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La famiglia Bonifazio; racconto
In casa la desolazione e lo squallore erano succeduti alla pace d'un'ora prima. Beppina colle mani nei capelli, coricata sul canapè, chiamava il suo Stefano, mandando dei singhiozzi convulsi che parevano soffocarla. Maddalena in ginocchio se la stringeva al seno, piangendo dirottamente, il capitano col volto sconvolto, girava per la casa come un pazzo, senza sapere dove andava; Mosè lo seguiva col lume in mano senza parlare.
Il primo a riprendere il dominio di sè stesso, fu il vecchio soldato, ma tutti i suoi ragionamenti riuscirono vani; nè la madre, nè la moglie, potevano consolarsi di tanta sventura; ascoltando gli scrosci della pioggia e i sibili del vento di quella orribile notte, pensavano ai patimenti fisici e morali del povero arrestato durante il viaggio, e poi negli orrori della prigione; conoscevano i processi lunghi e insidiosi dell'Austria, paventavano delle sue crudeltà; i genitori erano rimasti senza figlio, la moglie senza marito, la figlia senza padre! ogni felicità era scomparsa da quella casa, quella gente onesta e tranquilla non aveva diritto di amare il suo paese, nè di volerlo libero dagli stranieri, i quali si credevano in diritto di punire severamente i più nobili sentimenti della natura e dell'umana dignità.
Quella notte tutti vegliarono, oppressi dall'angoscia, spaventati dall'avvenire.
Il giorno seguente si sparse la notizia di molti arresti fatti nella stessa notte. Accorsero gli amici, ma nessun conforto poteva consolare quegli infelici caduti vittime di tale sventura.
I prigionieri erano partiti per Mantova. Stefano fu gettato solo in una cella angusta, umida, oscura ed infetta, e pensava ai suoi cari, alla disperazione della moglie e della madre, all'afflizione del padre, alla bambina, alla casa, alle dolci abitudini domestiche. Quel cambiamento repentino di vita, quel rapido trapasso dalle gioie serene della famiglia, alle torbide agitazioni d'un processo pericoloso, dall'aria profumata d'un parco all'afa nauseabonda del carcere, era un colpo troppo violento per restare senza conseguenze sopra un giovane felice ed avvezzo all'aria libera dei campi.
Quando i patemi d'animo, che lacerano il cuore, sono accompagnati da tutte le angustie del corpo, la natura umana soccombe.
Dopo un accesso violento di disperazione, di furore e di lagrime, Stefano cadde sfinito sul fetido pagliericcio della prigione, e gli parve di essere stato sepolto vivo. Pensava alla vita passata come ad un altro mondo, abitato in un'epoca lontana, prima d'essere precipitato in fondo d'un precipizio. Provava una sete ardente accompagnata da affanni e da nausea.
Fu trascinato davanti il giudice inquisitore colla febbre; le arterie delle tempie gli battevano come due martelli. Non intendeva le domande che gli venivano indirizzate, rispondeva con sdegnoso disprezzo, con pungente ironia, gli pareva di trovarsi fra le unghie adunche d'una belva feroce che stesse per divorarlo.
Ritornato nella sordida cella fu visitato dal medico che lo trovò coi lineamenti immobili, colla lingua e i denti fuliginosi, in una prostrazione di forze completa; rispondeva lentamente, con parole insensate. Il medico conobbe i primi sintomi d'una febbre tifoide, e ordinò che fosse subito trasportato all'infermeria. Il povero infermo non se ne avvide nemmeno. Gli comparvero sul volto delle macchie rosse che sparivano sotto la pressione delle dita.
Passò più d'un mese in questo stato, poi cominciò a peggiorare, e aveva perduto i sensi da qualche giorno, quando alle ripetute istanze della famiglia fu concesso di visitarlo.
I parenti partirono subito per Mantova. Il giorno dopo del loro arrivo, il capitano colla faccia sparuta, ma fiera, conduceva la moglie e la nuora, che parevano uscite da una tomba, e camminavano sostenendosi reciprocamente, attraverso gli squallidi e infetti corridoi della prigione, sotto la scorta d'un attuario e d'un secondino. Il malato non conobbe nessuno, i poveri parenti non videro che una faccia cadaverica, coperta da un sudore viscido, con un respiro affannoso, che era il solo segnale di vita che gli restava.
