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L'undecimo comandamento: Romanzo
L'undecimo comandamento: Romanzo

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L'undecimo comandamento: Romanzo

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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– Buona volontà, amico mio, e il resto viene da sè. Leggete qualche libro d'agronomia; servirà per risvegliarvi le idee. Io ho avuto molto profitto dai Segreti di Don Rebo, dell'Ottavi; un libro aureo, che m'ha aiutato ad improvvisare quattro discorsi. Capirà, signor Prospero, che il mio campo non è l'agronomia. Io sono anzi tutto un uomo politico. Legga l'Ottavi, è una miniera; metta insieme quattro principii di scienza, per far da preambolo ai consigli della sua pratica, e vedrà. Come capitano della guardia nazionale aveva diritto alla croce di cavaliere; come agronomo l'avrà a quella d'ufficiale.

– Il commendatore è ancora lontano; – osservò il signor Prospero, ridendo.

– Tutt'altro; facciamo questo matrimonio, che tanto premerebbe al ministro per le ragioni che ho avuto l'onore di esporle, e avrà subito il collare.

– Capisco, capisco, sarebbe un premio per un fortunato incrociamento di razze.

– Ella ha molto spirito, commendatore; le faccio i miei complimenti.

– Oh, con Lei, signor prefetto, chi non ne avrebbe?

– Dunque, da bravo, abbia anche un poco della mia premura, e mi conduca questa faccenda a buon porto.

– Farò quel che potrò, ne stia certo. Se l'Italia ha da avere un benefizio da questo matrimonio, non sarò io che darò indietro. Ma badi, signor prefetto, io non sono che un tutore e uno zio. Posso consigliare, aiutare, spalleggiare; ma bisogna che il giovinotto, dal canto suo…

– Farà il suo dovere, non dubiti. Lo faremo tutti, il nostro dovere, perchè sia contento il ministro e incarnato il suo profondo disegno. Lo metteremo in evidenza, il duca di Francavilla, lo faremo brillare. E frattanto, incominciamo dal ritornare nella sala. Il sigaro è finito e non si deve sospettare che abbiamo a ragionare di troppe cose fra noi.

– Dice bene; andiamo. —

E il signor Prospero Gentili, zio materno e tutore della signorina Adele Ruzzani, fanciulla romantica come vi ho detto, e milionaria, come avrete capito, gittò il suo mozzicone dal loggiato nel sottoposto cortile; indi seguì il cavaliere Tiraquelli, sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, nella sala di ricevimento.

I soliti quattro salti non erano ancora incominciati, sebbene il maestro di musica avesse già tentate le dame e i cavalieri con gli accordi d'un valzer, e i ballerini più feroci della sottoprefettura fossero tutti presenti. Ma prima di dirvi il perchè di quell'indugio coreografico, credo necessario di darvi un'idea della sala. Non sarà un quadro, ma un semplice abbozzo.

Accanto alla sottoprefettessa, sul canapè di damasco rosso, che era la cattedra pontificale, il sancta sanctorum, e tutto quel che vorrete di più solenne là dentro, sedeva la contessa Gamberini, signora bofficiona e rosea, come contrapposto e compenso all'altra risecchita e giallognola. Tre quattro dame, delle più venerabili di Castelnuovo, sedevano nelle poltrone, vicino al canapè, facendo circolo alle due maggiori divinità. Altrettanti medaglioni mascolini si accompagnavano ai femminili. Erano i notabili di Castelnuovo, il sindaco, l'assessore anziano, il notaio, un magistrato a riposo, e via discorrendo. Pareva di vedere un lettisternio di Numi, sul fare di quelli che gli antichi romani collocavano in un luogo rilevato del triclinio, per avere gli Dei testimoni ed auspici ai loro banchetti. Se l'immagine pagana non vi garba, mettete che il canapè fosse un altare cristiano. Il signor sottoprefetto ne era il sacerdote; ed ora appoggiato ad un bracciuolo, in cornu epistolae, dov'era sua moglie, ora all'altro, in cornu evangelii, dov'era la contessa Gamberini, celebrava i divini uffizi, ministrava il verbo governativo ai fedeli.

