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L'undecimo comandamento: Romanzo
C'era un fil di ridicolo in quella condizione di laici che volevano parer frati. Ma bisogna dire ad onor loro che non si curavano affatto di ciò, e che la noncuranza prendeva carattere di dignità. Vivevano in quella solitudine non cercando nessuno; chi ci andava doveva accettarli come volevano essere. Frati o non frati, avevano scritta sulla porta del monastero la sentenza inventata dal Rabelais: Fais ce que voudras, e non si occupavano d'altro.
Il padre Anacleto, degno priore di San Bruno, non era grave che a mezzo, e portava con disinvoltura cavalleresca la sua tonaca lunga, di color tabacco. Aveva la barba nera, finissima, un po' rada e corta sulle guance, i capegli riccioluti e lucenti, la fronte ampia, lo sguardo aperto, il naso diritto e fine, il labbro sottile e vermiglio. Il primo sentimento che destava a vederlo, era di schietta simpatia; il secondo di stupore e di curiosità. Come poteva essere che un uomo così giovane e d'aspetto così piacente si fosse dato ad un genere di vita, che era una rinunzia anticipata a tante allegre vittorie? Ma guardandolo attentamente, nel corso della conversazione, si notavano alcune rughe sottili sulla fronte, le quali talvolta si raccoglievano a fascio nel mezzo delle sopracciglia; si vedevano certe contrazioni improvvise di labbra, certe nubi di tristezza sugli occhi, e si capiva allora che quell'uomo era vissuto molto in breve spazio di tempo, e che le burrasche della vita potevano aver fatto assai più che solcargli la fronte, o adombrargli lo sguardo.
Aveva in mano la sua berretta di velluto, e la sporse avanti, in atto di salutare, mentre con una occhiata cercava di abbracciare i due visitatori e di coglierne a volo i pensieri.
– In che posso servire le Signorie loro? – dimandò, poichè li ebbe invitati a sedere.
Lo zio aperse le labbra per rispondergli, ma non gli venne fatto di spiccicare una sillaba. Perciò, rinunziando ad una impresa che vedeva superiore alle sue forze, si volse al nepote con la muta preghiera dello sguardo. L'arcangelo in vacanza crollò leggermente le spalle, in atto di stizza non potuta nascondere, per quella che gli pareva una insigne debolezza d'animo, e rispose tutto d'un fiato:
– Signore, siamo due che vogliamo ascriverci alla regola di San Bruno. – Il priore sorrise, e, con accento pacato che non escludeva un senso d'arguzia, ripigliò:
– Si dice San Bruno per mo' di dire. Ma sanno proprio le Signorie loro di che cosa si tratta? L'ordine è forse un tantino burlesco nella forma, poichè non siamo frati, ma è serio nella sostanza, poichè abbiamo una parola d'onore, la quale ci obbliga come il più solenne dei voti.
– Lo sappiamo; – replicò l'arcangelo. – Si vien qua per vivere fuori del mondo, non curando le sue vanità dolorose.
– È vero, – disse il priore, inchinandosi, – ma non è tutto il vero. Ciò ch'Ella dice, mio giovine signore, ognuno di noi potrebbe farlo da sè, ritirandosi per sua elezione a vivere in campagna. Qui, invece, viviamo uniti, foggiandoci il nostro piccolo mondo, riveduto e corretto, senza le noie del grande, ma con tutto il buono, con tutto l'utile che può trovarsi nella vita. Rinunziamo agli affetti pericolosi che lasciano tracce di dolore e di amarezza, ma vogliamo e pratichiamo la carità fraterna, che è un santo bisogno del cuore: rinunziamo alle ambizioni, ma ci dedichiamo allo studio, che affina l'intelligenza ed è poi il naturale ufficio dello spirito.
– Lo sappiamo, padre, e Le domandiamo di poterci dedicare con Lei a questo genere di vita.
– Ma badi; – osservò il priore. – È un genere di vita più alto, o più umile, secondo si guarda, ma certamente diverso da quello che si fa generalmente e a cui c'indirizza la nostra educazione e l'ardore delle nostre passioni. Perciò, a non aver pentimenti, è necessaria una vocazione sincera, e riconosciuta tale, mercè il confronto, che può farsi solamente quando si è vissuto a lungo tra gli uomini. Non basta un desiderio onesto di pace, o una poetica aspirazione alle squisite compiacenze della solitudine; è necessario che il desiderio sia profondo e l'aspirazione provata nei disinganni della vita. Che il mondo offra amarezze e dolori in molto maggior numero e quantità dei piaceri e delle consolazioni, è cosa nota oramai, e può esser creduta anche, sulla fede dei vecchi, da coloro che non ne hanno fatta la triste esperienza in sè medesimi. Ma altro è l'accettare per vera una massima, altro il conformarvi tutta quanta la vita. Si conosce il bene e si loda, ma ci si attiene al peggio, o ci si torna quando fa comodo. Da questo rifugio, invece, non si ritorna più indietro. Donde la conseguenza che ci si debba venire… (mi scusi, ma la franchezza è necessaria)… che ci si debba venire ad una età più matura, che non sia, per esempio, la sua.