La Beppina cadde su quel sordido pagliericcio, perdendo i sensi, ed anche la povera madre stava per venir meno. Uscirono dalla infermeria, Maddalena sostenuta dal marito, e la Beppina trasportata da due infermieri. Adagiarono le misere donne in una carrozza che le condusse all'albergo. Chiamato subito un medico, la Maddalena fece uno sforzo sovrumano per assistere la nuora, reggendosi appena sulle gambe.
Beppina era incinta di quattro mesi. Quando giunse alla villa il permesso di visitare il moribondo, i genitori pronti a partire, avevano fatto una vivissima opposizione al viaggio della nuora, della quale conoscevano la condizione pericolosa, peggiorata dalla disperazione per la prigionia del marito, e dalle gravi notizie sulla sua malattia, che erano state comunicate da Mantova. Ma ogni resistenza fu vana; non valsero nè le ragioni persuasive del medico, nè i più affettuosi consigli dei suoceri, essa si irritava talmente contro chiunque volesse impedirle di rivedere il suo Stefano, che in fine parve meno pericoloso il condurla con loro che il lasciarla a casa in preda della disperazione.
Partì in uno stato di grande debolezza, con violente palpitazioni di cuore, ma si sostenne durante il viaggio a forza d'energia, la quale la resse fino alla porta dell'infermeria, ma la abbandonò totalmente all'aspetto dell'ammalato, ridotto in tale stato che era appena riconoscibile.
Coricata nel letto dell'albergo, all'arrivo del medico la misera donna aveva già abortito, e la violenta emorragia cominciava a svenarla. Non le mancarono le cure più sollecite ed affettuose, ma il medico non dissimulava la gravità del pericolo, e diceva al capitano:
– Caro signore, le carceri politiche hanno ucciso più donne che prigionieri. Questi resistono con vigore alle prove tremende, perchè sono animati da un altissimo sentimento che sostiene il loro coraggio, ma le madri e le spose soccombono colle viscere straziate dalla violenza che le privò dei figli e dei mariti. Nella condizione di vostra nuora colpita atrocemente nel giorno dell'arresto, quest'ultima scossa terribile fu un colpo mortale.
E pur troppo riuscirono vani tutti i tentativi fatti per salvarla.
L'anemia progrediente andò esaurendo d'ora in ora tutte le forze vitali, e alfine dovette soccombere.
L'ultima mattina la povera inferma, sentendo la morte imminente, volle baciare i suoi cari, raccomandò caldamente all'affetto della suocera la sua piccola Maria, mostrò il più vivo desiderio di ricongiungersi al suo Stefano, in una vita di oltre tomba, e rivolti al cielo gli occhi languenti spirò.
Il volto della povera morta pareva di marmo greco, il suo pallore risaltava maggiormente sulle morbide treccie di capelli che furono il suo diadema di sposa, e la sua corona di martire. Pochi giorni dopo moriva anche Stefano nel Castello di San Giorgio, e così sfuggiva al patibolo di Belfiore ove sarebbe perito con tanti eroi della patria.
Il vecchio carbonaro accompagnava al sepolcro i due figli morti alla distanza di pochi giorni, e li faceva collocare uno presso dell'altro, piangendo di dolore, fremendo di sdegno, e invocando dal cielo la pace ai defunti, il castigo di Dio sui despoti della terra; e la libertà alle nazioni, che hanno saputo guadagnarsela con tanti sacrifizi di vittime umane.
VII
La notizia di questa catastrofe colpì tutta Italia come una calamità nazionale; si sparse dovunque, ridestò l'odio degli esuli che soffrivano lontani dal focolare domestico, portò la desolazione a Treviso e in Brianza, ove i parenti e gli amici appresero con orrore la rapida morte dei loro cari, che parve a tutti lo schianto di due fiori prodotto dalla violenza d'un uragano. A tale sventura si aggiunsero le relazioni dell'infame processo, i patimenti di chi languiva nel carcere, i supplizi che lo seguirono, e tutto insieme accumulava le maledizioni degli oppressi sugli oppressori.
I due poveri vecchi che in così breve spazio di tempo avevano perduto i due diletti figliuoli involati violentemente alla pace domestica, compiute le onoranze funebri, ritornarono piangenti alla loro casa, ove un'orfanella innocente li aspettava colle braccia protese invocando il ritorno della sua buona mamma, e del babbo.
La nonna Maddalena dovette assumere gli uffici di madre, e dissimulare la grave disgrazia all'infelice bambina, essa che aveva tanto bisogno di piangere.