Più in là, accanto ad una mensola enorme, su cui torreggiava uno specchio antico, dalla cornice intagliata e dorata, si raccoglieva un crocchio più allegro, sebbene le teste grigie vi abbondassero. Il ricevitore del registro, ottima persona, amante della burletta, intratteneva i suoi colleghi delle ipoteche, delle dogane e dei pesi e misure, con qualche storiella di gioventù e con qualche accenno discreto alla divina bottiglia. Quelli erano gli uomini che attendevano tutto il santo giorno al loro ministero, ma non amavano portarne il ricordo con sè, dopo la chiusura dell'uffizio.

Vicino al pianoforte, dall'altra parte della sala, era un altro crocchio, più numeroso, quello dei giovani. Lo dominava con tutta la sua autorità quadragenaria la signora Morselli, donna stimabilissima, che aveva un solo difetto, quello di credersi un soprano sfogato. Lo temperava, per altro, non cantando mai se non pregata e ripregata. E la pregavano, e la ripregavano sempre, non foss'altro, per sentimento di gratitudine; poichè la sua presenza dava a tutti i giovani dei due sessi un ottimo pretesto per rimanere lontani dal gruppo delle persone gravi, che pontificavano intorno al canapè di damasco rosso. In quel crocchio di giovani, amanti della musica, si degnava di stare più a lungo che altrove la contessina Berta Gamberini. Laggiù si vedevano i pochi zerbinotti di Castelnuovo; farfallini più o meno eleganti, che aliavano dal pianoforte ad una tavola rotonda, su cui, intorno ad una lampada Carcel, piantata in un vaso che voleva parere della Cina, erano disposti gli albi, le strenne, i giornali, ed altre curiosità, che ottenevano di tanto in tanto uno sguardo della signorina Adele Ruzzani.

Berta Gamberini e Adele Ruzzani erano i due poli di quel piccolo mondo.

I due poli magnetici, intendiamoci, e non i geografici, che non mi servirebbero di paragone, così freddi come sono, e circondati di ghiacci millenarii, mentre qui s'ha a descrivere la gioventù che piace e la bellezza che rimescola il sangue.

Berta, a dir vero, non era una bellezza da far ammattire la gente. Inoltre, appariva troppo grave, troppo compassata; e questo, se conferiva alla nobiltà dell'aspetto, nuoceva all'espressione. Ci si vedeva l'alterigia di cinque generazioni di Gamberini, ci si sentiva la degnazione, anche quando, pregata dalle amiche, metteva le mani sulla tastiera del pianoforte. Adele Ruzzani era più bella, più attraente, e, secondo i casi e gli umori, anche più amabile. Per altro, bisognava far l'occhio a certe bizzarrie. Adele Ruzzani portava i capelli corti, tagliati poco sotto all'orecchio, come un paggetto medievale. A taluni la novità piaceva, ad altri no; le amiche sostenevano che i capegli di Adele, scorciati fin da quando era bambina, duravano così, perchè non avevano voluto più crescere. Ma l'acconciatura di Adele Ruzzani era certamente un capriccio. Piacesse, o no, quella zazzerina bionda, che saltellava ad ogni moto del capo, si attagliava benissimo alla sua spiritosa figura. Adele Ruzzani, poi, non amava molto la musica; ballava per mera condiscendenza e non voleva parlar mai di mode. Non aveva i gusti femminili; le piacevano i discorsi gravi, quantunque non isgradisse di variarli spesso, saltando, come suol dirsi, di palo in frasca; si lagnava qualche volta di non sapere il greco e il latino, e prometteva d'imparar l'uno e l'altro alla prima occasione. Quasi sarebbe inutile il dirvi che l'occasione non veniva mai. A quella graziosa birichina mancava sempre il tempo di fare una cosa simile, e di desiderarla per due giorni di seguito.