– Ho ventidue anni; – disse arditamente l'arcangelo.
– Sia pure, ma non è molto. E poi, Ella non ha neanche l'ombra dei baffi.
– Scusi, che gliene importa a lei? —
Il priore sorrise, a quella involontaria scappata del biondino.
– A me, nulla; – rispose. – Ma non vorrei aver l'aria di accalappiar minorenni.
– Son solo; non ho che mio zio; – ribattè il giovine. – E mio zio, qui presente, si fa frate con me.
– Davvero? – chiese il priore, volgendosi allo zio.
– Davvero; – rispose questi, facendo il gesto dello et cum spiritu tuo.
Il padre Anacleto ebbe un istante di raccoglimento; indi alzò la fronte, come un uomo che ha preso un partito e si dispone a parlare. Ma il pensiero del nostro personaggio doveva essere difficile ad esprimersi, anche per un uomo della sua autorità, perchè egli, dopo aver sollevata la fronte, stette parecchi secondi immobile, con gli occhi fissi sul volto del giovane cherubino. Questi arrossì fino alla radice dei capegli, ma non chinò altrimenti i suoi.
– Mi perdonano la franchezza? – incominciò finalmente il priore.
– Dica liberamente.
– Ma badino, – soggiunse, – voglio essere schietto, anche a risico di parere… scortese.
– Non le riuscirà; – disse il cherubino, che non aveva ancora ombra di baffi, ma dimostrava già di aver molto giudizio.
– Grazie; – rispose il priore, cascando e sapendo di cascare. – Volevo dire che dubiterò; e il dubbio è sempre scortese; ne conviene?
– Secondo la maniera di esprimerlo; – ripigliò il cherubino.
– Orbene, – disse il priore, stringendosi nelle spalle, – prendiamo la forma più mite. Qui vedo due cose, egualmente temibili. O si tratta d'uno scherzo… —
A queste parole, il cherubino scattò sulla sedia.
– Non c'è scherzo, qui; – interruppe egli vivacemente; – La prego a crederlo; lo giuro sul mio onore. M'ingannerò… c'inganneremo, – soggiunse, ravvedendosi tosto, – ma è un nostro desiderio sincero di viver qui, se Ella non ce ne reputa indegni. Siamo gente per bene, pronti a sopportare la nostra parte di spese, a metter fuori quanto occorre, e più ancora, per vivere in questa comunità di San Bruno. L'idea è superiore alla mia età, dice Lei. Che cosa ne sa? Scusi, veh! Non sono ancora sotto la sua tutela. Riconoscerò domani la sua autorità, la sua giurisdizione. Per oggi almeno mi lasci dire liberamente quello che penso. Che cosa ne sa? Metta che io sia vissuto nel mondo quanto occorre per capire che esso non val nulla, che è bugiardo, sciocco e noioso. Non basta, forse, per venire a rifugio quassù?
– Eh, non basterebbe; – disse il priore, crollando la testa e sorridendo. – Ma lasciamola lì. Io le aveva accennato un mio dubbio. Le è dispiaciuto e non voglio tornarci su. L'ardore che Ella ha messo a ribatterlo, mi dice chiaro che non debbo ripeterlo, neanche spiegandolo.
– Dovrebbe ritirarlo senz'altro; – replicò il cherubino. – Per nessuna cosa al mondo io mi farei lecito uno scherzo di questa fatta, e sopratutto con Lei!.. —
Non era niente più d'un complimento; ma il tono con cui fu detto turbò lo spirito del padre Anacleto.
– Rimane l'altra parte del dilemma; – diss'egli, mutando registro. – Il suo sarà dunque un desiderio sincero. Ella lo afferma ed io lo credo. Ma anche un desiderio sincero può essere… di poco durata.
– Durerà, creda anche questo, durerà.
