargli la sua imprudenza, e a domandargli consiglio.

– Che cosa vi è passato per la mente? gli domandò il Bonifazio, in collera. Ignorate dunque che senza patria non si ha il diritto nè di scrivere, nè di pensare? Avete commesso una vigliaccheria degnandovi di sottomettere i vostri concetti alla censura, avete commesso una asinaggine gettandovi volontariamente in bocca al lupo. Non sapete che a Milano hanno soppresso il Conciliatore? che hanno chiuso le scuole di mutuo insegnamento?.. Vi siete cacciato in un vespaio… potreste essere arrestato.

– Ma io non ho fatto niente!..

– Appunto per questo siete in pericolo. Tutti quelli che furono arrestati in questi giorni non hanno fatto niente… qualche leggerezza, qualche imprudenza, qualche fanciullaggine come la vostra; ma saranno condannati, perchè coloro che agiscono seriamente, sanno farlo colle dovute precauzioni, e l'Austria ne prenderà pochi. I generali muoiono raramente in battaglia, sono i semplici gregari che pagano per tutti. Ma pazienza che voi andiate in prigione, il peggio si è che compromettete gli amici con la pazzia dei sonetti, che non servono a niente. Non siete uomo da esporvi alle conseguenze d'un atto coraggioso, la vostra tempra frolla non vi permette di sfidare le crudeltà del dispotismo. Guai se vi manca ogni mattina il vostro caffè nero, e i calzerotti di lana l'inverno, il pancotto la sera, guai se vi togliessero l'aria e il sole dei campi, e vi chiudessero in un camerotto, colle balze agli stinchi per finire i giorni sul tavolaccio del carcere duro!..

Il povero Zecchini si coricò colla febbre, e battendo i denti andava borbottando la sua massima prediletta, come una giaculatoria in articulo mortis, e questa volta intendeva parlare di sè stesso, quando ripeteva con compunzione: – l'uomo è un asino, un asino, un asino!..

Gli volle molto tempo prima di ricuperare una discreta salute; e quando leggeva sulla Gazzetta di Venezia dei nuovi arresti, sentiva un brivido fra carne e pelle, gli pareva di vedersi in mezzo ai Carbonari, e se li figurava tutti neri, le vesti, il viso, e le mani, e faceva il più solenne giuramento di mai più esporsi a simili pericoli, e per evitare ogni occasione di compromettersi, non voleva più vedere nessuno, e non frequentava che una sola casa, quella del suo vicino, il capitano Bonifazio.

Intanto i processi di Milano e di Venezia continuavano le inchieste, e sempre nuove vittime cadevano in mano dell'Austria.

Il capitano Bonifazio e il colonnello Palanzo erano costretti di protrarre continuamente il matrimonio nell'interesse di Maddalena, perchè nè un fidanzato nè un padre potevano condannare una giovane sposa a vincolarsi per la vita con un uomo minacciato dalla prigione o dall'esilio. E attendevano silenziosi e cauti che fosse cessato il pericolo, cercando di giustificare il ritardo con facili pretesti, ammessi facilmente da chi non vedeva altri motivi.

Ma tutto non isfuggiva alla perspicace penetrazione delle donne; alcune parole colte a volo, alcuni fatti sospetti che coincidevano coi dolorosi avvenimenti del giorno le illuminavano abbastanza, da renderle rassegnate al destino, come ad una necessità ineluttabile.

Il più difficile per Bonifazio consisteva nel giustificare il ritardo delle sue nozze presso il maestro Zecchini, il quale s'interessava vivamente alla sorte dell'amico, trovava opportunissimo il matrimonio, si riprometteva dal medesimo una conversazione più geniale, e non poteva credere nè rassegnarsi ai pretesti che gli venivano presentati dal capitano come i veri motivi della prolungata dilazione.

E questo era nuovo argomento di dissenzione fra i due vicini, per le osservazioni noiose da una parte, e le risposte bisbetiche dall'altra.

Così passavano i mesi dolorosi pei fidanzati, pieni di angoscie per le famiglie, con maneggi segreti dei congiurati per stornare le minacce, e per disperdere tutte le prove compromettenti per coloro che erano liberi.

Tutto il 1821 trascorse nella caccia accanita degli inquisitori in cerca di congiurati, e nella somma destrezza dei capi della setta per sottrarre nuove vittime alla vendetta degli usurpatori, e alla insidiosa procedura di giudici arrabbiati per non poter cogliere nei loro tranelli che un numero assai limitato di Carbonari.

In febbraio 1822 il lungo processo degli arrestati era finalmente finito, e interessava ai capi di assistere alla lettura delle sentenze delle povere vittime, che si faceva sulla pubblica piazza.

A tale scopo il capitano Bonifazio partì per Venezia col suo domestico, potendo aver bisogno d'un uomo fidato, in quella dolorosa circostanza.

Era il 22 febbraio, una bella giornata serena, il sole rallegrava la laguna e illuminava le case e le botteghe in assetto di festa.

Mosè che ignorava il motivo del viaggio del padrone, essendo libero fino a mezzogiorno, chè a quell'ora doveva trovarsi in piazza, girovagò tutta la mattina intorno a Rialto.

Passeggiando per la pescheria si fermava davanti i banchi ad ammirare i pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, dal roseo al verde, dal bianco al bruno, tutti brillanti di squamme metalliche; e passando per l'erberia stava colla bocca aperta davanti le botteghe rigurgitanti di commestibili d'ogni genere, ornati di verdi fronde, e contemplava estatico i cestoni di frutta e di erbaggi, le piramidi di aranci e di limoni, le valanghe di bietole e patate, i mucchi di polli e di selvaggina, i monti di carubbe, i barili d'uva calabrese e di fichi secchi.

I mercanti vantavano ad alta voce le loro merci ad eccessivo buon mercato, e invitavano i passanti a non lasciarsi sfuggire la bella occasione; chi cantava e chi urlava i nomi degli oggetti messi in vendita, chi alzava in aria i campioni, chi metteva il cesto sotto il naso dei passanti. E una folla allegra e ciarlona di curiosi e di acquirenti andava e veniva per la via fra quella babilonia di gente e di prodotti di tutti i colori e di tutti gli odori. Quando fu vicina l'ora fissata dal padrone, Mosè dovette allontanarsi da quel bizzarro e rumoroso spettacolo, e si avviò verso la piazza.

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