Ad onta di questi difetti, che parranno piccoli o grossi, secondo il modo di vedere, i giovani facevano tutti la ruota davanti alla signorina Adele. Non sempre ci si trovavano bene, con lei, che aveva l'aria di canzonarli, e che li piantava lì su due piedi, non badando ai loro madrigali, per tener dietro ad un ragionamento di amministrazione, o di politica pura. Sì, Dio buono, anche di politica, che è il colmo dell'abominio.

– O perchè non lascia questi discorsi agli uomini? – si chiedeva qualche volta, vedendo la signorina Adele infervorarsi in quelle miserie dello spirito.

Domanda vana, che risponde ad un sentimento sciocco. Io, per me, vorrei che certi discorsi, con cui andiamo turbando la nostra esistenza mascolina, se li usurpassero pure le donne. Quando odo una bella figlia d'Eva ragionar di politica, Dio mi perdoni, l'abbraccerei. Ecco, io dico tra me, ecco una persona che ci trova gusto, a masticare questo pezzo di sughero!

Adele Ruzzani era dunque una fanciulla capricciosa. Ma, lo ripeto, non faceva fuggire nessuno. Quante cose non si permettono ad una coppia di milioni, quando vestono gonnella? Si può dir corna di quei milioni, desiderare di vederli spartiti, quegli spicchi di settantacinque centesimi, che toccherebbero ad ognuno, secondo i calcoli più diligenti, se la divisione fosse fatta con equità, dal primo dei livellatori all'ultimo dei livellati; ma intanto quei due milioni comandano il rispetto, incatenano lo sguardo. Si fa il filosofo, si torce il muso, si gira, ma ci si casca poi sempre, anche giurando che ciò si è fatto per la bellezza di due occhi, per la freschezza di due guance, e via discorrendo. Il fatto sta che si guarda quella bellezza due volte più delle altre, collocate su d'un piedestallo più umile, e si ha l'aria di voler trovare la ragione di certi riflessi dorati nella cavità dell'occhio e nel sottosquadro della guancia.

Resta sempre che bisogna essere scaltri e non lasciarsi scorgere. Le ragazze in genere sono furbacchiotte, e le ricche in particolare sono sospettose. Con loro, anche a non pensarci affatto, potreste passare per cacciatori di doti.

E scaltro la parte sua era il signor duca di Francavilla. Il giovane dilettante di archeologia preistorica mostrava un'eguale sollecitudine per tutti gli strati sociali di Castelnuovo. Faceva nobilmente la sua corte alle signore attempate; poi, senza parere, andava dalle giovani, prendendo posto in mezzo ai due crocchi, mettendosi all'equatore tra quei due poli, ora tenendo a chiacchiera la signorina Adele, ora la contessina Berta, parlando a questa di musica, a quella di viaggi. Per allora, la Gamberini amava discorrere di Riccardo Wagner, la Ruzzani della Nuova Guinea. E il Francavilla passava dal Lohengrin ai Papuas, con quella leggerezza, con quella disinvoltura che fa onore a chi parla e invidia a chi ascolta.

Nè, per la signorina Adele e per la contessina Berta, erano dimenticate le altre. Il signor duca di Francavilla pagava nobilmente l'ospitalità di Castelnuovo. Aveva gentilezze per tutte; gli bastava il cenno di questa o di quella per cambiar materia; pari alle farfalle di carta inventate dai giapponesi, svolazzava di qua e di là ad ogni soffio, e non toccava mai terra. Duca portentoso! E dire che quel giovinotto, uno tra i primi gentiluomini d'Italia, era là, ascoso in un circondario campestre, passando le mattinate a scavare il suolo delle caverne, e le serate a profondere il suo spirito nella sala di una sottoprefettura!

A proposito, e dove abbiamo lasciato il nostro ottimo sottoprefetto?

Un uomo simile non va trascurato. Egli è il primo in Castelnuovo Bedonia, non lo dimentichiamo.