Il capitano scriveva lettere di fuoco al figlio superstite, perchè gli esuli si agitassero anche in Francia, e spingessero quella nazione a non tollerare più oltre in Italia la infamia della dominazione straniera, e aiutassero gli schiavi ad infrangere quelle catene che li rendeva impotenti alla rivendicazione dei loro diritti.
Da ogni parte venivano voci di speranza, ma il frutto non era maturo.
Intanto le disgrazie accasciavano i vecchi. Il capitano curvava la schiena sotto il peso degli anni aggravati dal dolore. Soffriva delle vertigini che lo esponevano a cadere, se non trovava un sostegno. Il maestro Zecchini lo consigliava a consultare un medico, il Bonifazio alzava le spalle con dispetto e non gli dava retta.
– Avete bisogno d'un salasso, insisteva a dirgli il maestro.
– Il salasso bisogna farlo all'esercito austriaco, abbondante fino allo svenimento, e allora sarò sicuro di guarire.
La piccola Maria cresceva in salute ed in grazia, sotto quegli alberi maestosi che colle loro ombre avevano protetta l'infanzia di suo padre, ed avevano consolato i giorni più lieti della breve esistenza di sua madre. La bimba giuocava coi fanciulli della sua età, e coglieva fiori e farfalle intorno a quei viali tortuosi che erano stati percorsi dai suoi genitori nel tempo felice.
Il maestro Zecchini le insegnava a leggere sui vecchi libri che avevano servito al suo babbo ed allo zio Gervasio; ma quando la bambina si rifuggiava sui ginocchi della nonna, mostrandosi annoiata della monotona cantilena del maestro, implorando la grazia di ritornare ai suoi diletti infantili, la buona donna la liberava subito dal peso della lezione, e la rimandava libera ai boschetti del parco.
– A che cosa serve l'istruzione per chi non ha patria? essa diceva a Zecchini, a che cosa hanno servito tanti studi al mio povero Stefano? se fosse stato un ignorante, sarebbe ancora con noi.
– È vero! pur troppo è vero! rispondeva il maestro, il diritto, la ragione, la scienza sono impotenti contro la forza brutale. Contro le baionette non valgono che i cannoni, e il nostro popolo subisce la dura tirannide senza rivoltarsi. – L'uomo è un asino!.. condotto colla cavezza e spinto col bastone, cammina rassegnato da vera bestia da soma. – E dopo qualche sospiro, riprendeva: – Tuttavia l'istruzione è l'unica arma che ci resta. Bisogna istruirsi per saper distinguere il male dal bene, l'intelligenza e la coltura aprono tutte le strade, è un dovere di tutti istruirsi; non solo gli uomini, ma anche le donne. Avete torto di incoraggiare la bimba a trascurare lo studio…
– Che sia felice almeno nella infanzia, interrompeva la Maddalena; chi sa a quale sorte è riservata nell'avvenire!.. i pochi giorni felici sono tutti guadagnati.
Così la bambina, secondata dalla nonna, cresceva ignorante, ma bella come la sua mamma, della quale aveva i capelli abbondanti, il sorriso degli occhi, e la bocca un po' grande, ma affettuosa.
Essa, che adorava la nonna, si prestava però volentieri per assisterla nelle faccende domestiche, le piaceva di stare in cucina ad ammannire le vivande, imparava prontamente ad apparecchiare a condire ed a cuocere le varie pietanze, e a sorvegliare i fornelli. Faceva grande attenzione alle faccende della casa, voleva che la nonna la lasciasse fare da sola, era contentissima quando riusciva bene, e che il nonno le faceva un elogio, per qualche manicaretto elaborato dalle sue tenere mani.
E imparò presto a cucire, a rammendare la biancheria, a inamidarla e stirarla a dovere. Faceva bene la pulizia delle camere, metteva tutto in assetto con attenzione, le piaceva l'ordine in ogni cosa.
Si annoiava soltanto quando le mettevano in mano un libro, o la facevano scrivere; allora sbadigliava, faceva delle smorfiette, e si rassegnava soltanto per contentare il nonno, che non divedeva l'opinione di sua moglie sull'istruzione, ed esigeva questo sacrifizio come un dovere indispensabile. La nonna difendeva sempre Maria, che non aveva voglia di studiare.
– Lasciala in pace, diceva a suo marito, lascia che sia felice, le donne più felici sono quelle che sanno meno.
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