– Oggi le pare, ma chi ci assicura del domani? Io, veda, sono obbligato a distinguere, a considerare tra i possibili, se non a dirittura tra i probabili, che il suo desiderio, vivissimo oggi, si muti un giorno in avversione. E allora? Il voto pronunziato adesso, il patto conchiuso tra noi, non rincrescerebbe a Lei solamente, e farebbe anche torto alla mia previdenza, che si sarebbe mostrata assai misera. A farla breve, sono il priore di nove (e saranno presto quattordici), tutta gente posata, che vive in una quiete esemplare. Ma Ella sa come si ottenga lo stato di quiete negli animi, materia assai più delicata e gelosa che non siano le bilance dell'oro, e come un nulla possa turbare quel felice equilibrio. Se un giorno – osservò acutamente il padre Anacleto, fissando i suoi occhi scrutatori in viso al cherubino, – se un giorno dovessero dirmi: "Signor priore, siete andato un po' leggermente nella faccenda di quella ammissione," crede Lei che non ne sarebbe turbata la nostra bella armonia, unica guarentigia di pace, unico bene che renda la nostra vita preferibile a quella del mondo? – Un'aria di profonda mestizia si dipinse sul volto del giovine. Pareva uno di quegli angeli del buon tempo antico, che, tornati al paradiso, trovarono la spiacevole novità della porta chiusa.
– Orvia, – ripigliò il padre Anacleto, dolente di aver fatto pena al suo giovine interlocutore, – non ci fermiamo a guardare tutti i casi possibili, che saranno ugualmente improbabili. Ella e suo zio mi aiutino a mettere in pace la mia coscienza; accettino di entrare come ospiti, per ora, e questa ospitalità la chiamino pure un noviziato. Tra un anno… Non le piace? Diciamo adunque fra sei mesi. Neanche? Diciamo allora fra tre, riparleremo della loro vocazione. – S'intende, – osservò il priore, – che anche dopo accettati nella famiglia, il vincolo non sarebbe indissolubile. Ma c'è sempre una parola d'onore che impegna; si è ammessi per questa parola, e la parola, pei gentiluomini, è legge. Se così non fosse, mi capiranno, il convento di San Bruno si tramuterebbe facilmente in albergo, ed io ne sarei l'albergatore, o il direttore pro tempore. Ora, nè il mio carattere concentrato, nè le mie abitudini studiose, mi consentirebbero di esercitare questo ufficio.
– Ha ragione; ma noi Le giuriamo fin d'ora…
– No, non giurino, per carità. Io non accetto il giuramento, non l'ho udito. Rimangano qui, li avremo in qualità di novizi. Finora non se n'erano accettati; ma sarà una eccezione alla regola. E prima di tutto, siccome qui ognuno si dedica a qualche lavoro, vediamo un po' che cosa sanno far Loro?
– Io… veramente… – balbettò lo zio – qualche cognizione di agronomia…
– Troverà da applicar poco; – riprese il padre; – qui non abbiamo che l'orto e il frutteto. I campi mancano affatto; i boschi sono stati decimati prima che noi si comperasse il convento. Ma infine, quel poco che c'è offrirà a Lei materia di studio, e saremo lieti di avere un agronomo in famiglia, come già abbiamo il botanico. E Lei?
– Quasi nulla; – rispose il cherubino arrossendo. – Un po' di canto… il pianoforte… Frivolezze, Ella dice bene; – soggiunse tosto, notando un atto involontario di labbra, con cui il padre Anacleto aveva accolte le sue parole.
– No, non dico questo; – notò il priore.
– Lo penserà; è tutt'uno.
– Non lo penso nemmeno. Anche la musica è una bella cosa, e più seria che non si creda generalmente. È matematica applicata ai suoni e interessa una parte della fisica, che non è certo la meno importante. Helmholtz ci ha scritto un libro, il quale è tutt'altro che frivolo, poichè ci dà una dimostrazione completa dei fenomeni del suono e delle leggi musicali che ne derivano. Herschel, studiando a fondo l'arte sua, che era per l'appunto la musica, fu gradatamente condotto allo studio della geometria e quindi alla conoscenza dell'astronomia teoretica, al perfezionamento del telescopio e alla scoperta di Urano. Amo ricordare questi fatti, – soggiunse il padre Anacleto, che si sentiva alquanto impacciato a dover conversare con quello strano novizio, – per dimostrarle che apprezzo la musica anch'io. Disgraziatamente, qui mancano i mezzi di coltivarla; abbiamo volta la chiesa ad uso di biblioteca, e non c'è neanche la fortuna dell'organo.