Il nostro cavalier Tiraquelli era rientrato nella sala di ricevimento, in compagnia del fido signor Prospero Gentili, il cui volto aperto e sorridente pareva già lumeggiato dai toni caldi d'un collare della Corona d'Italia. Il futuro commendatore aveva fatto un mezzo giro a sinistra, per andare tra gli uomini gravi, nel consesso degli Dei, accanto al canapè di damasco rosso, dove sfolgoravano di luce propria la padrona di casa e la contessa Gamberini. Il sottoprefetto aveva fatto un mezzo giro a destra, verso il crocchio dei begli umori; aveva ascoltata con benevola gravità una barzelletta del ricevitore del registro; quindi, come un sovrano in volta attraverso le file de' suoi cortigiani, era andato verso il pianoforte, dove scoppiettava l'arguzia del duca di Francavilla.

– Signor duca, bene arrivato. Di che si parlava?

– Ah sì, Ella capita proprio a tempo, signor cavaliere, – disse il duca, ridendo. – Ce n'ho una che vale un Perù. Ella ha nella sua giurisdizione una meraviglia, ed io non ne sapevo ancor nulla. —

III

Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia atteggiò le labbra ad un sorriso tra l'arguto e il melenso, che rispondeva benissimo allo stato particolare di un uomo, il quale per ragione dell'ufficio dovesse indovinare a volo e che frattanto avrebbe voluto essere aiutato un pochino.

– Una meraviglia! – esclamò egli avvicinandosi e cercando di guadagnar tempo.

– Mi correggo; – ripigliò il duca di Francavilla. – Le meraviglie, nel suo circondario, sono parecchie, anzi più delle sette di cui si vantava l'antichità; – soggiunse egli, volgendo intorno una rapida occhiata, come se volesse sparpagliare il complimento tra tutte le sue ascoltatrici. – Ma intendevo parlare d'una meraviglia medievale, di una stranezza, d'un anacronismo… infine, per chiamar le cose col loro nome, del convento dei matti.

– Ah! – rispose il sottoprefetto, dando una rifiatata. – E lei, signor duca, si è inerpicato fin là?

– Certamente; il dilettante d'archeologia preistorica ha perduta la sua giornata, facendola guadagnare al curioso. Ho veduto il convento dei matti e ci ho mangiata anche la frittata dell'amicizia. —

Il duca di Francavilla non s'immaginava di aver fatto una cosa tanto singolare. Lo pensò, quando vide che tutti gli si strinsero intorno, come altrettanti bambini a cui avesse raccontato di essere andato alle tre montagne d'oro, o agli alberi del sole.

– Racconti, signor duca, racconti! – gli dissero.

– Penetrare nel convento dei matti non è mica una cosa facile!

– Davvero?

– Sicuramente, e Lei può stimarsi fortunato. Ci è una guardia così severa contro tutti i curiosi!

– È vero quello che se ne dice? – domandò la signorina Adele Ruzzani.

– Signorina… – rispose il duca, – io veramente non so che cosa se ne dica…

– Che ci sono in quel convento degli uomini in collera col mondo.

– Come tutti i frati, signorina.

– Che si lasciano crescere la barba fino alla cintura; – soggiunse la signora Morselli.

– E si scavano la fossa come i certosini; – rincalzò la contessina Berta.

– Signore mie, non ho veduto niente di ciò; – rispose il duca di Francavilla. – Ho trovato delle persone a modo, con le barbe regolari, ed anche col mento raso. Che siano in collera col mondo, mi par di capirlo dal fatto che si son dati alla vita monastica. Ma infine, non mi è sembrato che odiassero tutti, poichè mi hanno ricevuto benissimo, senza sapere chi fossi, e mi hanno lasciato andare via senza domandarmelo affatto.

– Essi, – notò il sottoprefetto, – non odiano che il sesso gentile.

– Oh brutti! – esclamò la signora Morselli, con un gesto di orrore.

– Già, – continuò il sottoprefetto, – abborrono le giovani; per aver grazia davanti a loro, bisogna essere venerabili. —

La signora Morselli che voleva essere annoverata fra le giovani, arricciò il naso, peggio che non avesse fatto da prima.

– Ma in che modo è andato a battere lassù, signor duca? – ripigliò il sottoprefetto, lasciando a mezzo il suo dialogo con la signora Morselli.

– Oh, in un modo naturalissimo, e quasi senza avvedermene. M'ero alzato stamane per tempo, e andavo al mio lavoro prediletto nella caverna della Ripa, quando mi venne udito dalla costa di rimpetto il rumore di alcuni sassi che si staccavano dall'alto e sdrucciolavano giù per la frana. Alzai gli occhi e guardai. Credetti alle prime di riconoscere un cane; ma la sua andatura guardinga per un sentiero così strano, mi pose in sospetto.

– Un lupo, forse? – disse la signora Morselli, fingendo un brivido di leggiadra paura.

– No, una volpe. Non istetti molto ad accertarmene, osservando la sua coda alta e vistosa. Avevo il mio fucile ad armacollo; ma la distanza era troppo grande e non mi fidai di lasciarle andare una botta. Un contadinello che veniva dietro a me, con un carico sulle spalle, mi disse: – "Badate, se volete prenderla, io posso insegnarvi il suo covo, che è là." – E mi additava una balza, sormontata da cinque o sei pini bistorti, a forse cinquecento metri dal punto ov'era la volpe. – "Vuoi tu accompagnarmi?" – gli dissi. – "Per ora, fino a mezza strada, – mi rispose; – ma se volete aspettarmi, tanto che io consegni questo carico alla badìa, vi accompagnerò fino alla tana." – Non sapevo che si trovasse una badìa da quelle parti, e domandai che frati ci fossero. – "Non son frati, – mi disse il contadino, – quantunque vestano da frati; il parroco dice che son lupi travestiti da pastori; la gente dice che son matti." – "E tu che cosa ne dici?" – "Che potranno benissimo esser matti, ma che di sicuro non sono lupi, e che non vanno vestiti da pastori, perchè hanno la tonaca, proprio alla maniera dei frati." – La cosa mi parve singolare. Lasciai correre la volpe e interrogai il contadino, sperando di cavarne qualche notizia intorno a quel convento di frati che non erano frati, di lupi che non erano lupi, e di matti che potevano esser savi, più di tanti e tanti che ne hanno la riputazione. Ma il contadino mi aveva detto quasi tutto quel che sapeva. Gli abitatori del convento non li conosceva; soltanto ne aveva veduti due o tre da lontano, e non era in relazione che col frate converso. Egli non mi sapeva descriver nulla, neanche l'abito di quei monaci, se avesse qualche particolarità notevole, che lo avvicinasse ad un ordine, o lo distinguesse da un altro. Ed io, curioso come… un uomo, risolsi di accompagnarlo fino alla porta del convento. Tanto, a sentir lui, era tutta strada per andare verso i pini, dove ci aveva il suo covo la volpe. Mi allontanavo invece dalla mia caverna ossifera; ma questa mi avrebbe sempre aspettato. Eccomi dunque, signore e signori, in viaggio per il convento dei matti. Si passa un torrentello, si entra in una forra, si scende ancora, fino ad un ponte massiccio, d'un arco solo, che mette ad una torre quadrata con le sue feritoie in basso, le sue caditoie in alto e i merli sul colmo, come ogni torre che si rispetta.

– Dio, come descrive bene! – mormorò la signora Morselli. – Par di vederla.

La modestia del duca di Francavilla fece le viste di non aver udita la mezza voce del soprano sfogato.

– Di là dal ponte, – diss'egli, continuando, – è una macchia fitta di frassini e di cerri che nasconde il sentiero. Che pace, là dentro! Solo a vedere quella conca di verde cupo, ho intesa la vita monastica, e per cinque minuti ho invidiati i santi uomini che vissero là dentro, ignorati dal mondo.