– So disegnare un pochino; – si provò a dire il giovane.
– Ah bene! questo è il fatto nostro; – gridò il padre Anacleto. – Oh, non dubiti, non le domanderemo i cartoni di Raffaello. I soli principii del disegno basterebbero. Abbiamo in mente di fare un giornale, una specie di rassegna mensile, per registrarvi i nostri studi, e avremo appunto bisogno di tavole illustrative; segnatamente per gli scavi delle nostre caverne.
– Ahi come il duca di Francavilla! – scappò detto allo zio.
– Lo conoscono? È un bravo signore, che ha voluto farci una visita.
Egli è qui a Castelnuovo per certi suoi studi preistorici…
– Per studi, e per altro; – mormorò il cherubino, che la sapeva lunga, anche senza aver ombra di baffi.
– Non saprei; – ripigliò il padre Anacleto, che era prudente e non andava a cercare il pel nell'uovo. – È venuto a trovarci una settimana fa e non ci ha parlato d'altro che delle sue ricerche scientifiche. Anche noi avevamo già pensato a scavare le caverne ossifere di monte Acuto; ma finora ci mancava l'uomo da ciò. Ora avremo uno studioso di queste materie, tra i cinque che verranno in settimana a far vita con noi. È un valente professore. Insegnava a Torino. Gli hanno fatto torto, a quanto pare; qualcheduno si è fatto bello di una sua scoperta; il governo non lo ha tenuto nella giusta considerazione, ed egli ha abbandonata la cattedra. Come vedono, son tutti i delusi, i disgustati delle perfidie umane, che vengono ad accrescere la nostra schiera. Metteremo il professore all'archeologia, ed Ella disegnerà gli oggetti ritrovati. Va bene?
– Sì, sì! – gridò il cherubino, battendo allegramente le palme.
Ma subito si penti di mostrarsi così bambino in faccia al priore, che lo guardava tra sospettoso e ammirato; arrossì per la terza volta, chinò gli occhi e ripigliò:
– Scusi, la prego; ma gli è che son tutto felice di trovare in me un piccolo talento, che possa tornare utile alla comunità. – Stabiliti questi preliminari, il padre Anacleto si offerse ai nuovi ospiti di San Bruno, per condurli a visitare il convento, e l'offerta fu accettata con giubilo dal biondo cherubino, che vedeva così superate tutte le difficoltà della sua introduzione in quella bizzarra clausura.
Anche allo zio era parso di escirne egregiamente. A farselo apposta, un priore, non si poteva ottenerlo più pastoso di così.
– Che sia cieco? – pensava egli, mentre seguiva il padre Anacleto e il biondino, nella loro passeggiata per tutti i corridoi del convento. – Quando egli ha messo fuori quel dubbio intorno all'età, ho subito detto: ci siamo! E come lo squadrava dal capo alle piante! Ma poi, sia lode al cielo, s'è lasciato abbindolare con tanta buona grazia! È anche vero che gli è stato risposto con un certo calore!.. Non fo per dire, ma il mio signor nepote, poichè oramai bisogna chiamarlo così, ha una eloquenza che va diritta al cuore. Non si sgomenta di nulla, lui! Vi guarda nel bianco degli occhi, e vi fa fare tutto quello che vuole; anche delle pazzie come questa. Ma saranno tutti ciechi e tre volte buoni come il padre Anacleto! Qui sta il busilli. – Il nepote, frattanto, pensava anche lui, mentre andava scambiando osservazioni col priore.
– Ha capito? Temo di sì. Per lo meno, il dubbio gli è nato. Ma egli è un gentiluomo, e non è andato più in là. Questa avventura mi piace. Ci sarà qualcosa da ridire; ma infine, si servano, io non ho da render conti a nessuno. E poi, sono con mio zio. Questo priore, che uomo! Il duca di Francavilla lo ha chiamato simpatico; ma mi pare che sia più di simpatico; un bel giovane addirittura; e senza saperlo, senza averne l'aria, come dovrebbero esser tutti. È la prima faccia d'uomo che vedo. O son tutti insipidi, svenevoli, come il duca di Francavilla, o duri, arcigni, antipatici… Che orrore! —
Vi fo grazia del resto. E non mi fermo neanche a dipingervi tutto quello che videro i nuovi ospiti di San Bruno. I conventi, su per giù, si rassomigliano tutti nella loro semplicità grandiosa ed umile ad un tempo, che credo entri per molto nella tenacità del sentimento che fa perdurare gli ordini monastici, che li fa sopravvivere alle leggi da cui sono stati colpiti. C'è una virtù arcana che attrae verso le mezze solitudini del chiostro, e quella forma architettonica stabilita, quasi invariabile, salvo nei minuti particolari, esercita un fascino sullo spirito moderno, che pure ha distrutto il pensiero onde quella forma è scaturita. Sono spariti i conventini, i monasteruzzi borromineschi di due secoli fa; il largo tipo dei chiostri antichi è rimasto, e se ne ricorda volentieri perfino… indovinate chi? il nostro soldato, che è stato così spesso ad alloggio nei vecchi monasteri tramutati in caserme.