– Fino alla soppressione delle fraterie; – notò il sottoprefetto. – L'eremo di San Bruno è stato venduto dieci anni fa.

Le signore mostravano desiderio di udire la continuazione del racconto. E il duca proseguì:

– Entrato sotto il portico in compagnia del contadino, vidi il frate converso, un giovialone con tre giri di pappagorgia, tondo come una botte, ma giovane ancora, e con due occhietti neri che non stavano mai fermi. Voleva parere arcigno, ma non gli riuscì. – "Che cosa vuole, questo signore?" chiese egli al contadino. – "È un cacciatore, e domanda di riposarsi un poco." – "E vorrà un bicchier di vino, m'immagino." – "Padre, – risposi io, – l'ora è troppo mattutina." – "Che! mattina o sera, è sempre ora di bere." – "Concedo, ma a patto che si sia mangiato un boccone." – Il converso mi guardò con aria compassionevole. – "Non è l'opinione di tutti i filosofi; – rispose; – Anassagora pretende che si debba ber vino soltanto post pastum; Zenone invece sostiene che potum semper juvabit." – Volli mettermi anch'io all'altezza di quella erudizione burlesca e replicai: – "Ambedue s'accordano per combattere la dottrina di Talete." – "Ah sì? – ribattè egli con accento tra il burbero e il rabbonito. – E che cosa dice Talete?" – "Aqua optima rerum." – "Per risciacquarsi il viso una volta alla settimana, non nego." – "Padre, io m'inchino alla sua equanimità; il mondo fu più severo di Lei, e condannò il sistema di Talete all'oblìo." Queste parole mi fruttarono un sorriso del frate converso, il quale mi disse: – "Venga al convento e farà colazione." – In ogni altra circostanza avrei ringraziato, rifiutando; ma quella fortunata occasione di visitare un convento di matti non era da lasciarsi sfuggire, e ringraziai, accettando. Signor ricevitore, non avrebbe fatto lo stesso? Intanto, guardavo il mio uomo, così tondo e così vispo, con quella sua tonaca color tabacco, tutta strappi e frittelle. L'illusione era perfetta; avevo davanti un vero frate torzone. Sbrigatosi dal contadino e preso l'involto sulle braccia, il converso mi accennò di seguirlo. La strada era più grande che non l'avessi creduta da prima, vedendo quella macchia così fitta di cerri e di frassini. Il mio strano compagno mi domandò se fossi del paese, ed io notai l'aria di contentezza che si dipinse sulla sua faccia rubiconda, appena gli ebbi detto che ero forestiero, che mi trovavo a Castelnuovo per ragione di studio. "Il priore è gentilissimo, – mi disse, – e sarebbe anche ospitale, se le visite non fossero quasi sempre di curiosi, che vogliono sapere chi siamo, e perchè viviamo qui ritirati." – "Non vorrei essere importuno" – mi affrettai a rispondere. – "No, non ci pensi neanche; – replicò il converso! – Lei è uno studioso, dunque non è un curioso." – Mi parve che la distinzione fosse molto arbitraria, ma lasciai correre, pensando che lo studioso mascherava abbastanza bene il curioso e che sarei potuto giungere a quel benedetto convento. La strada costeggiava un rigagnolo, ma a poco a poco si alzava sul fianco della collina. Qua e là, a giuste distanze, sorgevano certi tabernacoli, che rispondevano alle stazioni della Via crucis. Dalle vette circostanti si vedevano spuntare i tetti dei romitorii. Finalmente, svoltato un angolo tra due poggi, mi si parò davanti agli occhi una valle, con qualche segno di coltivazione, e un grosso edifizio nel mezzo.

– Il convento di San Bruno: – disse il sottoprefetto, approfittando di una pausa del narratore. – È stato venduto per ottomila lire, e un solo taglio d'alberi ne ha fruttate cento cinquantamila.

– Ai frati nuovi?

– No, a certi speculatori che avevano comperato l'eremo e poi lo hanno rivenduto ai frati nuovi, ai matti, come li chiamano in paese.