Il convento di San Bruno, come tutti quelli del medesimo ordine, aveva i suoi quartierini, in cui ogni frate potesse viver solo, con la sua stanza da letto, l'oratorio, l'anticamera e la ruota per cui introdurre il suo pasto frugale, o metter fuori la scodella vuota. Ma la ruota, oramai, serviva soltanto per le lettere e i giornali, quando giungeva il postino; la stanza da letto non era più così nuda come al tempo dei camaldolesi; quanto all'oratorio, ognuno ci teneva la sua biancheria, i suoi abiti, e all'occorrenza i suoi libri più alla mano. Fratel Giocondo, ad esempio, ci teneva il Gattinara e il Pomino, due autori di sua predilezione, tra i quali da lungo tempo aveva istituito un confronto.
I due novizi furono condotti alle loro stanze. Il priore non aveva chiesto i loro nomi, ma li chiese allora il converso, facendosi avanti col registro dell'ordine.
– È vero; – disse il cherubino; – avevamo dimenticato di darli. Zio, incominciate. – Il vecchio prese la penna e scrisse il nome di Prospero Gentili.
Il giovine, con meno sincerità, ma con altrettanto coraggio, vi scrisse quello di Adelindo Ruzzani.
VI
E intanto, la signorina Adele Ruzzani, dov'era?
Domandiamolo al sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia. Il degno ufficiale del governo, che ha in mano il servizio della pubblica sicurezza di tutto il circondario, dovrebbe sapere ogni cosa. "Nulla sfugge all'occhio vigile dell'autorità" era una delle sue frasi predilette.
Ora, ecco ciò che sapeva il cavalier Tiraquelli.
Due giorni dopo quella sua famosa conversazione sotto il loggiato, egli vedeva di bel nuovo il suo interlocutore ed amico, il futuro commendatore signor Prospero Gentili.
– Orbene, come vanno le cose? – gli aveva chiesto senza dargli tempo di esporre le ragioni della sua visita mattutina. – A me pare che ci sia un progresso. L'ha notata anche Lei, l'attenzione vivissima con cui la sua bella nepote ascoltava l'altra sera il duca di Francavilla? È un buon segno; che ne dice?
– Sì, un buon segno, – ripetè il signor Prospero con aria distratta.
– Che? Non le pare? – gridò il sottoprefetto, che coglieva le mosche per aria.
– Ho forse detto il contrario? – chiese il signor Prospero, prendendo una scossa improvvisa.
E dentro di sè aggiunse:
– Non ci mancherebbe altro! Dopo che quella birichina m'ha fatto giurare!..
– No; – rispondeva frattanto il sottoprefetto; – ma credevo che Ella ci avesse ancora qualche dubbio.
– Per me, niente affatto; – ripigliò il signor Prospero. – Quantunque, per esser sicuri, sarà utile di parlare con lei.
– Lo faccia una volta, al nome di Dio. Se non lo fa Lei, chi ha da farlo?
– È giusto; – disse il signor Prospero, – è giusto. Gliene parlerò, appena saremo tornati da questo viaggio.
– Questo viaggio! – esclamò il sottoprefetto. – O dove?
– Come? Non gliel ho ancor detto? Ero venuto a bella posta per prendere congedo. Veda un poco dove ho la testa!
– E dove va? – tornò a chiedere il sottoprefetto, senza curarsi più che tanto di vedere dove avesse la testa il signor Prospero.
– A Milano, con mia nepote. Sì, pare che ciò sia necessario; – soggiunse il signor Gentili, notando un atto di stupore del sottoprefetto. – La mia Adelina ha certe spesucce da fare… —
Il cavalier Tiraquelli era visibilmente sconcertato dall'annunzio di quella gita.
– E dica… staranno molto? – domandò.