– Son matti davvero! – gridò la signora Morselli. – Odiare le donne! Ma si può dar di peggio?

– E quanti sono? – chiese Adele Ruzzani, a cui piacevano poco tutte quelle interruzioni.

– Nove, per ora, ma se ne aspettano cinque.

– Graziosi, quei novizi! – esclamò il sottoprefetto.

– Avanti, coi nemici delle donne! – ripigliò la signora Morselli. – E Lei, cavaliere, non li obbliga a smettere?

– Signora, mi dica lei come si potrebbe farlo. Sono in regola con tutte le leggi dello stato. Non sono mica una famiglia di monaci all'antica; sono una brigata d'amici che vivono in comune, e non domandano d'essere riconosciuti come ente morale.

– Non ci mancherebbe altro! un ente morale, questo covo di celibi!

– Covo di celibi! Ben trovato! Come a dire un covo di bricconi; – gridò il duca di Francavilla, dando la sua occhiata in giro, per comprenderci anche la signorina Adele, senza aver aria di far preferenze:

– Bisogna disfare il covo! – ripicchiò la signora Morselli, facendo di buona voglia la sua parte di mamma. – Signor cavaliere pensiamoci.

– Eh, pensiamoci pure; – disse il sottoprefetto con aria di condiscendenza, temperata da un sorrisetto e da una crollatina di spalle. – Se in Parlamento penseranno a votarmi una legge contro il celibato, non dubiti, mi metterò subito in campagna, con una mezza dozzina di carabinieri. Signor Prospero, Lei mi aiuterà, chiamando sotto le armi la guardia nazionale.

– Propongo un altro metodo; – entrò a dire il ricevitore del registro. – Sono quattordici, i frati di San Bruno? Si va col sindaco e con quattordici ragazze da marito.

– Bella trovata! – gridò la signora Morselli. – Resta a vedersi se le ragazze di Castelnuovo si degneranno di fare la strada per quei quattordici sciocchi. Già m'immagino che saranno anche brutti.

– No, signora mia; – rispose il duca di Francavilla; – li ho veduti in refettorio e…

– A proposito. Ella deve continuare la sua storia, signor duca. Era rimasto… Dov'era rimasto?

– In vista del convento. Ma il resto del viaggio può esser soppresso, senza nuocere alla chiarezza del racconto.

– No, no, vogliamo tutto, dall'a fino alla zeta.

– Non le facciamo grazia d'una virgola.

– Capisco, – disse il duca ridendo, – non mi permettono di far punto.

– Incominci, la prego, a non far punto e virgola; – gridò quel capo ameno del ricevitore.

– Obbedisco; – replicò il duca di Francavilla, inchinandosi. – Dalla svolta a cui eravamo rimasti, fino al convento, sono forse mille passi, e la strada scende insensibilmente fin là. Non si direbbe che, in un luogo alpestre come quello, si nasconda una valle, e direi quasi una conca, di così dolce declivio. Ah, non è questo che vogliono, signore mie? Accettino dunque il mio metodo; prendiamo la via più breve ed entriamo difilati in convento. È fabbricato come tutti gli altri, ha un portone, un androne, un parlatoio; certi santi dipinti a fresco lungo le pareti, e i miracoli di san Bruno nelle lunette tra i cornicioni delle mura e gli archetti della vôlta; un cortile con un porticato in giro, il pozzo nel mezzo, e gli ortaggi intorno al pozzo. Dico male; ortaggi, no; ci hanno piantato dei fiori. E questi fiori mi hanno dato da pensare. Perchè dei fiori, nel convento dei matti? Non è una comunità di odiatori delle donne? Ora, dove non si amano le donne, e che servono i fiori? Io non mi ci raccapezzo, e lascio il quesito ad ingegni più accorti del mio. Accennerò soltanto una cosa, che potrà servire come schiarimento agli studiosi. Il frate converso mi ha detto che il priore non ama l'aglio e tollera appena il prezzemolo nella frittata.

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