– Oh, non credo. Si tratta di una visita alla modista… Come sa, la mia nepote si serve d'ogni cosa a Milano. Ci sarà anche una conferenza col gioielliere, per rinnovare la legatura di tutte le gioie di famiglia. Anche per le gioie la moda è cambiata, e la mia nepote vuol tutte legature a giorno. —
La faccia del sottoprefetto si rasserenò.
– Potrebb'essere un indizio; – diss'egli.
– Indizio, di che?
– Non vede? Questa cura di rimettere a nuovo le sue gioie. Signor Prospero mio, non ha mai posto mente che, quando si avvicina il tempo della cova, la cingallegra si mette al grave, e va attorno pel bosco a beccar le pagliuzze, per comporre il suo nido? —
Il signor Prospero spalancò gli occhi e la bocca ad un tempo; gli occhi per ammirare e la bocca per ridere.
– Ah ah! – esclamò egli. – Ed io, bestia, non ci aveva pensato. Ella ha una grande penetrazione, signor cavaliere! —
Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia assunse un'aria conveniente all'ammirazione ond'era fatto argomento.
– Oh, guarda! – aggiungeva mentalmente il signor Prospero. – Quella birichina m'ha consigliato di metter fuori il pretesto delle gioie, ed io non ci ho scoperto il baco. Ma già, le donne hanno un punto più del diavolo.
– Benissimo, dunque, tutto va a gonfie vele; – disse il sottoprefetto. – Mi rincresce, per verità, che abbiano a stare lontani una settimana… Voglio credere che la loro assenza non durerà di più. Ad ogni modo, Ella mi scriverà, non è vero? Avrò così un buon argomento per consolare quel povero duca. Poveretto, è innamorato morto. Confessi, signor Prospero mio arcicarissimo, che una coppia così bella non si potrebbe immaginare, anche se non si trattasse di secondare un alto concetto politico di Sua Eccellenza.
– Eh, eh! – rispose il signor Prospero, seguitando a ridere. – Sono del suo parere.
– Ella, dunque, tasterà il terreno.
– Tasterò, non dubiti, tasterò. Quantunque…
– Quantunque, che cosa?
– Quantunque, dopo la spiegazione che Lei mi ha data sulle gioie e sui nidi, sarebbe quasi inutile; non le pare?
– Sì, ma, anche a prevedere una risposta, è chiaro che bisogna provocarla. E oramai, più presto si fa, meglio è. Io la consiglierei di parlarne a dirittura in viaggio. E mi scriva, sa? Appena ha qualche cosa di nuovo, me ne avverta. Se c'è un sì chiaro e tondo, lo mando per telegrafo al ministro. E la commenda vien subito. —
Il signor Prospero sospirò. Quella benedetta commenda, egli non l'aveva mai veduta così lontana come in quel punto.
Il mercoledì seguente fu freddo, almeno nel salotto della sottoprefettura. Il duca di Francavilla, che per solito era così gentile, così premuroso, con tutte le dame, giovani e vecchie, belle e brutte di Castelnuovo, per modo che non si sapeva quali fossero le sue preferenze, il duca di Francavilla scoperse quasi il suo giuoco, mostrandosi distratto nella conversazione, svogliato nel ballo, infastidito d'ogni cosa. La contessina Berta ebbe un bel tormentare il cembalo; non le toccò neppure un complimento. Ed anche lei fu noiosa parecchio. Le amiche trovarono che i suoi nervi erano più aristocratici del solito. E il ricevimento della sottoprefettura risentì di quella diversità d'umori; se non fosse stato il ricevitore del registro, che era sempre uguale a sè stesso, sarebbe parso un mortorio.
– Dunque, la bella Ruzzani è partita? – chiese la contessa Gamberini alla sottoprefettessa, su quel canapè di damasco rosso che i lettori conoscono.
– Sì, è andata a Milano per certe spese.
– Un matrimonio alle viste?
– Eh! – rispose la sottoprefettessa, non dicendo nè sì nè no.
– Qui non c'è nessun partito per lei, ch'io mi sappia; – ripigliò la contessa, cercando di scoprir terreno.
– Pare anche a me; – replicò la sottoprefettessa. – Ma forse ci sarà qualche domanda di fuori. —
La signora sottoprefettessa non era nel segreto di suo marito, o era d'una fintaggine a tutta prova. La contessa Gamberini non potè cavarne altro.
Intanto il sottoprefetto, sicuro del fatto suo, aspettava la lettera del Prospero. Il giorno stesso in cui il futuro commendatore era stato a prender congedo, per accompagnare la sua bella nepote a Milano, egli scriveva al ministro questa lettera confidenziale: